Il rapporto tra natura e morale è uno di quei temi su cui la filosofia è oggi costretta a tornare, non soltanto a motivo della sua importanza genuinamente filosofica, ma anche e soprattutto in virtù della forza con cui esso investe il dibattito pubblico. All’interno di quest’ultimo, tanti e tanto differenziati sono gli ‘appelli alla natura’ da non poter non destare confusione in chi non possiede gli strumenti necessari per orientarsi all’interno di tale magma concettuale e argomentativo. Da questo punto di vista, l’agile volumetto di Pollo ha, come primo merito, quello di apportare il necessario ordine che il caos mediatico tende per sua natura a soffocare. Non si deve tuttavia ritenere che gli scopi del volume siano esclusivamente introduttivi. Oltre a questi, nel corso di otto capitoli più un epilogo, l’autore procede a una critica serrata delle argomentazioni che accompagnano i differenti usi della natura in etica, sollevando in ciascun caso le proprie obiezioni, nel tentativo di approdare a un appello alla natura scientificamente informato e filosoficamente valido. In tal senso, i punti messi in evidenza dal volume sembrano essere sostanzialmente due: il primo è la necessità di un «incontro fra le scienze […] e l’etica filosofica [che] possa risultare fertile nell’elaborazione di un’idea di “natura umana” che abbia implicazioni significative anche per i nostri discorsi morali» (p. 6); il secondo corrisponde alla convinzione che «in una società liberale e democratica, nel momento in cui si tratta di riconoscere i diritti degli individui, fare appello alla natura è una tentazione che sarebbe opportuno evitare» (p. 10).
Il primo appello alla natura discusso nel testo risiede nell’idea che «l’autentica vita morale possa essere sperimentata solo in una condizione non artificiale e non civilizzata» (p. 11). Secondo il cosiddetto “mito del buon selvaggio”, vi sarebbero delle inclinazioni e dei sentimenti naturalmente buoni la cui efficacia è stata corrotta dalla civiltà e dal progresso. La peculiarità di questo punto di vista – che ha nel secondo Discours di Rousseau il suo locus classicus – è la seguente: mentre, nella maggior parte degli appelli alla natura, questa è concepita con un vero e proprio modello di riferimento per le norme morali, in questo caso essa rappresenta piuttosto una ‘condizione originaria’ nella quale soltanto gli esseri umani possano sperimentare un’esistenza autentica, in cui la virtù possa sgorgare in modo spontaneo e istintivo al punto da rendere superflua la stessa morale. In realtà, nota Pollo, che le condizioni di civilizzazione pregiudichino effettivamente i sentimenti morali umani è una questione soprattutto fattuale; è tuttavia proprio su questo versante che tale tesi si dimostra inattendibile, dal momento che, come ha notato Steven Pinker, non sembra esserci, dati empirici alla mano, alcuna connessione tra civilizzazione e violenza. Né d’altronde sembra funzionare il richiamo alla vita selvaggia nei termini di una «naturale condizione di eguaglianza»; l’eguaglianza, infatti, rappresenta un problema solo da un punto di vista strettamente morale, ossia come un valore da affermare «nonostante le diversità empiriche che caratterizzano gli esseri umani e che non sono rilevanti per l’attribuzione di status morale» (p. 20). In ultima istanza, la presunta condizione originaria, incarnata dall’ideale di vita selvaggia, si profila come una costruzione smaccatamente ‘culturale’, costruita per contrasto con le caratteristiche salienti del vivere civile. Inoltre, cosa più importante, la realizzazione di alcuni beni umani moralmente significativi – come la salute o la sicurezza – sembra al contrario coincidere proprio con il progresso della civilizzazione umana, lo stesso che le posizioni á la Rousseau ritengono essere causa di corruzione e decadenza morale.
In base a una impostazione differente, la natura è considerata piuttosto come una autorevole fonte normativa; appellarsi alla natura, da questo punto di vista, sarebbe cioè «un modo di giustificare qualcosa come moralmente buono o giusto in quanto “naturale”» (p. 29). Qui, tuttavia, la nozione di ‘natura’ si rivela aperta a diverse interpretazioni: dopo una breve elencazione di queste ultime, Pollo osserva che sono ‘realtà’, ‘oggettività’, ‘autenticità’ e ‘indipendenza’ i caratteri fondamentali a partire dai quali, seguendo tale modo di argomentare, deriva l’autorevolezza di ogni appello alla natura. Quest’ultima rappresenterebbe in altre parole la realtà ultima e autentica, indipendente da qualsiasi “sovrapposizione” culturale cui (dover) fare riferimento; una realtà non empirica ma metafisica – come nel giusnaturalismo o nella tradizione cattolica – accessibile pertanto solo «attraverso facoltà diverse da quelle che permettono la normale conoscenza empirica» (p. 33). La caratteristica peculiare, nonché il probabile tallone d’Achille, di tale appello alla natura è costituita dalla mescolanza di elementi descrittivi e prescrittivi. Esso riposa cioè su descrizioni del mondo che, in qualche modo, sono fatte valere come norme e prescrizioni. Il caso forse più emblematico è quello della omosessualità: «dal momento che si rileva una certa capacità negli esseri umani (quella procreativa dei rapporti eterosessuali), se ne deduce la doverosità morale per tutta l’umanità» (p. 35).
Un importante capitolo del volume è così dedicato a una rigorosa messa in discussione di tale modo di argomentare, il cosiddetto «argomento naif dello status quo». Tale argomento, spiega Pollo, consta di due momenti: anzi tutto, esso identifica la naturalità con la ‘normalità’; in secondo luogo, sulla base di tale identificazione, disapprova qualsiasi allontanamento dalla natura, in quanto esso costituisce ipso facto un allontanamento dalla norma. V’è più di una critica che l’autore muove nei confronti di tale argomento. In questa sede mi limito a citarne due. Una prima critica, mossa da un piano strettamente morale, deriva dall’osservazione che tali appelli finiscono per sottrarre alla responsabilità individuale ambiti moralmente rilevanti, come la procreazione e la sessualità. La seconda, memore della lezione humiana, contesta il passaggio dai fatti ai valori. È opportuno notare come, per Pollo, non si tratta di vietare qualsiasi passaggio dai fatti ai valori; al contrario, la conclusione del volume andrà esattamente nella direzione opposta. Quello che Pollo, sulla base dell’is-ought paragraph humiano, si limita a constatare è la «non identità tra la sfera dei fatti e quella dei valori» (p. 53), che lo induce a proporre due criteri minimali per giudicare l’accettabilità della argomentazioni morali impostate sul passaggio dall’una all’altra. Il primo criterio deriva dal celeberrimo Open-question Argument di Moore, in base al quale ogni volta che riconduciamo ‘buono’ a una qualche proprietà naturale, possiamo tuttavia continuare a chiederci se questa sia veramente buona o meno. Tale criterio richiede dunque di non ignorare la domanda aperta e di dar conto in qualche modo della non identità concettuale tra la sfera della morale e quella della natura, nella convinzione che la nozione di ‘bontà’ sia, almeno in parte, irriducibile. Il secondo criterio richiede invece che i fatti chiamati in causa da tali argomenti non si situino al di là dell’esperienza – come avviene, ad esempio, per la nozione di ‘natura umana’ invocata dal magistero cattolico – ma siano sempre suscettibili di verifica empirica e dunque disponibili al dibattito pubblico.
Nelle pagine immediatamente successive, Pollo sottopone a vaglio critico l’idea per cui «la natura sia un “ordine” caratterizzato da un’intrinseca “saggezza” che gli esseri umani farebbero bene a rispettare, pena danni irreparabili e catastrofici» (p. 44). Questo atteggiamento profondamente ‘sacrale’ nei confronti della natura sembra diffondersi in maniera direttamente proporzionale all’avanzamento di quelle tecniche – le cosiddette ‘biotecnologie’ – grazie alle quali l’essere umano si rende in grado di intervenire sui meccanismi di replicazione e trasmissione della vita. La peculiarità di tale posizione non consiste tanto nella convinzione che vi sia un ordine soggiacente la realtà, quanto in quella che tale ordine presenti i caratteri di benevolenza e saggezza. Secondo quello che Pollo definisce l’«argomento della naturale saggezza e umana stoltezza», poiché nel mondo alcune cose sono organizzate secondo un ordine finalistico e intrinsecamente saggio, l’interferenza con i suoi processi costituirebbe un’enorme imprudenza, tale da produrre conseguenze «dannose» e addirittura «catastrofiche». Si tratta dunque di un argomento di tipo ‘consequenzialista’, che tuttavia, nota l’autore, assai facilmente «tende a slittare verso una forma di deontologismo che eleva la prudenza a norma suprema e sommo bene» (p. 62). Ora, anziché sull’aspetto consequenzialista, la critica di Pollo è rivolta piuttosto alla premessa dell’argomento, relativa all’esistenza di un piano intrinseco alla realtà naturale. A tale scopo, egli procede a una sommaria ma puntuale ricapitolazione dei punti chiave della critica darwiniana all’argument from design, in particolare nella sua accezione finalistica, sostenendo come la teoria dell’evoluzione fornisca una spiegazione attendibile dei fenomeni biologici che ci dispensa dalla necessità di ricorrere alle cause finali. Inoltre, l’autore sottolinea la necessità di fare a meno anche dell’idea che la selezione naturale sia in grado di produrre ottimalità, pur in assenza di cause finali. L’adattamento, al contrario, è sempre sub-ottimale – non “il meglio”, ma soltanto il meglio di ciò che è disponibile. Pertanto, la prudente conclusione di Pollo è che «“lasciar fare alla natura” non è una garanzia» (p. 73).
Finalmente, nel sesto capitolo, l’attenzione di Pollo si rivolge alla tipologia senza dubbio più antica e strutturata di collegamento tra natura e morale, ossia l’idea di ‘legge naturale’, in base alla quale sarebbe possibile rintracciare una serie di obblighi validi incondizionatamente a partire da un’analisi della natura umana «in quanto espressione della volontà divina» (p. 75). Ora, per quanto tale tradizione filosofica sia molto antica, lo sguardo dell’autore sembra essere ristretto a «quella che oggi è la versione più diffusa e influente dell’idea di legge naturale: la concezione di ispirazione tomista incorporata nella dottrina della Chiesa Cattolica» (p. 76). Così, sebbene egli nomini introduttivamente pensatori come Aristotele, Tommaso, Grozio, Suarez, Hobbes, Pufendorf e Locke, una volta entrato nel merito della questione la sua attenzione è tutta calamitata da Paolo VI, Leone XIII, Pio XII e in generale dal Catechismo della Chiesa Cattolica. In tal modo, Pollo sembra voler assicurare alle proprie osservazioni una maggiore “presa” all’interno del dibattito odierno, entro il quale il peso e l’influenza della posizione cattolica, in particolare in Italia, è ancora molto forte. La posizione cattolica circa la relazione tra natura umana e norme morali è sintetizzata dall’autore in due tesi fondamentali, la prima concernente la ‘fonte’ delle norme, la seconda il loro ‘contenuto’: anzitutto, gli esseri umani sarebbero dotati di una speciale ‘facoltà razionale’ di ordine sovrasensibile, che si suppone in grado di accedere ai contenuti della legge naturale; in secondo luogo, nella natura umana sarebbero inscritti dei fini specifici che, una volta individuati da un retto uso di quella facoltà, costituiranno le norme cui dover adeguare il proprio comportamento; ad esempio, il rifiuto della contraccezione e della fecondazione in vitro sono motivate dalla scissione del significato unitivo e procreativo dell’atto sessuale, che furono inscindibilmente connessi da Dio nell’atto di creazione dell’essere umano. Sulla scia di Lecaldano (Un’etica senza Dio, Laterza, Roma-Bari 2006), Pollo osserva innanzi tutto come una simile posizione sacrifichi un elemento centrale della vita morale umana quale «l’esperienza dell’adesione in prima persona ai principi e alle norme morali che si sottoscrivono» (p. 81), in luogo di una concezione della moralità basata sull’obbedienza a un precetto imposto dall’esterno. Inoltre, appare evidente come l’immagine della natura umana implicata dall’idea cattolica di legge naturale si basi su premesse non empiriche – come l’esistenza dell’anima o la presenza di fini umani inscritti dalla divinità – che in quanto tali «non possono essere sottoposte a procedimenti di verifica condivisi» (p. 85) e dunque non possono essere fatte valere erga omnes. Al contrario, se andiamo a vedere i dati empirici di cui siamo in possesso, scopriamo che essi non parlano di una natura umana fissa e immutabile, ma di una natura umana mutevole e in costante trasformazione, le cui capacità – anche morali – «sono il risultato di un processo storico di selezione e adattamento» (p. 86). L’inflessibile conclusione di Pollo, pertanto, è che «l’appello alla natura realizzato dalla teoria della legge naturale manca l’obiettivo, nella misura in cui giustifica le norme morali su un’idea inattendibile di natura umana» (p. 87).
L’inattendibilità della posizione cattolica, tuttavia, non esclude la possibilità che una qualche nozione di ‘natura umana’ risulti spendibile sul piano morale. Ad avviso dell’autore, semplicemente, la natura umana non può essere ignorata se si intende dare un resoconto del perché gli esseri umani sono capaci di vita morale. Gli ultimi due capitoli sono così spesi da Pollo nel tentativo di mostrare in che modo l’immagine della natura umana implicata dalla visione darwiniana «può influenzare complessivamente la nostra visione di cosa significa porsi la domanda sul bene e sul giusto» (p. 120). È dunque sul piano metaetico, piuttosto che su quello normativo, che una nozione darwiniana o comunque naturalizzata di natura umana può trovare la sua applicazione. Secondo Pollo è infatti decisamente poco auspicabile ogni tentativo di ‘riduzione’ dell’etica alla biologia, sebbene sia dell’avviso che le scienze biologiche possano ben contribuire alla comprensione del fenomeno della moralità nel suo complesso. In particolare, sostiene l’autore, a non poter oggi essere elusa è la necessità di considerare la natura umana come un insieme di tratti modificabili nel corso del tempo. Di conseguenza, occorre lasciare aperta la possibilità che la stessa moralità sia soggetta a una sua peculiare ‘evoluzione’. Due discipline che da questo punto di vista sembrano rivestire un ruolo importante, nel tratteggiare quella che Pollo definisce «genealogia naturalizzata della moralità», sono l’etologia e le neuroscienze. Riguardo alla prima, è sufficiente citare i risultati generali delle ricerche condotte da Frans de Waal, che hanno documentato la presenza in molte specie di primati di alcuni dei «“mattoni” con i quali si è costruito l’edificio della moralità» (p. 101): la capacità di empatizzare con la sofferenza altrui e un primitivo senso di giustizia. Dal canto loro, le neuroscienze sono anch’esse in grado di fornire contributi importanti che permettano di comprendere la capacità morale umana come frutto di specifiche basi biologiche. Prendendo le mosse da un breve cenno al discusso caso Phineas Gage, Pollo osserva che la capacità morale (a) non è presente alla nascita ma è soggetta a un peculiare sviluppo, al pari di ogni altra capacità umana; (b) può essere perduta a seguito di specifiche lesioni cerebrali; (c) può non essere mai acquisita a causa di gravi patologie. La questione filosoficamente interessante concerne dunque lo studio delle condizioni necessarie affinché la capacità morale si sviluppi e si mantenga, sulla base della convinzione generale che «qualsiasi spiegazione della nozione di “agente morale” non può prescindere dalle caratteristiche materiali di tale agente» (p. 109). Ora, ricercare le fondamenta dell’agentività morale in caratteristiche materiali del cervello – e dunque far in qualche modo dipendere quella da queste – comporta però il rischio di ricaduta in una forma di determinismo che escluda la responsabilità umana annullando lo spazio delle argomentazioni e della revisione delle nostre convinzioni etiche. Pollo si affretta a scongiurare tale possibilità, affermando che «allo stato attuale delle conoscenze non abbiamo ragioni conclusive per ritenere fittizia e illusoria l’impresa dell’etica filosofica e della riflessione personale sulla morale» (p. 116); a garantire tale impresa, infatti, è lo scarto che pur sussiste «fra le condizioni che hanno selezionato un cervello come il nostro […] e le circostanze di vita odierne» (pp. 116-7) all’interno delle quali adoperiamo le nostre capacità.
Qualunque siano i risultati scientifici cui si fa riferimento, dunque, la naturalizzazione dell’etica non consiste affatto nell’annullamento dell’etica stessa in luogo di una qualche alternativa scientifica o naturalistica. Collocare l’agentività morale all’interno di un contesto naturale, svincolandola da qualsiasi orizzonte metafisico o religioso, significa sottolineare la capacità di autodeterminazione degli individui e dunque accrescerne il senso di responsabilità. Al contrario, nel momento in cui si tenta di rintracciare nella natura un vero e proprio codice di comportamento, otteniamo l’effetto opposto di restringere fortemente lo spazio degli argomenti, rendendo gli individui schiavi di una morale imposta dall’esterno. L’indagine empirica, dunque, se da un lato ci aiuta a comprendere noi stessi come attori “naturalmente” morali, in quanto dotati di un senso morale forgiato da milioni di anni di evoluzione per selezione, dall’altro non può mai istruirci su come in concreto impiegare tale capacità. Una volta stabilito il percorso che ha permesso a Homo sapiens di acquisire tale capacità, le questioni prettamente etiche non possono che essere rimesse, entro certi limiti, alla responsabilità del singolo, cioè all’uso individuale di quella capacità. In tal senso – sottolinea Pollo nell’epilogo – in una società liberal-democratica nessun appello alla natura può essere sufficiente per violare le libertà o rifiutare i diritti di qualcuno, specialmente laddove esso faccia riferimento a fatti sovra-empirici non condivisibili e non pubblicamente disponibili. Appelli di questo tipo, come quelli invocati dalla Chiesa cattolica, non soltanto risultano discutibili sul piano teorico, ma sono anche «in diretto conflitto con alcuni principi di una società liberal-democratica bene ordinata» (p. 130). Per una società di questo tipo, dunque, è del tutto irrilevante che i diritti siano contrari o conformi a una certa idea di natura. Nel momento in cui essa attribuisce la priorità agli interessi e alle scelte degli individui, ogni riferimento alla natura diventa superfluo, e nell’assegnazione dei diritti individuali, ad esempio i diritti degli omosessuali, «quello che è importante è solo che [essi] corrispondono agli interessi e al benessere concreto di individui che meritano di essere trattati con eguale considerazione e rispetto» (p. 132). Pertanto, l’aver ridefinito in questi termini il rapporto tra indagine naturale e riflessione morale, in modo da lasciare a quest’ultima la sua piena autonomia, può essere considerato l’esito più importante del volume di Pollo. |