«Chi vuole collocarsi nel punto iniziale della filosofia veramente libera deve abbandonare anche Dio (...) Il soggetto assoluto non è non-Dio, eppure non è neanche Dio, è anche ciò che non è Dio. In questo senso è al di sopra di Dio» (F. W. J. Schelling, Conferenze di Erlangen, in Id, Scritti sulla filosofia, la religione e la libertà, a cura di L. Pareyson, Mursia, Milano 1974, p. 203): queste le parole, di impareggiabile rigore e severità speculativa, pronunciate da Schelling e che potrebbero fare da esergo all’iter di pensiero di Massimo Cacciari, così come concepito ed acutamente analizzato da Ilario Bertoletti nel volume Massimo Cacciari. Filosofia come a-teismo (I. Bertoletti, Massimo Cacciari. Filosofia come a-teismo, Edizioni ETS, Pisa 2008). Il titolo stesso indica immediatamente la tesi principale avanzata dall’autore: così come l’alpha privativo di alétheia non significa affatto, o esclusivamente, un “nulla” o una mera “assenza”, ma un eterno nascondimento che è “provenienza abissale”, “condizione di possibilità”, ciò per cui la verità stessa può essere e apparire, così è per l’alpha privativo di á-theos: «La filosofia non può non essere atea – ma non nell’accezione comune del termine. La filosofia è a-tea in senso trascendentale: osa porre domande sull’alpha privativo della parola á-theos» (ivi, p. 44). L’ateismo di Cacciari non ha, allora, alcunché di “confessionale”, indicando, al contrario, la direzione e la metodologia di ricerca d’un pensiero che non può arrestarsi “di fronte” ad alcunché di positivo: occorre indagare “senza timidezze” l’Inizio, la “provenienza indiscorribile” d’ogni ente; l’interrogazione, dunque, deve spingersi fino e oltre Dio, di cui non viene affatto negata o affermata l’esistenza, ma di cui ci si interroga sul “da dove” – e in questo senso è definibile secondo Bertoletti come ateismo “trascendentale”.
Ebbene, contro un’intera tradizione tesa ad affermare la necessità del passaggio potenza – atto, dunque riconoscente alla possibilità uno statuto solo come e in quanto “potenza reale”, Cacciari privilegia proprio la categoria modale della possibilità: sennonché questa, come ogni concetto, valido solo se e in quanto condotto sino alle sue estreme conseguenze, si mantiene fedele a sé stessa riconoscendosi al tempo stesso, “come in Kafka”, impossibile (cfr. ivi, p. 21). «Riproporre l’Inizio come questione teoretica: questo è il gesto di Cacciari nella costellazione filosofica contemporanea» (ivi, p. 26-27): e l’Inizio necessita, come mette in luce Bertoletti, di essere indagato per aporie, sì ché la filosofia di Cacciari è altresì definibile come “diaporetica” (cfr. ivi, p. 26). Proprio per evitare la “costrizione alla svelatezza”, esso non va confuso col concetto di “fondamento”, né con quello di “assoluto trascendente”, né con l’Ungrund, concetto fin troppo equivocamente legato al suo opposto, ovvero col “massimamente distinto”. Non deve esser ridotto, in altre parole, ad Antecedens dell’essere, e mantenersi in tal modo sciolto dallo schema della “potenza – di – essere” che domina, come abbiamo detto, gran parte della filosofia occidentale. Ed allora esso deve contemplare in sé, proprio in quanto Possibilità pura, Ni-ente, Indifferenza radicale, anche la possibilità di non essere.
Se la traccia dell’Inizio immemorabile si declina in Schelling come interrogazione sull’ “inconscio” e sul “cono d’ombra” di Dio, e in Pareyson è cifra della natura ancipite, e quindi del male come ombra che oscura Dio, commenta Bertoletti, il privilegio accordato alla categoria modale della possibilità - e quindi, dell’impossibilità - diviene in Cacciari «la domanda a-tea sullo statuto tragico (il dissòs lógos) non di Dio ma dell’Inizio, o meglio: anche di Dio, ma in quanto problema dell’Inizio» (ivi, p. 29 n. 41). Infatti, argomenta Bertoletti, il Dio ebraico-cristiano è non più l’ “ultimo”, ma una delle possibili figure in cui il possibile può declinarsi: «l’onni-compossibilità dell’Inizio, implicando la possibilità che il possibile non sia, è irriducibile alla creazione (...) “La crezione è nell’Inizio, si dà in esso, insieme, uno actu, alla de-creatio (Cacciari)”» (ivi, p. 31). L’Inizio si distingue dunque dall’Iniziante, ovvero da Dio come ente sommo la cui essenza è e si risolve nel produrre; e tuttavia, se la filosofia si distingue dalla teologia per il suo irrefrenabile porre domande sul presupposto, la dove quella gli ha già dato il volto del Dio ebraico-cristiano, e dunque l’una interroga l’Inizio, l’altra comincia con l’Iniziante, è pur vero che per Cacciari la distinzione tra filosofia e teologia è al tempo stesso un’unità così profonda che, qualora l’incontro/scontro cessasse, e l’una e l’altra si troverebbero private addirittura delle caratteristiche che le contraddistinguono. Non a caso, allora, Bertoletti individua nell’ateismo trascendentale di Cacciari i «lineamenti di un nuovo paradigma di filosofia della religione» (ivi, p. 47). E’ la rivelazione ebraico-cristiana ad imporsi come “religione della libertà”, quella stessa libertà che caratterizza l’Inizio, ma che, ci sembra di poter dire, non manca di ripercuotersi sullo stesso. Da questo punto di vista Cacciari non solo propone una “cristologia aporetica” (cfr. ivi, p. 53), in cui la cenosi del Figlio, la sua passione è scandalo di quell’inaudita libertà che dà la possibilità di credere e di abbandonare, ma la stessa “morte di Dio” svela questi, il Padre, come “interamente mortale”: Dio è messo a morte nel figlio, ed è mortale, si badi, essenzialmente mortale in quanto è nell’Inizio ma non è l’Inizio: «Lo scandalo non sta, allora, “semplicemente” nel fatto che Dio muore, è morto (...) Lo scandalo è che Dio è mortale , nel senso essenziale che, egli, in quanto Vita, è inseparabile dal Non-essere Inizio, che questo Non lo costituisce nell’essenza (Cacciari)» (ivi, p. 50). Com’ è ben visibile, si ripercuote in Dio l’aporia dell’Inizio, l’implicarsi di possibile e impossibile, così come lo statuto tragico accordato al principio si riflette interamente nell’ermeneutica dei passi biblici.
Teologia ancor più presente, sia pur interpretata ad un livello prettamente filosofico, in Della cosa ultima, dov’è in gioco, soprattutto, la questione del rifrangersi dell’aporia dell’Inizio nel singolo ente. Ebbene, qui l’esistenza è definita come un “dono” : «Con una differenza rispetto alla tradizione ebraico-cristiana: in questa, il dono è l’atto d’amore di un Dio che intenzionalmente decide; per Cacciari, il dono è l’epifania dell’apparire nel mondo nella sua assoluta gratuità (cháris), senza alcun scopo» (ivi, p. 73). E se la libertà che contraddistingue l’Inizio implica sempre il suo opposto, ad esser interrogata, ora, è la questione del male e di Dio: lo scandalo della croce, qui, indica più nello specifico la possibilità del male e quella, sempre rinascente malgrado Dio, che esso prevalga. Occorre, “come Francesco”, “salvare i fenomeni”, salvaguardarli nella loro unicità: ognuno di essi è infatti, escatologicamente, la “cosa stessa”, simbolo dell’Inizio.
Giunti al termine dell’analisi del libro di Bertoletti, e ribadendo il carattere esemplare di quest’organica ricostruzione del pensiero di Cacciari, non possiamo esimerci tuttavia dal muovergli alcuni rilevi critici. In primo luogo mettiamo radicalmente in questione la tesi avanzata dall’autore circa la “destituzione di senso” dello scontro tra prospettiva kerygmatica e pensiero religioso liberale che si avrebbe con l’oltrepassamento di quest’ inedita forma di filosofia della religione: quest’ultima mostrerebbe, da una parte, come «contro Barth, l’unicità della rivelazione cristiana vada riletta come un’interpretazione, una figura dell’Inizio, dall’altra la negazione propria della Liberälitat dell’unicità e assolutezza del kerygma risulta essere un misconoscimento di quel che è in gioco nel concetto di Rivelazione: il suo far cenno al rapporto tra Inizio, come implicarsi del possibile e dell’impossibile, e il suo modo d’essere percepito e rielaborato in una pre-comprensione religiosa» (ivi, p. 43-44). Il “non” che circonda l’unicità di quella rivelazione allude, infatti, secondo l’autore, «all’ulteriorità universale di altre possibili e impensate rivelazioni (o non rivelazioni)» (ivi, p. 47). Questo “contingentismo dell’incondizionato” non dice invece nulla, a nostro avviso, circa la diatriba, che non è stata affatto polemica meramente storica, ma l’emergere più violento e radicale di un conflitto insito nella “cosa stessa”: di contro il Dio “afferrato” nel concetto, e la sua risoluzione nel soggetto morale, ma, più in generale, ad ogni grandezza umana, etica, razionale, si erge, secondo Barth, l’inaudito e impensabile scandalo della croce, in cui si rende visibile il Deus absconditus e Totaliter aliter: l’aut aut barthiano in alcun modo può essere facilmente eluso, o addirittura risolto, pena ridurlo a mera unilateralità fideistica, in nessuna filosofia della religione. Che il conflitto sia riemerso, secondo Bertoletti, anche nella diatriba tra Jaspers e Bultmann, Mancini e Caracciolo (cfr. ivi, pp. 42-43) non fa che confermarci nella nostra tesi; e non può essere risolto proprio perchè il conflitto non è affatto di natura esclusivamente filosofica né, addirittura, religiosa: di contro all’Uno semplice, come del resto non si stanca di ripetere lo stesso Cacciari, si erge lo scandalo della croce.
In secondo luogo Bertoletti manca, a nostro avviso, di cogliere uno dei punti-chiave della critica che crediamo si possa, ed anzi si debba, muovere a Cacciari. Questi, come abbiamo visto, distingue tra Inizio e Iniziante, l’inizio viene prima per “necessità logica”, l’Iniziante è nell’Inizio ma non è nell’Inizio, ed infatti: «presupporre come Inizio l’Iniziante equivale a presupporre come evidenza ultima la genesi che da esso si origina» (M. Cacciari, Filosofia e teologia, in La filosofia e le scienze, vol. II di: La filosofia, a cura di P. Rossi, Garzanti, Milano 1996, pp. 365-421, p. 412). Sennonchè il teologo può concepire l’iniziante come assolutamente libero, agente solo per sovrano arbitrio: Dio è libertà, ed anzi, Dio è la sua libertà. Eppure, per Cacciari, che ha ben presente questa possibilità, quest’affermazione conduce eo ipso a una contraddizione: «per ek-sistere come iniziante, Egli dovrà essersi affrancato da una Quiete, da un Aperto, da un Chaos (...) insomma, da un Inizio che non è origine, che non è principio della genesi, che non “diviene carne”. La teologia potrebbe ancora rispondere (...): tale Inizio è nulla; la libertà dell’Iniziante “viene” da nulla, anzi: dal suo nulla. Ma, allora, delle due l’una: o il nulla, in quanto suo, equivale alla sua libertà (...) o la sua libertà nulla può sul nulla da cui proviene. La sua libertà deve presupporre il nulla, non può fare che esso non sia. E dunque non è libertà» (ibidem). Ebbene, proprio la concezione di Dio come assoluta libertà che non può non avere a che fare, prima ancora dello stesso gesto creativo, col nulla, è possibilità contemplata da Barth. Il nulla, a cui allude lo stesso chaos originario menzionato nella genesi, è ciò che Dio scarta e nega: non è fuori di lui, né coincide con lui, ma è in lui quale possibilità negativa inerente alla stessa scelta. Dio, allora, è assoluta libertà di scelta, e, come tale, non proviene affatto da un nulla che lo precede, ma col nulla deve avere necessariamente a che fare, essendo questo uno dei corni della scelta con cui Egli, originariamente e di volta in volta, dirime il “si” dal “no”. Ed allora, contrariamente a quanto sostiene Cacciari, la sua libertà è tale proprio perchè può sul nulla, ed anzi, più radicalmente, può sul suo nulla (cfr. K. Barth, Dio e il Niente, Morcelliana, Brescia 1998).
All’origine, come sostiene Pareyson, in cui il problema della scelta è a tal punto radicalizzato da coincidere con l’autogenesi divina, vi è la diade, la contraddizione, la dicotomia della libertà divina. Questi, Dio, può scegliere di essere o non essere, di creare o de-creare: il nulla gli appartiene essenzialmente, quale possibilità già sempre esclusa – si badi, si tratta di “scelta storica” e non di “necessità di fatto” – tramite la scelta per l’essere. Ed allora la possibilità dell’opzione tra essere e nulla, creare e decreare, positivo e negativo, appartiene propriamente a Dio quale Iniziante (cfr. L. Pareyson, Ontologia della libertà, Einaudi, Torino 2000. Cfr. l’ampio e serrato confronto svolto da Cacciari proprio con Barth e Pareyson in Della cosa ultima, Adelphi, Milano 2004, pp. 351-371): forse proprio qui rinveniamo uno dei pochissimi “pregiudizi filosofici” di un pensatore, quale Cacciari, da annoverarsi innegabilmente tra i maggiori e più profondi interpreti del rapporto, di essenziale unità e distinzione, tra filosofia e teologia. |