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Globalizzazione ed etica
Osservazioni dal disincanto
di Francesco Saverio Trincia

Sommario:

Francesco Saverio Trincia riflette, in questo saggio, sul problema attuale del rapporto tra globalizzazione ed etica, ponendosi in una prospettiva teorica che salvaguardi la possibilità del discorso normativo, pur all’interno della socialità mondializzata. L’ipotesi è sorretta dall’evocazione di un nuovo logos filosofico, come nuovo stile di pensiero, ancora da inventare e praticare, nel quale i motivi di quella che si configura comunque come una critica della globalizzazione nei suoi effetti di debilitazione del pensare e dell’agire responsabile dei singoli possano esprimere le esigenze di una singolarità del fare, dell’essere, del desiderare, del godere che non perde il contatto con le richieste dell’universalità, in una messa in questione critica dell’accettazione non discussa di una fine della dimensione politica a vantaggio di un ripiegamento individuale.

Prima pagina:

La situazione concettuale, ma anche fattuale ed empirica e persino psicologica, con cui è destinato ad incontrarsi o scontrarsi chi tenti di  elaborare il tema tenendo fermi i suoi estremi, appunto la globalizzazione e l’etica, non induce all’ottimismo circa la raggiungibilità di qualche risultato conoscitivo non banale. Tutto infatti si può dire del tema, tranne che esso circoscriva un ambito sufficientemente perimetrato, che indagato con sufficiente competenza, e sul presupposto che tale indagine meriti e possa avere successo, ci conduca a concludere che un rapporto tra globalizzazione ed etica esiste e che esso può essere presentato ad un grado sufficiente di obiettività e comunicabilità. Già la condizione dei due termini si presenta affetta da una rilevante indeterminatezza e da un’ampiezza semantica che non facilita l’analisi. Appare diffusa convinzione che la globalizzazione sia il fenomeno della unificazione mondiale di mercati sempre più sottratti all’intervento regolativo degli stati nazionali, e che una componente essenziale ne sia una forte omologazione delle culture diffuse, e dunque una perdita della specificità culturali locali (che tuttavia resistono nella tensione tra unificazione mondiale e localismo,  da considerarsi ormai la vera struttura di fondo del fenomeno). D’altra parte, altrettanto scontato, e persino ovvio, è il significato corrente di quel che chiamiamo etica, una delle parole più inflazionate nella chiacchiera politica, ma anche nettamente sovraesposto nell’ambito della ricerca scientifica, come conseguenza tra l’altro dell’esplosione delle questioni bioetiche. Etica è, in linea generale, e per chi creda ancora alla distinzione tra fatti e valori, la prescrizione normativa di comportamenti mondani anzitutto individuali in larga misura universalizzabili.
Ora, questa osservazione è già da sola sufficiente a mostrare la difficoltà dell’incontro e di un’interazione possibile tra globalizzazione ed etica. Abbiamo infatti, da un lato, un fenomeno tipico del capitalismo in quanto tale, contrassegnato da un’espansione delle dimensioni degli scambi che rende ancor più lontano e problematico il contatto con un qualsiasi ambito del decidere, individuale o sociale, orientabile in senso normativo o anche solo giuridico, e dunque altrettanto problematica l’identificazione  di un possibile luogo di aggancio della domanda etica. Abbiamo o dovremmo avere dall’altra parte, non la semplice preoccupazione circa gli esiti antropologici e gli equilibri morali e sociali della globalizzazione, ma l’indicazione che qualcosa si può e dunque si deve fare perché il fenomeno, avvertito come oscuramente pericoloso, possa essere in qualche misura condizionato, se non orientato. Poiché tuttavia non accade e non si vede neanche come possa essere prefigurato proprio quello che si chiede che accada, ossia l’intervento etico teorico e pratico nel fenomeno della globalizzazione, in certa misura trasformatosi in semplice evento o accadimento sfuggente a una qualche imputabilità dell’agire e a una qualche responsabilità di soggetti, quel che residua del tema è proprio ciò che ne rappresenta il significato più autentico, bisognoso di un riconoscimento non filtrato e non protetto dall’intervento più o meno incontrollato di facili ottimismi.

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PUBBLICATO IL : 31-12-2010
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