Di fondamentale rilievo per l’evoluzione delle tendenze negli studi italiani in materia di filosofia della religione - oltre che per la riflessione sui risvolti teorici delle contemporanee vicende in tema di laicità, religione ed etica - è il volume, uscito nel dicembre 2008 a cura di Hagar Spano (Segretario dell’Associazione Italiana di Filosofia della Religione), che raccoglie i contributi presentati nel corso del VII Convegno annuale dell’Aifr tenutosi a Napoli il 20 e 21 giugno dello stesso anno. Sua ispirazione fondamentale è la necessità di rispondere alle sollecitazioni critiche e alle istanze definitorie «che provengono con sempre maggiore insistenza dal dibattito filosofico e culturale» (p. 9) su integrazione multiculturale, tolleranza e laicità. Come rileva nell’Introduzione Hagar Spano, il complicarsi del panorama terminologico, la variabilità delle sfumature semantiche del termine “laicità” e lo statuto, delineatosi nel dibattito pubblico, di categorie come quelle di “laicità” e “laicismo” denunciano l’emergere di una tendenza, restituita nei termini di una «rivincita del religioso» (p. 8), che merita «di essere tenuta in seria considerazione» (ibid.). Dettato da pressanti urgenze pratiche (le discrasie legate alle ultime evoluzioni tecnoscientifiche, mediche e culturali), il dialogo sulla laicità viene qui articolato su un livello «“neutrale” e filosoficamente rigoroso» (p. 4), che consente di mettere in campo tutta la complessità dei suoi importi sul piano individuale e comunitario. Continuità di tematiche e varietà di impostazioni caratterizzano a nostro parere il dibattito restituito nel volume, che, per la sua ricchezza e per il compatto incedere delle questioni, ci permette di articolare un variegato quanto plurale panorama di studi e di interessi problematici. In una fertile interazione dialogica si snodano le linee di una valorizzazione del religioso e del suo ruolo integrativo, pensato volta a volta come simbolico, culturale, o, più profondamente, come nucleo di significato e “donazione di senso”, o, ancora, come “principio di civiltà” e parte del fondamento irriducibile dello Stato liberale. Dalla necessità, fenomenologico-ermeneutica potremmo dire, di cogliere e preservare l’autenticità dei vissuti, di quello religioso in particolar modo, si origina così il tentativo di un potenziamento dell’apporto che l’esperienza religiosa, per la sua carica “affettiva” e simbolica, sempre tributa al vivere civile e laico: la difficile compossibilità di vissuto religioso e vissuto laico riproduce allora la problematicità, da sempre sussistente, della conciliazione tra il lato - in certa misura irriducibile, pena una sostanziale perdita di senso - rappresentativo e positivo delle religioni e il nucleo razionale - laicamente traducibile - della religione. Perennemente in bilico tra originarietà e caduta nell’inautentico, il vissuto religioso si districa parimenti tra universalità (o traducibilità) e individualità (o irriducibilità): nello sforzo di ripensare il suo inserimento nella vita pubblica e civile, qual è quello restituito nel volume, si manifestano i rischi e i risvolti in cui sempre incorre il tentativo di pensare il religioso, e di articolarlo comunicativamente - al di là dell’esperienza individuale - nell’ambito universale della vita in comune.
Serietà teorica e rigore concettuale contraddistinguono il ricco contributo di Sergio Sorrentino (Presidente dell’Aifr) - L’etica nello spazio tra religione e laicità - con cui si apre il volume: i tre termini che figurano nell’annuncio del Convegno sono raccordati da Sorrentino attorno alla formula bonhoefferiana per cui «Davanti a Dio e con Dio viviamo senza Dio» (p. 12). La tesi da cui muove la disamina di Sorrentino rinviene nell’etica il campo di esplicazione della libera responsabilità umana: nel suo orizzonte soltanto si pongono le condizioni per un possibile snodo tra esperienza religiosa e laicità. La compatibilità tra l’orizzonte religioso e quello laico è a sua volta condizionata alla genuinità cui le espressioni di tali orizzonti riescono ad assurgere nelle loro determinazioni storico-individuali. Se entrambi i vissuti sono infatti passibili di «deformazioni e cadute nell’inautentico» (p. 13), l’uno nella forma del fondamentalismo, l’altro nella forma del laicismo, il discrimine tra autentico e inautentico deve essere criticamente esaminato ai fini di un mantenimento della prassi etica entro i limiti di un’esistenza umana genuinamente orientata. Nell’esaminare il primo dei termini in questione, Sorrentino distingue due forme antitetiche dell’esperienza religiosa: la religione “immatura”, che nel suo bisogno è appesa alla presenza del divino come risoluzione di tutte le difficoltà esistenziali, e l’esperienza religiosa “matura”, nella quale il divino costituisce un «cardine esistentivo non trascendibile del mondo e della vita» (p. 14), un’offerta di senso che pervade l’intera esistenza di un «interesse ultimativo» (ibid.) autentico. Se la prima si espone, da un lato, al rischio di ridurre il Dio esperito nel genuino vissuto religioso a una sorta di deus ex machina, dall’altro, alla deriva di una deresponsabilizzazione dell’essere umano nella sua collocazione storica, la seconda si può accostare invece a quel vivere “etsi Deus non daretur” che, in una prassi etica responsabilizzante e ineludibile, è in grado di accettare persino l’impotenza del divino e la sua assenza nel mondo. Si tratta, in definitiva, della medesima differenza, stabilita da Bonhoeffer, tra religione e fede, tra religiosità inautentica ed esperienza credente. La critica della religione, che richiama la necessità di escludere dall’orizzonte delle concrezioni religiose una delle due possibili forme, costituisce per Sorrentino il presupposto fondamentale di un’«ermeneusi dell’esperienza religiosa credente» (p. 20): suo compito fondamentale è riportare la religione all’autenticità di quel nucleo di fede nei cui limiti essa è garantita tanto contro la deriva di un rapporto centrifugo col divino, fondato sul limite e sulla posizione di un oltremondo metafisico, quanto contro la degenerazione di una religione centripeta basata sul bisogno. La fede, al contrario, come «istituzione di un rapporto col divino strutturato da un decentramento» verso un “totalmente Altro”, richiama il titolare dell’esperienza credente a una «responsività» inderogabile, distogliendolo dal suo «ripiegamento centripeto» (p. 21) e aprendolo alla propria collocazione storica e comunitaria: in ultima istanza, all’esperienza laica stessa. Se, in relazione alla secolarizzazione, la fede autenticamente declinata costituisce infatti il nucleo mondanamente irriducibile della donazione di senso, il mondo della vita configurato dalla laicità è invece un mondo “ohne Gott”, fondato su quattro indici: l’epochè rispetto al divino, il dubbio zetetico sul significato del mondo e dell’uomo, la consapevolezza circa la non-gratuità del senso e il rispetto per le visioni e le pratiche altrui. I rischi cui anche la laicità così definita è esposta sono molteplici: se l’epochè può degenerare nell’occlusione, nella chiusura verso quel campo dell’esperienza umana che è costituito dalla religione e verso la ricerca del senso in generale, la pratica del dubbio non tetico richiede un’intelligenza adulta; la consapevolezza della non-gratuità del senso non possiede mai, dal canto suo, garanzie di riuscita e si appella in modo radicale alla responsabilità umana. In assenza del rispetto per le visuali altrui, infine, il rischio è quello della degenerazione della laicità nel laicismo, di cui l’ideologia, l’indifferentismo etico e l’intolleranza politica sono il tipico portato. Tramite l’identificazione di una laicità autentica come epochè Sorrentino ritiene garantita, al contrario, l’apertura di quello spazio mondano dialogico ed etico-pratico di cui il vissuto religioso autentico tenta a sua volta di articolare il senso ultimo.
Con puntuale e critica attenzione l’intervento di Francesco Paolo Ciglia (La religione fra compensazione e offerta di senso) ripercorre le linee tematiche del contributo di Sorrentino alla luce della tesi interpretativa in base alla quale si darebbe, nell’esperienza religiosa, una radicale ambiguità come proiezione della «differenza esistenziale» (p. 43) costitutiva dell’uomo e del mondo. La critica di Ciglia si appunta sulle forzature che operano nell’esame di Sorrentino e sulla implicita valutatività che in esse agisce sulla base dello schema che oppone autentico e inautentico, per sottolineare come anche la reduplicazione operata da Sorrentino all’interno dell’esperienza religiosa e laica non garantisca, di fatto, la necessità di una pacifica interazione tra le rispettive forme autentiche, ma ne apra, al limite, la sola possibilità: essa deve essere allora rivista nella misura in cui suggerisce l’idea che le possibili declinazioni dell’esperienza religiosa siano solo accidentali espressioni del religioso e non, più radicalmente, il riflesso dell’originaria differenza che caratterizza essenzialmente l’esistenza. Secondo Ciglia l’esistenza umana è caratterizzata infatti dalla coesistenza di significati regionali radicalmente differenti, che emergono da un «significato unitario, globale e ultimo» (p. 45), al quale tuttavia non sono riducibili. Il gioco, in quanto intreccio di normatività e gratuità, costituisce una metafora “speculativa”, che illumina il senso dell’esistenza in quanto insieme di sistemi regionali economici inglobati nella gratuità di un senso originario e complessivo: la gratuità del senso si manifesta negli interstizi delle regioni economiche, che sempre tentano tuttavia di riassorbirne e normalizzarne il mistero all’interno delle scansioni di vita di cui esso è fondamento. I due corni della differenza esistenziale si specificano così nei due termini del binomio gratuito-economico, rispetto ai quali il simbolo religioso si presenta come mediazione per eccellenza: essendo l’esperienza religiosa uno dei luoghi privilegiati per l’accadere del senso, il simbolo religioso offre all’umano la relazione con il nucleo originario di senso e manifesta il gratuito nell’economico, esponendosi così, anch’esso, a possibili «derive “economicistiche”» (p. 52). Se l’epochè laica di cui parla Sorrentino può essere allora riletta, in questo nuovo orizzonte problematico, come salvaguardia della differenza tra umano e divino, gratuito ed economico, il secondo versante da recuperare non è quello che rappresenta per Sorrentino il vissuto religioso autentico, ma è, all’opposto, il nucleo genuino dell’esperienza religiosa “immatura”: il bisogno di compensazione, inizialmente «ingenuo e egoistico» (p. 55), deve essere sottoposto a una progressiva trasfigurazione spiritualizzante, in virtù della quale esso attinga e manifesti, all’interno delle regioni economiche, il nucleo gratuito di senso dell’esistenza umana.
È dalla medesima problematica del senso che muove il contributo di Giuseppe Limone (Fra verità e senso. Il vissuto religioso come principio di civiltà). A partire dalla constatazione dei due eventi «opposti e complementari» (p. 57) che caratterizzano la contemporaneità: il progresso tecnoscientifico con la connessa crisi “verticale” di senso e il ritorno delle religioni, legato a un’“orizzontale” crisi di relazioni, Limone propone la scoperta del vissuto religioso come vettore unico per l’uscita dalla duplice crisi. Il progresso tecnoscientifico deve infatti mutuare dal vissuto religioso la riflessione sulle relazioni, a condizione però che le stesse religioni sappiano convertirsi in religiosità e attivare il nucleo civile del vissuto religioso stesso: esso viene a costituire per Limone un’autentica misura, «il crinale da cui dover non debordare e il criterio con cui poter automisurarsi» (p. 59). Tre sono i tratti costitutivi che fanno del vissuto religioso civile un simile criterio per il vivere civile tout-court: l’empatia, la pietà, come istinto di reciprocità, e il pudore come forma “a due facce” del rispetto. Sul piano relazionale particolare importanza riveste la pietà: mentre l’empatia si costituisce sull’asse identitario in virtù del quale gli uomini si riconoscono reciprocamente come tali e il pudore su quello della profondità, la pietà si configura proprio lungo l’asse relazionale del rapporto comportamentale con l’altro. Tre significati cruciali misurano invece il vissuto religioso positivamente determinato: la questione dell’unicità di Dio, in quanto apertura di un’univoca e libera offerta universale; la questione dell’eccedenza umana, che definisce le condizioni per il rispetto dell’altro come quid indeducibile e novità assoluta; la verità, che li raccoglie entrambi svolgendosi lungo i tre assi in questione (identità, relazione, profondità). Vi è pertanto tra persona e verità un nesso costitutivo: come la verità, la persona è evento che raccoglie in sé i tre assi in quanto «atto di esistere concreto, unico, relazionato e profondo» (p. 63). Alla stregua di Ciglia, Limone propone, mutatis mutandis, il simbolico come luogo originario dell’esplicazione del senso e della profondità della persona: ad esso la religione conduce tramite un cammino pedagogico progressivo, fino alla bellezza come guadagno più alto e cifra ultima del sacro. È nella poesia, più che nella religione, che si raccoglierebbero in definitiva, secondo Limone, le linee del richiamo vicendevole che lega vissuto religioso, civiltà e bellezza: conclusione, questa, definita dall’Autore stesso, con una nota suggestiva, nei termini di una scoperta «paradossale e illuminante» (p. 65).
All’intervento di Limone si richiama esplicitamente Wolfgang Kaltenbacher (Religione, ragione e laicità. Osservazioni sul discorso post-secolare) nell’impostare la problematica della duplice crisi all’interno dello spazio problematico offerto dal post-secolarismo: se Hegel, per primo, richiamando i rischi del pensiero tecnico, da un lato, e di ogni tipo di fondamentalismo, dall’altro, accomunava i due versanti sotto il medesimo segno dell’astrazione, è ormai pacificamente accettata - ricorda Kaltenbacher - l’esclusione, dall’orizzonte pratico e teorico, di una secolarizzazione intesa come mero indebolimento delle religioni nella loro funzione integrativa. Né la ragione può essere semplicisticamente concepita, come fa Limone, in base a un’identificazione riduttiva col solo versante tecnico. Sembra escluso, pertanto, che si possa pensare, con Limone, al progresso tecnoscientifico nei termini di una «tecnoscienza insaziabile che secolarizza ogni “credo”» (p. 57). Allo stesso modo, e specularmente, l’espressione “post-secolarismo” non significa il superamento del processo di secolarizzazione o un suo improvviso accantonamento: esso indica, al contrario, proprio l’esclusione di cui si è detto sopra, per cui si potrebbe ricordare, con Habermas, come «una società può diventare post-secolare soltanto se prima è stata secolare» (p. 70). Nel tentativo di rivalutare il ruolo delle religioni, Habermas finisce tuttavia per istituire un limite, tutt’altro che univoco e aproblematico, tra sfera pubblica - come sfera in cui tutte le manifestazioni, comprese quelle religiose, possono e debbono rientrare - e sfera istituzionale, in cui invece solo ciò che è laico “in senso debole” ha diritto di cittadinanza. La difficile praticabilità di un simile discrimine non esclude però che si possa pensare, per Kaltenbacher, a un indirizzo positivo che nella contemporaneità sarebbe offerto, in tal senso, sia sul versante politico-istituzionale che su quello religioso: da un lato, tramite il principio costituzionale della laicità, cardine degli ordinamenti democratici, dall’altro, per mezzo della storica apertura pluralistica della Chiesa che pare esser stata inaugurata nel Concilio Vaticano II: «Ci auguriamo - conclude Kaltenbacher - che non si perda l’eredità di questa storica apertura» (p. 75).
Rispetto ai due contributi che lo precedono, quello di Mario Micheletti (La centralità della dimensione etica nella questione della tolleranza religiosa) mira a riportare all’attenzione del dibattito il tema della tolleranza tramite un’analisi delle principali opzioni teoriche che si offrono nel panorama filosofico per una sua possibile giustificazione. Convinzione dell’Autore è che si dia una centralità della dimensione etica, e in particolare una speciale «rilevanza pubblica della moralità personale» (p. 90), in virtù della quale si può dire che «La qualità e l’efficienza delle istituzioni dipendono, almeno in parte, dallo spessore morale dei cittadini» (p. 88). È l’affermazione della centralità dell’etica ciò che porta Micheletti a rifiutare come insufficienti sia una giustificazione di tipo epistemologico della tolleranza, sia l’opzione “convenzionalistica” fondata sul relativismo culturale. La prima, facendo appello ai limiti della conoscenza o, più radicalmente, a uno strutturale scetticismo, si rivela troppo debole in quanto, così posta, la legittimazione della tolleranza cadrebbe nel momento in cui dovesse darsi effettivamente, per ipotesi, una certezza assoluta. Tra il Locke letto in chiave epistemologica di Rogers e quello letto in chiave etico-politica di Vernon, Micheletti propende perciò decisamente per il secondo e per lo spostamento, da lui operato, dal piano delle relazioni epistemiche a quello delle relazioni tra persone: «Il problema cruciale [nell’Epistola de tolerantia e nello Essay concerning Toleration] è quello della legittimità etico-politica dell’imposizione, nonché quello dei diritti della coscienza e del rispetto della dignità umana» (p. 82). Micheletti rifiuta, d’altro canto, la giustificazione di stampo convenzionalistico in quanto fondata sull’“incommensurabilità” delle culture, concetto giudicato empiricamente falso e pericoloso, oltre che autoreferenzialmente incoerente. Se la centralità dell’etica porta alla luce la rilevanza della continua interazione di piano pubblico e privato, la «rinascita della filosofia pratica» (p. 90) indica allora il particolare interesse che rivestirebbe una posizione del problema della tolleranza nel contesto della «prospettiva normativa» (ibid.) di un’etica fondata sull’altro opposto del relativismo: non l’assolutismo certo, bensì «la possibilità del confronto e del dialogo» (p. 89).
Il concetto di tolleranza, e la sua formulazione lockiana, vengono sottoposti ad attenta analisi nel saggio di Christian Berner (Il pluralismo religioso. Note sulla tolleranza e la laicità) che segue nel volume. Come rileva Micheletti, l’applicabilità del modello lockiano viene fortemente messa in dubbio da Berner: tale inapplicabilità tuttavia non denuncerebbe tanto, agli occhi di Micheletti, l’insufficienza delle teorizzazioni lockiane sulla tolleranza, quanto piuttosto la problematicità dei modelli etici oggi dominanti. La tesi che Berner si propone di fondare è quella secondo la quale la laicità costituisce «il fondamento politico a priori» (p. 92) della tolleranza in quanto risposta al multiculturalismo e al pluralismo religioso, cui corrisponde come «contropartita concreta» (ibid.) una prassi tollerante, la quale si esplica nell’opera che mira a riformare le identità individuali coesistenti senza umiliarne tuttavia la cifra specifica. Questo porta l’Autore, oltre che a mettere in luce le inevitabili difficoltà che in un contesto multiculturale si propongono all’istanza di universalizzazione insita nella laicità, a definire in conclusione la tolleranza come «la prassi del movimento verso l’universale rivendicato dalla laicità che si realizza nelle nostre società democratiche costituzionali» (p. 106). Il movimento universalizzante implicato dalla pratica della tolleranza pone evidentemente seri problemi alle religioni e alla loro pervasività nel regolare l’interezza della vita individuale e comunitaria. Al multiculturalismo si associa per di più, negli ultimi tempi, una tendenza alla valorizzazione del diritto comunitario a detrimento di quello comune: ripercorrendo le formulazioni rawlsiane sulle “dottrine comprensive” e la “soluzione dialogica” attribuibile tanto a Jaspers quanto a Habermas, Berner evidenzia come - se la laicità si riferisce all’individuo singolo (“laicità” deriva da laos, l’unità indistinta del popolo, pertanto l’individuo cui la laicità si riferisce è quello «che non fa parte di nessuna comunità specifica»; p. 99) e la tolleranza alla comunità - si rende necessario oggi un passaggio dalla laicità alla tolleranza, passaggio la cui condizione preliminare si fonda sul fatto che, in quanto basata sul conflitto, «la tolleranza di dottrine comprensive che sorreggono la vita nel suo insieme esige che le dottrine in concorrenza si trasformino, per adattarsi a quello che si può chiamare il modulo politico laico» (p. 104). Se questo implica, per le religioni, la necessità di un sostanziale rimaneggiamento delle proprie leggi e rappresentazioni in vista di un reinserimento “pacifico” nel contesto delle relazioni pubbliche, il portato ultimo di una simile concezione della tolleranza è una trasformazione, a nostro avviso niente affatto aproblematica, delle “verità” - siano esse religiose, politiche o etiche - in “valori” certamente più facili da spendere nel vivere comune, se non fosse che una tale traduzione rischia di implicare un meno fecondo indebolimento di quella che - riprendendo l’espressione di Ciglia - potremmo chiamare l’ “offerta di senso” di cui le dottrine comprensive si fanno carico.
Muovendo dalla constatazione della difficoltà che connota oggi «la gestione del confronto politico e sociale, soprattutto sulle questioni che riguardano la concezione dell’uomo, della vita, del futuro, della convivenza nel mondo» (p. 107), Francesco Miano si riallaccia nel suo saggio, intitolato Dialogo e verità, al nesso istituito da Berner fra tolleranza e laicità. Nesso che viene letto da Miano nei termini di una maturazione della tolleranza per cui essa non costituisce più la semplice e neutrale accettazione della diversità altrui, ma viene ad implicare la costruzione e la definizione di uno spazio comune in cui le diverse specificità possano proficuamente interagire. Si rende necessario, in vista di una «“politica del riconoscimento”» (p. 108) alla Taylor, il «procedere oltre la tolleranza» e oltre il «mero rispetto della differenza» (ibid.). Si tratta in tal senso di reperire un medio fra dialogo e verità, che «non scada né in forme integristiche né in un dialogismo fine a se stesso» (p. 109). Opportunamente sottolinea Miano come «Il dialogo autentico […] non impone di sacrificare la ricerca della verità. Si è chiamati, al contrario, “alla responsabilità nei confronti della verità, responsabilità che si esercita già con il dovere di procurarci conoscenze vere e di maturare convinzioni fondate […] e di saperle argomentare erga omnes in maniera appropriata e pertinente”» (ibid.). In una compenetrazione assoluta fra dipendenza dagli altri e libera autonomia, ogni individuo costituisce dialogicamente e comunitariamente la propria specificità in connessione con quella altrui. Marcando la necessità di nuovi strumenti per il dibattito pubblico e per la valorizzazione del multiculturalismo, Miano si rifà ad Habermas e all’“apprendimento complementare” per richiamare la cultura politica liberale al compito fondamentale della promozione di una «“laicità tale da permettere la libera ricerca delle verità ultime”» (p. 111).
Il volume si chiude con il contributo di Emilio Carlo Corriero (Ragione laica, ragioni religiose e Stato liberale). L’Autore rievoca l’incontro, svoltosi a Monaco il 19 gennaio 2004, tra Jürgen Habermas e l’allora cardinale Joseph Ratzinger e le polemiche nate attorno a Paolo Flores d’Arcais che nelle sue “undici tesi contro Habermas” criticava le affermazioni habermasiane circa la legittimità delle ragioni religiose nello stato liberale. La ricostruzione operata da Corriero tira in campo la teorizzazione rawlsiana del liberalismo politico e l’habermasiano “filtro” tra ambito pubblico e istituzioni, già richiamato da Kaltenbacher, per rilevare, contro la stessa critica di Flores d’Arcais («arroccato nella posizione laicista che ai suoi occhi coincide perfettamente con la ragione pubblica, ma che in realtà assume le forme di una vera e propria metafisica»; p. 117) le sfasature del discorso di Habermas: non è, come per Flores d’Arcais, l’inaccettabilità delle ragioni religiose, la loro sostanziale intraducibilità in termini pubblici e laici, a servire da obiezione al discorso di Habermas; più alla radice, è proprio l’aver posto la necessità di una traduzione “politica” di questi principi, la cui genesi essenziale è irriducibilmente pre-politica, ciò che rivela come Habermas tenti di re-includere nel politico qualcosa di cui in fondo ha già da sempre estromesso la cifra essenziale. Con tutti i conflitti e le discrasie che esso può comportare, si tratta per Corriero di prendere in carico il compito di un’assunzione della verità; al di là di ogni censura laica metafisicamente irrigidita, si tratta di non rinunciare a quel “massimo di verità possibile” che risiede nei presupposti più solidi dello Stato liberale. Per la problematicità che denuncia e per l’asciutta nettezza con cui viene esibita, ben si presta a chiudere la nostra disamina l’alternativa che Corriero delinea a conclusione del suo saggio: se è vero che «La società liberale si nutre essenzialmente della conflittualità che ne è all’origine e che nessuna visione unificante (quella laica compresa) può esaurire senza determinare la fine dei principi su cui si basa» (p.119), allora a buon diritto si può sostenere che essa «In considerazione dei suoi presupposti teorici, […] si trova oggi nella condizione di dover scegliere se radicalizzare la propria base neutrale esponendosi al rischio nichilistico che già ampiamente la pervade, arretrando così inesorabilmente sul terreno delle libertà personali, ovvero spingere alle estreme conseguenze i presupposti normativi da cui nasce, […] accettando in ogni caso un conflitto interno dagli esiti più o meno prevedibili» (p. 120). |