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Lorenzo Greco, L’io morale. David Hume e l’etica contemporanea , Liguori, 2008
di Federico Morganti

In base a un pregiudizio assai duro a morire, riscontrabile non soltanto a livello di “manualistica” ma perfino nella critica più rigorosa, il tentativo anti-metafisico apportato da David Hume nel Treatise of human nature costituirebbe in fondo un tentativo di demolizione della filosofia stessa, con protagoniste assolute la nozione di ‘causa’ e quella di ‘io’. Rispetto alla prima – da Hume sottratta al dominio della giustificazione razionale per essere riconsegnata a quello della processualità biologica, al pari della respirazione o della manualità prensile –, il filosofo scozzese è di frequente additato come colui che avrebbe confutato la validità del procedimento induttivo e reso gli esseri umani schiavi di una «fede irrazionale» (Popper). Quanto alla nozione di ‘io’, la celebre teoria humiana del fascio di percezioni, caratterizzata dall’intento di desostanzializzare quella nozione, avrebbe come inevitabile ricaduta «l’impossibilità di indicare l’io, di individuarlo in qualcosa di fermo e invariabile» (p. 7). Non solo: dal momento che Hume, nelle restanti pagine del Trattato, incurante della sua stessa opera di demolizione, persiste nel riferirsi all’io come a qualcosa di solido e di concreto, la sua filosofia sarebbe con ciò tacciabile della più grave inconsistenza e contraddittorietà.
Il testo di Greco ha come scopo principale quello di smantellare questa visione dell’io humiano, secondo la quale “il problema dell’io” sarebbe per le bon David sostanzialmente un problema di identità personale. Dal momento che il filosofo scozzese espone la propria posizione sul tema nel primo libro, si ritiene solitamente che le questioni affrontate nei successivi due libri vadano lette alla luce degli esiti del primo. In quella che è divenuta la maniera standard di leggere Hume (che va sotto il nome di Reid-Beattie Interpretation), il primo libro del Trattato – «Of the Understanding» – conterebbe già tutti gli strumenti alla luce dei quali leggere il resto dell’opera. Capovolgendo questa interpretazione, Greco si propone di dimostrare come la riflessione humiana sull’io non si risolva affatto nell’analisi dell’identità personale e dunque non vada affrontata sul piano strettamente teoretico (si potrebbe dire “cognitivo”), bensì su quello pratico e passionale. È solo all’interno di un contesto di interazioni sociali che l’individuo humiano può cogliersi come un io morale caratterialmente connotato e dunque moralmente responsabile.
La scansione del libro di Greco ricalca, quanto ai primi tre capitoli, la struttura stessa del Trattato humiano. Il primo capitolo affronta dunque il problema dell’io per quanto attiene alla questione dell’identità personale, affrontata da Hume nella IV parte del primo libro e nell’Appendice. La prima tesi avanzata da Hume sull’identità personale è molto nota: contrariamente all’opinione di molti filosofi, tra cui Cartesio e Locke, non abbiamo alcuna idea di un io identico, semplice e continuo, poiché non siamo in grado di indicarne l’impressione corrispondente. Piuttosto, ciò che scopriamo quando volgiamo lo sguardo a noi stessi è una successione di percezioni mutevoli, indipendenti, che non hanno bisogno di alcun supporto per la loro esistenza. La mente humiana – senza dimenticare che «l’io non è altro che la mente» (p. 26) – non è una sostanza cui le percezioni ineriscono, ma è soltanto l’insieme delle percezioni che “compongono” la mente (il termine “comporre”, in quanto contrapposto ad “appartenere” o “inerire”, è utilizzato dallo stesso Hume nell’Abstract), o, metaforicamente, il palcoscenico su cui queste si susseguono. L’attribuzione di identità alla mente è dunque il frutto di una “finzione” dell’immaginazione che, con l’ausilio della memoria, ascrive l’identità secondo le relazioni di somiglianza e causalità. Se nella sezione sull’identità personale il problema di Hume era quello di conoscere la mente come oggetto, nell’Appendice il problema diventa «come determinarla in quanto principio unificante l’esperienza» (p. 33): come può infatti la mente, che è un mero fascio di percezioni, essere essa stessa la garanzia della propria unità? È su questo punto che Hume, insoddisfatto di qualunque soluzione, depone le armi; ed è sempre riguardo a questo punto che molti intravedono il crollo dell’edificio humiano, il cui unico merito sarebbe quello di esplicitare le intrinseche contraddizioni della tradizione empiristica, oppure quello di preludere all’altrui soluzione, nella fattispecie quella kantiana.
Ora, nel passaggio dal primo al secondo libro – «Of passions» – ciò che salta immediatamente agli occhi è il fatto che Hume reintroduca senza esitazione la nozione di io, presentandolo peraltro «come qualcosa di cui avremmo consapevolezza diretta» (p. 53). Come spiegare tale apparente contraddizione? In effetti, nota Greco, è lo stesso Hume a porre nel primo libro un’avvertenza cruciale nello studio dell’identità personale: «dobbiamo distinguere fra l’identità personale in quanto riguarda il pensiero o l’immaginazione e in quanto riguarda le passioni o l’interesse che prendiamo a noi stessi. Qui si parla soltanto della prima» (Treatise, libro I, parte IV, sez. 6, cpv. 5). Secondo la lettura di Greco, la nozione humiana di io presenta una connotazione tale che «se si resta nella prospettiva del primo libro del Trattato, semplicemente non si può vedere» (p. 59). Se ha senso parlare di un io nella filosofia humiana, bisogna allora comprendere come esso vada anzitutto caratterizzato in termini passionali, e, in secondo luogo, come esso si realizzi compiutamente solo in termini morali. Ciò che permette quella consapevolezza diretta dell’io come qualcosa di semplice sono infatti soltanto le passioni, che a loro volta non sono mai astratte rispetto al contesto morale in cui estrinsecano la propria importanza.
Il secondo capitolo ha dunque per oggetto il rapporto tra l’io e le passioni. Qui, sono le passioni dell’orgoglio e dell’umiltà a rendere possibile il riferimento all’io come qualcosa di semplice e irriducibile. Quando proviamo orgoglio per qualcosa, questa passione non la riferiamo alla collezione di percezioni che compongono la mente, ma a un io di cui siamo vivamente consapevoli. Queste passioni, dice Hume, hanno l’io come proprio ‘oggetto’. Ma in che senso? «L’io è effetto di orgoglio e umiltà come l’effetto lo è della sua causa? L’io è prodotto da orgoglio e umiltà? Oppure l’io attiva orgoglio e umiltà?» (p. 71). La tesi di Greco è che l’io si presenti simultaneamente a queste passioni. Non c’è alcun io che segua o preceda la loro comparsa; il loro rapporto è piuttosto quello di reciproca costituzione: «l’io si mostra con queste specifiche passioni» (p. 73), continuamente sollecitate dalle esperienze del mondo sociale e morale.
Il punto fondamentale dell’esposizione di Greco, pertanto, è che questa percezione simultanea dell’io e delle passioni dell’orgoglio e dell’umiltà è perfettamente in grado di ovviare ai problemi sull’identità personale sviscerati da Hume nel primo libro. Quelle passioni sono cioè in grado di fare ciò che l’immaginazione non poteva: quest’ultima non è in grado di giungere a una conoscenza compiuta dell’io, e tuttavia di questa conoscenza gli esseri umani possono farne a meno: «L’io oggetto di orgoglio e umiltà non corrisponde a qualcosa che conosciamo, ma è il frutto del nostro provare emozioni» (p. 74, corsivo mio). In altre parole, fra la strategia (fallimentare) del primo libro e quella del secondo vi è, secondo Greco – ma anche S. Purviance, N. Capaldi ed E. Lecaldano, tra gli altri –, una netta discontinuità: l’io si costruisce anzitutto come oggetto di ‘interesse’, in maniera immediata, senza il bisogno di ricorrere ad alcun principio di associazione mentale. E questo interesse che annettiamo all’io, cioè alle nostre esperienze passate e future, «è un prerequisito perché possa darsi un io morale» (p. 79). Nello svolgersi della nostra vita sociale e morale, il nostro io ci si presenta come oggetto di interesse molto prima che qualsiasi interrogazione scettica possa scalfire tale certezza. V’è, in altre parole, un «presupposto preconcettuale» (p. 83) di natura passionale, corporea e dunque morale che sorregge la nostra idea dell’io. Come accade anche per altri concetti filosofici – ad esempio i concetti di ‘necessità’ e ‘obbligazione’ – in Hume la realtà sociale e biologica ha sempre una certa precedenza sulla riflessione filosofica e sui dubbi scettici che quest’ultima, se lasciata sola, tende a sollevare. Così, dal punto di vista delle passioni, più che risolta la domanda sull’unità della coscienza viene trascesa: «il problema non è più se l’io si mostra come qualcosa di più di un insieme di percezioni, poiché esso si mostra come il riflesso di una consapevolezza di sé che possediamo in quanto soggetti in carne e ossa che provano sentimenti, grazie alla quale siamo in grado di identificarci, vale a dire di sentirci come degli io semplici» (p. 89, corsivi miei).
In ultima istanza, assumere un’io isolato che indaga se stesso sulla base di criteri filosofici astratti è, agli occhi di Hume, un’assurdità. Questo è il senso dell’importante paragrafo in cui Greco, recuperando la terminologia di Nicholas Capaldi, descrive il passaggio, operato dal filosofo scozzese, dalla prospettiva dell’“io penso” a quella del “noi facciamo”. Con Hume si realizzerebbe cioè l’abbandono di quell’ottica “cartesiana” – di cui egli è comunque erede, sia pur critico – basata sul presupposto di «un soggetto autonomo e razionale che si oppone a un mondo di oggetti» (p. 92). Secondo Hume, privilegiare in questo modo l’atteggiamento teoretico di un soggetto isolato non può che condurre, su tutti i piani, a uno scetticismo estremo. Il passaggio qui operato è dunque quello che va dall’individuo in quanto ‘soggetto’ all’individuo in quanto agente socialmente connotato, perché intercalato all’interno di un contesto di interazioni che include altri doers, altri attori morali. La dimensione teoretica non può che costituire un ex post che interviene su principi della natura umana che si danno indipendentemente dalla riflessione filosofica, mentre la razionalità filosofica da sola, all'oscuro di quei principi, è incapace di comprendere perfino se stessa. La pretesa di raggiungere «un “punto archimedeo” da cui osservare la vita comune dall’esterno» (p. 99) è una mera illusione poiché «qualsiasi punto di vista è […] esso stesso il prodotto di quella dimensione che si vuole valutare. I principi humeani che permettono di spiegare e ordinare l’esperienza crescono storicamente a partire dalle pratiche esistenti e, al tempo stesso, sono una riflessione su di esse» (ibid.).
In questo processo, è la simpatia a rivelarci un mondo pubblico di io: essa soltanto ci rende attenti e sensibili al giudizio altrui e dunque in grado di provare orgoglio e umiltà. Ecco perché Hume parla del nostro io come ciò di cui ci preoccupiamo e per cui proviamo interesse; grazie alla simpatia reputiamo di alto valore l’opinione che gli altri hanno di noi e, di conseguenza, siamo in grado di provare le passioni dell’orgoglio e dell’umiltà, che ci permettono di coglierci come degli io semplici. Proprio a quest’altezza si realizza dunque il passaggio all’io morale (argomento del terzo capitolo), rispetto al quale risulta decisiva la nozione humiana di ‘carattere’. Com’è noto, Hume intende per carattere l’insieme delle passioni che l’esperienza e il custom (l’abitudine, come generalmente si traduce in italiano) hanno reso principi stabili e duraturi della mente in grado di motivare il comportamento umano. Questi principi hanno dunque una natura disposizionale, al contrario del carattere come tale che costituisce «una condizione causale a lungo termine» (p. 128); quasi tutti i commentatori sono in tal senso concordi nell’affermare che Hume sostiene una tesi ‘realista’ sul carattere, nonostante tale realismo sia poi concepito in modi diversi. Il carattere, secondo Greco, è ciò che consente agli individui di concepirsi come ‘narrazioni’, con una storia unica e irripetibile che sono in grado di riferire a se stessi: «Le esperienze passate trovano una collocazione nella storia individuale di una persona perché contribuiscono alla consapevolezza presente che la persona ha del proprio carattere» (p. 133).
Dal percepirsi come un’io dotato di carattere, ossia di una storia personale che ha plasmato le passioni rendendole principi stabili della mente, al cogliersi come un io morale, il passo è breve. Questa consapevolezza deriva «dall’osservazione continua del nostro carattere come virtuoso o vizioso» (p. 140). Per Hume virtù e vizi non sono altro che quelle qualità della mente in grado di suscitare rispettivamente amore o orgoglio e odio o umiltà, in quanto utili o piacevoli per sé o per gli altri; se, al contrario, le azioni non sono causalmente riconducibili a principi stabili del carattere, esse non saranno mai in grado di produrre quelle passioni e pertanto non avranno alcun peso nella valutazione morale. L’io morale coincide dunque con la consapevolezza che abbiamo di noi stessi in quanto persone con un carattere che è suscettibile di virtuosità e viziosità; ancora una volta, è dunque evidente il primato in Hume della dimensione pratico-sociale in cui si danno i giudizi di lode o biasimo, a partire dalla quale soltanto gli esseri umani possono concepirsi come degli io semplici.
Ora, com’è possibile che gli individui raggiungano un generale accordo sui giudizi morali, cioè su ciò che è virtuoso e ciò che è vizioso? In maniera assai oculata e puntuale Greco si sofferma qualche pagina su quello che Hume definisce un «punto di vista fermo e generale». Tale punto di vista non è altro che ciò cui ci appelliamo per superare l’imparzialità che può caratterizzare i nostri sentimenti e dunque inficiare i nostri giudizi. È un mero dato di fatto empirico che la nostra ammirazione per la virtù e il disprezzo per il vizio non mutino con il variare della simpatia, bensì si mantengano entro margini più o meno stabili a prescindere dalla collocazione spaziale e temporale. Grazie a opportune correzioni da parte della riflessione «siamo in grado di reagire sentimentalmente secondo quanto proveremmo qualora ci trovassimo in una condizione in cui la nostra posizione contingente fosse messa tra parentesi» (p. 150). La riflessione, cioè, ci consente di abbandonare i nostri sentimenti più parziali, ad esempio l’odio che proviamo per un nostro nemico, per “recuperare” quei sentimenti che sono generalmente sollecitati in determinate condizioni. Inoltre, laddove la forza di questi sentimenti risultasse inadeguata, ci viene in aiuto in linguaggio, ossia i giudizi (o anche soltanto i modi di dire) che permeano la conversazione e possono dunque aiutarci a rettificare i nostri sentimenti. Ora, puntualizza acutamente Greco, il punto di vista generale non costituisce affatto una astrazione dal contesto. Per quanto esterno, il punto di vista generale non può essere definito, a rigore, “imparziale”, in quanto risente inevitabilmente dell’appartenenza a un certo background sociale e dunque riflette gli standard di giudizio maturati in esso. Quel punto di vista è dunque il frutto delle incessanti interazioni tra gli individui, che hanno portato all’adattamento reciproco degli interessi in gioco e dunque alla convergenza, sia pur imperfetta, tanto dei sentimenti che dei giudizi. Il punto di vista fermo e generale, così indispensabile alla morale, «è espressione della storia degli esseri umani: non è una posizione determinabile in anticipo, bensì è l’esito di un processo che si è svolto per svariati tentativi, in cui si è giunti a un bilanciamento delle passioni di coloro che sono stati coinvolti» (p. 157).
Così, grazie a questo standard condiviso di giudizio siamo in grado di riconoscerci come degli io morali, ossia persone con un carattere i cui tratti possono essere approvati o disapprovati. Quegli stessi standard di giudizio, inoltre, possono per tali motivi costituire delle ‘ragioni’ per l’azione. In consonanza con la posizione oggi detta ‘internalismo’, in Hume si realizza la conciliazione del punto di vista dell’osservatore con quello dell’agente, poiché le stesse passioni che da un punto di vista generale giudichiamo virtuose sono anche quelle che dal nostro punto di vista di agenti morali giudichiamo obbliganti e motivanti. Ciò è possibile solo nella misura in cui il punto di vista generale è ottenuto non a partire da principi astratti, ma dalle stesse passioni umane, consolidatesi nel corso della storia delle interazioni tra gli individui: in tal modo, «siamo portati a riconoscere le ragioni che risultano da un punto di vista fermo e generale come motivi per agire in un certo modo, e pertanto a organizzare la nostra condotta secondo i dettami della morale» (p. 170).
L’ultimo capitolo del volume, in ossequio al suo sottotitolo, si preoccupa di collocare il modello humiano entro il più ampio contesto della discussione contemporanea, anche allo scopo di fornire una sua più chiara caratterizzazione. Cercherò di cogliere, all’interno di questo vaso confronto, i punti più importanti. Vi sono, in primo luogo, numerose differenze che possono essere individuate tra Hume e il modello utilitarista, che tuttavia sembrano convergere su una differenza fondamentale: l’utilitarismo – se non altro nella sua versione contemporanea –, dato il suo obbiettivo di massimizzare la felicità o utilità generale, attribuisce valore alle persone non già in quanto quelle particolari persone e non altre, ma solo in quanto cause astratte di piaceri e dolori dar far rientrare nel calcolo di massimizzazione. Non c’è, in altre parole, alcuna considerazione per l’individualità delle persone in quanto tale, e questo è senza dubbio un grosso punto di distacco da Hume, stante l’accento posto da quest’ultimo sull’aspetto narrativo, dunque unico, del carattere delle persone. Quanto al confronto con il modello kantiano – anch’esso analizzato in una delle sue derivazioni contemporanee, nella fattispecie quella di Christine Korsgaard – la maggiore differenza ravvisata da Greco concerne «quella capacità di pensarsi in maniera riflessiva» (p. 187) che entrambe le prospettive pongono al centro dell’etica umana, pur caratterizzandola in due modi che non è esagerato definire opposti. Secondo Korsgaard, esiste un’esigenza, una «domanda normativa», la cui risposta non può semplicemente essere ricercata nel mondo, magari attraverso un’indagine della natura umana, «perché il suo stesso darsi sarebbe frutto della nostra consapevolezza riflessiva, e si porrebbe solo dalla prospettiva in prima persona di colui che agisce, come espressione diretta della sua volontà» (p. 188). La risposta a quell’esigenza proviene allora, kantianamente, dalla volontà libera degli agenti razionali, che essi stessi riconoscono come necessariamente e universalmente obbligante. Per Hume, al contrario, l’«accettazione riflessiva» che concerne i precetti dell’etica avviene sempre dall’interno di quest’ultima, mai a priori, poiché è lo stesso sentimento morale impiantato nella natura umana «che, riflettendo su se stesso, conferma sé medesimo» (p. 191) assumendo in tal modo una valenza normativa. La moralità non è il frutto di un progetto razionale e consapevole, ma è piuttosto un “istinto” che semplicemente abbiamo e che, almeno in parte, ci determina, o meglio un insieme di disposizioni che soltanto a posteriori possiamo fare oggetto della riflessione filosofica. Ed è proprio la possibilità di questa “correzione riflessiva” – che avviene sempre dall’interno della condizione umana e di quel particolare contesto sociale – a permettere di scorgere, ad avviso di Greco, la «valenza intrinsecamente riformatrice della proposta humeana» (p. 207).
Importanti distinguo sono poi operati da Greco riguardo a una possibile interpretazione ‘comunitarista’ del modello humiano. Come testimoniano autori quali Sandel e Taylor, anche i comunitaristi criticano l’idea di un soggetto trascendentale e “incorporeo” che sia svincolato da ogni appartenenza di tipo sociale o culturale. Come per Hume, l’agentività morale è per costoro «il riflesso di una natura biologica che può realizzarsi pienamente solo all’interno di una cultura» (p. 217). Tuttavia, contrariamente a questa impostazione, Hume non afferma affatto la coincidenza dell’io morale e dell’io sociale; si tratta senz’altro di due sfere che si intersecano, ma che tuttavia non si risolvono affatto l’una dell’altra, come testimonia la distinzione tra virtù naturali e virtù artificiali – le prime apprezzate dagli esseri umani senza la mediazione delle convenzioni, le seconde edificate proprio su tali convenzioni. Il risultato, spiega Greco, è dunque una psicologia morale nient’affatto relativistica, che poggia su caratteristiche generali della natura umana e che pertanto consente di criticare quei modelli etici che opprimono quest’ultima con imposizioni dall’alto.
In conclusione, l’etica di Hume, in quanto priva delle istanze legalistiche che caratterizzano altri modelli, «si presenta, a tutti gli effetti, come quella che oggi viene definita un’etica delle virtù» (p. 233). La domanda fondamentale cui il modello humiano risponde concerne il tipo di persona che dovremmo essere, cioè le qualità del carattere che bisogna possedere, piuttosto che ciò che si deve fare. Anche in questo caso occorre fare le opportune precisazioni: l’etica delle virtù humiana si differenzia infatti su molti punti dall’etica delle virtù contemporanea. Quest’ultima ha il suo punto di riferimento soprattutto, anche se non esclusivamente, in Aristotele e «si presenta come un’etica eudaimonistica, dove la nozione di bene non è definibile a prescindere dalla felicità degli individui» (p. 235). In particolare, la convinzione dei modelli neoaristotelici che vi sia un ideale di agente virtuoso cui bisogna tendere costituisce un punto di divergenza piuttosto rilevante. Per Hume, non è affatto necessario indicare un modello di partenza distinto dal punto di vista fermo e generale; quello che Hume descrive non è l’essenza della natura umana, ma un processo storico entro il quale la gradazione vizio/virtù può continuamente oscillare, in quella che Greco definisce efficacemente una «normatività in fieri» (p. 232). L’ottica di Hume, spiega Greco, piuttosto che all’unità delle virtù è attenta a quella del carattere, in quanto base solida su cui intraprendere il proprio percorso di maturazione individuale. L’interesse di Hume per un’indagine ‘sperimentale’ della natura umana lo solleva dall’incombenza di prospettare modelli astratti e ideali di moralità, che non hanno nulla a che fare con le persone in carne e ossa cui quell’indagine si rivolge; ciò che gli interessa, al contrario, è includere nella propria trattazione le imperfezioni che caratterizzano la natura umana e che non possono essere eliminate senza falsare il resoconto che diamo di quest’ultima.
Il libro di Greco ha dunque il merito di restituire un quadro dell’etica humiana che le permetta di confrontarsi seriamente con le altre opzioni in gioco, talvolta più gettonate. La dettagliata esposizione di Greco, oltre a poggiare su un minuzioso e costante confronto col testo humiano, ha alle spalle una vastissima conoscenza della letteratura secondaria e delle divergenti letture del testo stesso, con cui egli imbastisce un confronto serrato. La conclusione del volume è affidata a una postfazione di Eugenio Lecaldano – rispetto al quale Greco palesa il proprio debito intellettuale –, che oltre a evidenziare i pregi intrinseci del testo ne sottolinea l’importanza anche rispetto al panorama filosofico italiano. Innanzi tutto, esso conferma la «maturità della ricerca storiografica italiana sul pensiero di Hume» (p. 249), testimoniata da nomi importanti quali «Mario Dal Pra, Antonio Santucci, Giuseppe Giarrizzo, Giancarlo Carabelli, Flavio Baroncelli, Luigi Turco e Tito Magri» (elenco che, tuttavia, vede l’illustre assenza di Galvano della Volpe). Inoltre, il volume di Greco ha il pregio di contestare «alcuni pregiudizi che continuano ad avere larga accettazione nella cultura italiana» (p. 248), vale a dire l’idea che la moralità umana non possa essere compresa se non in quanto frutto di una peculiare facoltà razionale, nonché l’idea che l’unico modo per salvaguardare la libertà e l’eguaglianza delle persone sia il ricorso a qualche forma di contrattualismo.

PUBBLICATO IL : 23-12-2008
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