Il libro di Claudio Tuozzolo è dedicato a un’analisi ravvicinata dei tre articoli che, tra il 1896 e il 1897, Croce pubblicò sul materialismo storico. Il primo apparve originariamente nel 1896 negli atti dell’Accademia Pontaniana con il titolo Sulla concezione materialistica della storia; il secondo, Le teorie storiche del prof. Loria, uscì nello stesso 1896 per l’editore Loescher; il terzo fu pubblicato sugli atti dell’Accademia Pontaniana nel 1897, con il titolo Del problema scientifico del “Capitale” del Marx. Tutti questi scritti furono poi raccolti, con diverse modifiche, nell’edizione del 1900 di Materialismo storico ed economia marxistica, apparsa per Sandron, dove si potevano leggere insieme ai testi appena successivi relativi allo stesso argomento.
La tesi interpretativa di Tuozzolo è che questi tre scritti del 1896-1897 devono essere ben distinti dalla produzione seguente di Croce sul materialismo storico: secondo l’autore, meritano di essere considerati per sé stessi, ponendoli al riparo dalla ulteriore elaborazione “diretta” della categoria dell’utile e, soprattutto, dal modo in cui lo stesso Croce li rievocherà poi, tacendo o sminuendo quello che ne costituiva la sostanza, ovvero il tentativo di delineare un “marxismo critico”, un “Marx possibile”, come recita il titolo del libro. Al prezzo di qualche apparente forzatura (poiché il terzo saggio sembra già legarsi, almeno per il suo contenuto, a quelli che seguono), Tuozzolo propone, dunque, di enucleare questo biennio “marxista” di Croce, di considerarlo nelle linee interne e di connetterlo con le fonti peculiari che lo ispirarono: non solo, come è ovvio, il Labriola della prelezione del 1887, ma anche Engels (in particolare la lettera a Joseph Bloch del 1890, la prefazione al terzo volume del Capitale e l’Anti-Dühring), i Principii di economia pura di Pantaleoni, le opere di Werner Sombart e di Friedrich Albert Lange.
L’immagine generale che ne deriva è quella di un giovane Croce che si muove nell’orbita del neokantismo e dello storicismo tedesco, e che, dunque, rigetta drasticamente la filosofia hegeliana (con l’eccezione delle teorie estetiche), soprattutto per il rischio di una “logica concreta”, che minaccia di confondere il piano dei concetti con quello dei fatti concreti. In modo analogo, l’interpretazione della teoria marxiana del valore avrebbe ancora un rapporto conflittuale con il marginalismo, o almeno con la “scuola austriaca”, e in particolare con le tesi di Eugen von Böhm-Bawerk: è vero sì, spiega Tuozzolo, che Croce già considera la teoria marginale del valore come la sola dottrina “economica” e “scientifica”, ma la sua posizione dipende piuttosto da Pantaleoni, e rigetta la riduzione di Böhm-Bawerk del valore-lavoro marxiano a mera vanità o fantasticheria.
Ma direi che l’interpretazione acquista una più forte originalità nei diversi luoghi del libro in cui l’autore si interroga sullo statuto epistemologico di quel “tipo ideale” – la società lavoratrice – che Croce introduce per rendere ragione della teoria marxiana del valore e, quindi, del “paragone ellittico” con la reale società capitalistica. Tuozzolo cerca giustamente di inserire questa nozione nel paradigma che Croce, fin dalla memoria pontaniana del 1893, aveva costruito, paradigma fondato, come è noto, sulla dicotomia tra “arte” e “scienza”: da un lato, la conoscenza intuitivo-narrativa di fatti individuali (arte e storia), d’altro lato l’elaborazione di nozioni generali e astratte (scienze e metafisica). Ma la fisionomia della “premessa tipica”, che ha solo la funzione euristica di aiutare e avvicinare la comprensione della realtà concreta, non sembra cadere in alcuno dei due “generi” in cui si divide la conoscenza: sembra costituire un “terzo tipo” (che, nota Tuozzolo, in qualche modo anticipa le finzioni concettuali o pseudoconcetti), ma senza tuttavia stabilire un’autentica relazione, una mediazione, tra le due specie di apprensione della realtà. La stessa struttura concettuale della “premessa tipica” appare di difficile decifrazione: perché se da un lato non è una mera astrazione (al punto da configurarsi come un fatto concreto e intuito), d’altro lato è anche il risultato di una radicale operazione astrattiva, che isola “la società economica in quanto “società lavoratrice” da tutto il resto. È “un fatto”, scrive Croce, “ma un fatto che vive tra altri fatti”: dove è facile osservare che, se il “fatto” è separato dalla relazione che ne costituisce la concretezza, esso non è più concreto ma, appunto, astratto, alla maniera stessa delle nozioni generali della “scienza”.
Tuozzolo ha il merito di segnalare e indagare con più cura la presenza di questo “terzo tipo” di nozione, che inserisce una difficoltà nella prima teoria crociana del conoscere. Con prudenza e cautela, egli sottolinea il valore esclusivamente analitico della sua ricostruzione, che “non nasconde alcun innamoramento” (p. 13) nei confronti di questa fase del pensiero di Croce. Anche se, sia pure implicitamente, mostra qui e là forse un eccesso di simpatia per questa nozione della “premessa tipica”, senza mostrarne adeguatamente la natura aporetica, la strutturale incoerenza, e dunque la necessità, in cui Croce si trovò, di superarla e trascenderla nella più corposa delineazione dell’utile. Si può avere l’impressione, insomma (ed è questa l’unica osservazione critica che rivolgerei all’autore), che egli consideri la tesi della “premessa tipica”, non a caso avvicinata al tipo ideale weberiano, come una soluzione smarrita e perduta nella successiva costruzione di una filosofia dello spirito. Al contrario, quella posizione presupponeva l’idea di una differenza originaria tra “scienze proprie” e “scienze improprie”, tra “arte” e “scienza”, che non poteva che essere coinvolta dalla domanda sulla relazione istitutiva tra le forme, cioè da un concetto più profondo della realtà.
Per il resto, Tuozzolo chiarisce assai bene (ed è un altro merito non trascurabile del libro) la differenza che Croce sottolinea, anche sulla scia dell’Anti-Dühring di Engels, tra la “società lavoratrice”, che è solo uno strumento euristico e un aiuto alla comprensione del concreto, e l’idea del comunismo: per cui il comunismo non può essere inteso come una società mercantile nella quale si realizzi il valore-lavoro quale misura dello scambio, ma come il superamento stesso del mondo di merci. Ed è certamente esatta la notazione che Croce concepì, in questo periodo, il profitto come un fatto “usurpativo”, come una specie di “furto”: «l’aspetto di vero – scriveva ancora nell’ottobre del 1899 – consiste, a mio parere, nell’avere il Marx richiamato fortemente alla coscienza la condizionalità sociale del profitto: di che lacrime grondi e di che sangue quel profitto, che nelle unilaterali e formalistiche esposizioni di coloro ch’egli chiamava i “commessi viaggiatori del liberismo” pareva quasi nascesse per virtù miracolosa, insita nel capitale». Dunque fu, a suo modo, un marxista, se con questo termine si vuole intendere non la metafisica materialista o l’azione rivoluzionaria, ma l’idea che il profitto derivi da un rapporto di forza, storicamente condizionato. |