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AA.VV., La metafisica in Italia tra le due guerre. Dall’idealismo allo spiritualismo? , Enciclopedia Italiana Treccani, 2008
di Stefania Pietroforte

Dall’11 al 13 dicembre 2008 si è tenuto a Roma il Convegno di studi La metafisica in Italia tra le due guerre. Dall’idealismo allo spiritualismo? organizzato dall’Istituto dell’Enciclopedia Italiana, dalla Pontificia Università Gregoriana e dal Dipartimento di Filosofia e Teoria delle Scienze dell’Università Ca’ Foscari di Venezia. Sedici relazioni, alle quali si è aggiunto il dibattito coi presenti e la conclusione di Carmelo Vigna, hanno cercato di dare un’idea e, soprattutto, di riflettere su alcune questioni riguardanti la filosofia italiana degli anni tra la prima e la seconda guerra mondiale.
         E’ stato subito evidente, con le prime due relazioni, che l’intento era quello di ragionare da una parte sul rapporto che la filosofia italiana aveva intrattenuto con le restanti filosofie europee e, dall’altra, su uno dei nodi salienti dell’intera vicenda della prima metà del ‘900 e non solo, ovvero la centralità e, comunque, l’imprescindibilità del riferimento a Croce e Gentile. La relazione di Paul Gilbert ha infatti offerto una panoramica generale, niente affatto generica, delle ricerche filosofiche dell’epoca in Francia, Germania, nel mondo anglosassone, con riferimenti anche a personaggi meno “ordinabili” sotto etichette generalizzanti e tuttavia importanti e originali come Florenskij, Unamuno, Ortega. Secondo Gilbert, si può parlare di quattro modelli di filosofia: quello scientifico, che caratterizza i paesi anglosassoni; quello riflessivo, presente in Francia; quello trascendentale e quello ermeneutico, che si dividono la realtà tedesca. Sono anni, quelli tra le due guerre, nei quali, ha detto Gilbert, viene liquidata l’idea di filosofia prima: la filosofia è concepita come simile alle altre scienze, di cui condivide il destino di parzialità. Essa si distingue solo perché è la più astratta, ma non la “prima”. L’importanza di Kant è evidente nel ruolo del riconoscimento del limite e dell’ammissione della fragilità dell’uomo. Il dibattito di Davos tra Heidegger e Cassirer sembra a Gilbert, più che un episodio, una sorta di emblema dello status della ragione nella consapevolezza di coloro che la rappresentavano in grado molto elevato.
         In immediato contrappunto all’esposizione di Gilbert si è presentata la relazione di Mauro Visentin intitolata “Le metafisiche del neoidealismo italiano, fra logica e filosofia dello spirito”. Dopo aver precisato che il punto focale dello storicismo crociano deve essere rintracciato nella Logica come scienza del concetto puro e non in Teoria e storia della storiografia e che lo sviluppo di Gentile degli anni 1909-10 deve essere compreso nel suo punto d’approdo, ovvero nel Sistema di logica come teoria del conoscere, Visentin ha affrontato due questioni del neoidealismo italiano tenendo insieme, in modo fortemente identificante, il pensiero di Croce e quello di Gentile. Della prima, quella che vuole diverse queste due filosofie per quanto riguarda i “distinti”, Visentin ha spiegato il motivo per cui questa “vulgata” deve essere corretta: per entrambe le filosofie la sintesi è originaria come lo era per Kant, nel senso che non c’è priorità logica dei termini rispetto alla sintesi stessa; però questo concetto, ha chiarito Visentin, non è coniugabile davvero con la dialettica sicché essa assume di fatto in Croce un significato puramente polemico, del tutto evidente nel motivo per cui uno dei due termini è completamente ridotto all’altro. Analoga sorte toccherebbe, secondo Visentin, all’atto gentiliano, dove l’analisi “sta dentro” alla sintesi e i due modi di intendere l’astratto rispetto al concreto, cioè il concetto concreto dell’astratto e il concetto astratto dell’astratto, vedrebbero ridursi ogni rilievo di quest’ultimo. La seconda questione trattata è quella della duplice valenza del concetto di empirico in Croce. Richiamando il significato del termine greco pseudos che vuol dire sia ingannare che essere ingannato, Visentin ha detto che anche in Croce “falso” ha questa duplice valenza: l’empirico che non corrisponde a “falso” è quello degli atti pratici consapevoli, mentre l’empirico che sta a significare anche il “falso” è quello degli atti pratici inconsapevoli. Quest’ultimo, ha osservato Visentin, è in effetti un empirico concepito empiricamente. Ma nella filosofia di Croce tale modo di concepire l’empirico non può essere ridotto a nessuna forma dello spirito. Il Croce più maturo, con il concetto di vitalità, cercherà una nuova soluzione del nesso di verità e realtà (lo stesso farà Gentile, dice Visentin, con il concetto del sentimento). Ma lo sforzo di Croce, come quello di Gentile, appare a Visentin come un “tentativo metafisico” che, alla stessa stregua della metafisica tout court, era destinato a fallire. La metafisica, infatti, avendo come scopo di indicare il fondamento sovrasensibile di ciò che è empirico e togliere all’empirico stesso il carattere di casualità e di minaccia, cerca di stabilire un rapporto tra dimensione temporale e dimensione atemporale. Ma quel rapporto, ha concluso Visentin, non può non riassumersi in uno solo dei due termini, o nel primo o nel secondo. Se questo è vero, è inevitabile allora riconoscere che la metafisica ha inscritto nel suo stesso compito la ragione dell’insuccesso.
         Queste due relazioni hanno in certo senso “dato il la” al convegno, ne hanno costituito la cornice di riferimento. Non a caso il tema subito emerso nel dibattito è stato quello dei rapporti con le filosofie sviluppate negli altri paesi. Tema che di fatto coincide con quello della peculiarità della filosofia italiana. Il punto su cu ci si è interrogati, e che non è nuovo nella riflessione sulla storia della filosofia italiana, riguarda il suo “isolamento” rispetto al dibattito europeo. A questo proposito ci è sembrato che cominciasse ad affiorare, soprattutto con Visentin, il convincimento che esso non debba essere inteso nel senso che nel nostro paese non si leggessero i filosofi francesi o tedeschi ma che, al contrario, malgrado si conoscessero, tuttavia i nuclei d’interesse teoretico si svolsero secondo linee interne differenti da quelle che sembrano accomunare i filosofi d’oltralpe.
         Ampio spazio ha dedicato il convegno ai pensatori di ispirazione cristiana, come Masnovo (Pagani), Bontadini (Messinese), Stefanini (Goisis), Sciacca (Ottonello) e Mazzantini (Finamore). Occorre dire, a tal proposito, che uno degli scopi che sembrano apparire chiaramente dall’organizzazione del convegno è proprio l’accentuazione del valore e del ruolo di questi personaggi nel dibattito dell’epoca e non solo. Il panorama di questo spicchio della filosofia italiana si è mostrato variegato, spaziando dal richiamo alla tradizione ellenico-scolastica intesa come categoria sovrastorica riassuntiva della nostra tradizione e identità culturale fatto da Mazzantini, al complicato rapporto di Sciacca con Rosmini; dallo sforzo di Masnovo di mostrare l’allacciamento essenziale di logica, gnoseologia e metafisica attraverso il concetto di coerenza come funzione dell’evidenza e la tesi dell’integrazione metafisica (con lo scopo di far risaltare, ha spiegato Pagani, che la metafisica non è «mettere le mani sull’assoluto» ma proteggerlo da interpretazioni misteriose), a quello di Stefanini di aprire un dialogo con Croce e Gentile, considerati interlocutori ma non protagonisti della filosofia idealistica che avrebbe in Platone e S. Agostino le sue tappe salienti. Non si è mancato di dare rilievo a Gustavo Bontadini, del quale Messinese ha trattato l’opera di rigorizzazione della teologia razionale. Il riferimento a questo pensatore, del resto, ha echeggiato in diversi altri interventi.
         Tra i filosofi di ascendenza non cristiana ma di sensibilità religiosa si sono scelti Martinetti e Varisco. Del primo Sacchi ha messo in risalto la tesi secondo la quale la metafisica è implicita nell’attività del pensare: il pensiero nella sua dinamica intrinseca è già metafisica e orienta a riconoscere la religiosità del logos. Il relatore ha evidenziato i rapporti di Martinetti con Spir e Bradley, ma soprattutto ha messo in luce come Martinetti assuma e faccia sua l’affermazione di Hegel nell’Enciclopedia dove, trattando delle tre posizioni del pensiero rispetto all’oggettività, sostiene che provare l’esistenza di Dio non è altro che seguire il processo di innalzamento verso l’assoluto, per cui per confutare l’esistenza di Dio bisognerebbe rinunciare a pensare. Non è dunque un’inferenza quella che può dar luogo a tale dimostrazione (come crede invece la metafisica aristotelico-scolastica), ma è il dinamismo naturale del pensiero quello che ci porta di per sé verso quella meta. Compito della filosofia è allora esplicitare ciò che è implicito nella considerazione pensante, esplicitare, cioè, la struttura della mediazione logica. Ecco allora che la metafisica si mostra essere una logica pienamente cosciente di sé, come aveva detto Hegel, e da questo ambito viene esclusa da Martinetti la metafisica trascendentistica e creazionistica. La critica del creazionismo è molto accentuata da Martinetti: il relativo non può originarsi dall’assoluto, perché è impossibile che l’assoluto sia caratterizzato da arbitrarietà. Invece l’evoluzione di Varisco è stata ben messa in risalto da Valenza, che ha reso percepibile come questo filosofo punti a svincolarsi dalle spire del solipsismo, costruendo un percorso che lo avvicina sempre più al teismo.
         Per quanto riguarda i filosofi svincolati da preoccupazioni religiose, Grassi è stato oggetto della relazione di D’Agostino, che ha riallacciato i fili del rapporto tra lui e Blondel. Ricostruendo il percorso che portò Grassi ad accostarsi a Blondel e poi ad Heidegger, nella speranza di veder sviluppare da questi le premesse gettate dall’attualismo gentiliano, D’Agostino ha parlato della tesi di Grassi secondo la quale non è l’idea la soluzione del problema metafisico, perché la soluzione è rappresentata, invece, dall’aporia. Si dovrebbe ancora riferire di Capograssi, di Aliotta, di Carabellese e di Calogero. Dovendo operare una scelta, per la brevità che qui ci occorre, almeno di quest’ultimo vorremmo segnalare che la relazione tenuta da Mustè è stata incentrata sull’interpretazione che il filosofo siciliano ebbe a dare di Aristotele e ha segnalato importanti varianti che questa interpretazione subì alla luce dell’evoluzione più complessiva del suo pensiero che, secondo Mustè, infine si allontanerebbe da Gentile per trovare maggiori assonanze con Croce.  Qualcosa si deve dire pure della relazione di Spanio, che si è visto assegnare il difficile compito di parlare di Banfi, Abbagnano e Paci tutt’insieme. Il filo conduttore che Spanio ha rinvenuto è quello della definizione dell’essere come problema, ora definitivamente problema ontologico e non gnoseologico. Anche se le direzioni dei tre pensatori poi saranno diverse, questo dell’essere come problema, sostiene Spanio, è il comun denominatore dei tre pensatori italiani. Dire che l’essere deve essere inteso come problema, significa precipitare l’essere nell’esistenza, ribaltare la tradizione che intende l’essere come identità. La metafisica non è altro che l’autocostituzione dell’identità dell’essere, ha detto Spanio, ma la riduzione al pensiero non ha a che fare con l’identità (Abbagnano). Essere-non essere non è una legge della ragione, né la legge metafisica del mondo, ma è il mondo stesso (Paci). Il divenire è una apertura inoltrepassabile. Questi pensatori, dice Spanio, hanno condannato la metafisica dell’essere, non la metafisicità dell’esperienza come originario differire. Quindi l’esito della loro critica non è lo scetticismo o il nullismo, ma la celebrazione dell’autenticità dell’essere esposto al divenire della propria consistenza. In questo senso l’essere come problema è l’irresolubilità stessa che deve restare aperta e irrazionale è ciò che la vuole estinguere. Un nuovo e diverso senso della trascendenza conduce ora l’essere non più al di là di sé, ma lo conduce presso di sé.
         Le fila del convegno sono state poi tirate da Vigna, che non ha rinunciato a cogliere, sì, i tratti essenziali del discorso, aggiungendovi però anche la sua personale presa di posizione. Il divenire non può essere l’ultimo per il logos, ha detto Vigna; ma mentre Croce e Gentile vogliono tenere insieme questi due concetti come originari e da questo si genera l’aporia, i filosofi metafisici italiani hanno contestato la possibilità di restare nell’aporia, perché vi hanno visto il rischio di precipitare nella autocontraddizione. Il concetto di creazione è quello che consente di sciogliere la difficoltà, perché mette in luce che il finito dipende da ciò che lo oltrepassa. Questo concetto è dunque per Vigna la chiave di volta che consente al pensiero un sicuro approdo. Di conseguenza, l’impegno teoretico si traduce nello sforzo di dimostrare che è impossibile l’opposto di questa affermazione. La metafisica è ancora e sempre fondata sull’argomentazione.
         Con accenti diversi, il convegno ha mostrato di non potersi tenere dentro un’unica tesi ma di saper ragionare e approfondire i due temi esposti in apertura, ovvero quello del carattere peculiare della filosofia italiana e quello della riflessione sulla metafisica e sul suo possibile compito. La pubblicazione degli atti, già annunciata, consentirà di riflettere ancora su alcuni passaggi che possono arricchire la ricerca di chi si voglia misurare con questi problemi.

PUBBLICATO IL : 23-12-2008
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