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Vincenzo Cuoco, Epistolario (1790-1817) , Laterza, 2007
di Massimiliano Biscuso

L’Epistolario (1790-1817) costituisce il secondo volume delle Opere di Vincenzo Cuoco. Scritti editi e inediti, curate da Luigi Biscardi e Antonino De Francesco. Come il primo volume, Platone in Italia, anche questo secondo mette di nuovo a disposizione degli studiosi e dei lettori pagine pubblicate ormai più di ottant’anni fa. Con la notevole differenza, però, che il carteggio posto a conclusione del secondo volume degli Scritti vari, curati da Nino Cortese e Fausto Nicolini  – Periodo napoletano (1806-1815) e carteggio, Laterza, Bari 1924 – contava solo 123 lettere, a fronte delle 218 qui pubblicate, cui si devono aggiungere alcuni importanti abbozzi riportati in Appendice (pp. 345-380), per un totale di 225 documenti. Come spiega con chiarezza nella sua introduzione Maurizio Martirano («Spirito pubblico» e «spirito privato»: qualche considerazione per un profilo biografico di Vincenzo Cuoco, pp. vii-lxx), la presente edizione non solo riporta integralmente le lettere già edite da Cortese e Nicolini, che le avevano trascritte in modo parziale selezionandone i brani più significativi e interessanti, ma vi aggiunge tutti i ritrovamenti successivi e, grazie ad una meticolosa ricerca archivistica, integra le lacune e pubblica alcune lettere finora del tutto inedite. Ogni lettera è seguita da una nota che segnala il fondo che la possiede, se il documento è inedito o se e dove è già stato pubblicato, dà inoltre indicazioni biografiche, e a volte anche bibliografiche, sui personaggi citati.
Si tratta, dunque, di un importante strumento di lavoro per comprendere la vita e la fisionomia intellettuale di Cuoco, sebbene si debbano avanzare delle avvertenze per non accostarsi ingenuamente a questi documenti, con l’inevitabile rischio di fraintenderli. Come opportunamente scrive nella postfazione Domenico Conte («Situazione», strategie e schermature nell’epistolario di Vincenzo Cuoco, «l’uomo più disgraziato di questo mondo», pp. 381-426), le circostanze storiche nelle quali Cuoco scrive – prima nella Napoli di antico regime, poi, dopo la parentesi rivoluzionaria, nella seconda Cisalpina, nella Repubblica e nel Regno d’Italia, infine di nuovo nella Napoli di Giuseppe Bonaparte e Gioacchino Murat – imponevano una particolare cautela, a causa di una censura «occhiuta e pesante», inducendo Cuoco a ricorrere sia a un’«autocensura preventiva» (non si affrontano argomenti ritenuti pericolosi o compromettenti o comunque inopportuni), sia a un’«autocensura sopravvenuta» (il molisano distrusse parti cospicue dei suoi scritti e documenti). Va aggiunta inoltre la circostanza che molte lettere si smarrirono nel viaggio verso il destinatario. Insomma: chi legge il carteggio cuochiano deve fare i conti con lacune, casuali o volute, comunque importanti, e strategie di mascheramento; con la «necessità di dire e non dire, di dire una cosa intendendone non di rado un’altra, di costellare la scrittura di segnali non facilmente […] interpretabili» (p. 388).
Ciò che balza agli occhi, leggendo l’epistolario cuochiano, è soprattutto la dimensione privata – e perciò la presente edizione può contribuire ad una più precisa biografia dell’autore molisano –: «è un Cuoco per molti versi inedito quello che emerge da queste pagine, impegnato ad affrontare e risolvere soprattutto problemi di carattere materiale, legati alla sua difficile situazione nel periodo dell’esilio e alle questioni familiari che lo angustiavano» (pp. xx-xxii). Ma, per quanto importante, non è questa dimensione dell’epistolario che vorrei discutere. Ben più interessante mi sembra comprendere il significato dei «moduli» tattici, come li ha chiamati Conte (p. 382), cui Cuoco ricorse all’interno di una più generale strategia di prudente comunicazione delle proprie idee – quelle che si potevano comunicare, evidentemente: ad es. non si fa cenno nelle lettere ad un elemento cardinale del suo pensiero politico quale il costituzionalismo – e di costruzione dell’immagine di sé. Tali moduli sono la rivoluzione come evento subìto e l’essere autore come scelta casuale.
Si leggano, a mo’ di esempio, alcuni passi dell’epistolario. Nella lettera al fratello Michele Antonio, del 20 marzo 1802, si dipinge come «un uomo che ha potuto esser condannato solo perché si trovò strascinato in un vortice che egli odiava, ma a cui era impossibile resistere; un uomo in cui l’amor della patria, della pace, della virtù non sono parole» (p. 64). E nel fondamentale curriculum vitae indirizzato a un destinatario ignoto, in data 26 maggio 1805, scrive: «Seguii la rivoluzione come conviene ad un uomo onesto, il quale ubbidisce a qualunque governo legittimamente domina sul proprio paese; non l’amai, perché credei i principi coi quali allora le cose si diriggevano non esser quelli del pubblico bene; ma sperai che da quel disordine potesse finalmente nascere un ordine nuovo e migliore; e l’ordine che io sperava differiva di poco da quello che il gran Bonaparte ha stabilito». E proseguiva poco dopo: «Nell’esilio ho coltivato le lettere per non aver meglio da fare» (p. 151). Modulo questo, già ampiamente sperimentato in una precedente lettera scritta dalla Savoia nella seconda metà del 1800 a T. C., nella quale rievoca «i giorni più belli della mia vita» trascorsi «sulle deliziose colline di Posillipo» a conversare con un’amica, e paragonando quel periodo felice all’attuale condizione di disgrazia, giustifica così la stesura dell’«operetta», il Saggio storico: «Forsi, se un avvenimento, che non si potea né prevedere né evitare, non avesse rotto quel corso che io avea segnato ai miei giorni, forsi io non avrei scritto, non sarei stato autore, ma sarei stato felice. E non sarebbe stato meglio godere della vita che dissertarvi? Si è detto che l’agio e l’ozio han fatto nascere i primi filosofi. Io non lo so; ma so bene che le sole disgrazie possono spingere un uomo a divenire autore» (p. 41).
A tal proposito, Conte parla di «una doppia negazione: da un lato l’estraneità e la distanza dalla rivoluzione, presentata come “vortice”, dall’altro la casualità, l’impreparazione e dunque l’‘innocenza’ del proprio impegno letterario». Si tratta, però, di negazioni fittizie, che vanno intese piuttosto come «schermature», tecniche di «difesa rispetto ad ambiti della propria attività, passati e presenti, ritenuti delicati, sensibili e, al limite, compromettenti». Non solo l’impegno letterario fu profondamente determinato «da una concezione della letteratura come militanza culturale e politica», dalla quale non andavano disgiunte motivazioni personali legate alle potenzialità dell’impegno letterario come canale di promozione sociale, ma diverse circostanze mostrano Vincenzo Cuoco molto più intrinseco e contiguo rispetto agli ambienti rivoluzionari, almeno durante i mesi della Partenopea, di quanto abbia voluto far credere (pp. 419-421). La scrittura epistolare, già di per sé situata in una dimensione intermedia tra il pubblico e il privato, soprattutto in un caso come questo assomiglia molto, proprio per l’utilizzazione dei moduli sopra descritti, alla scrittura autobiografica nella costruzione di un’immagine di sé da consegnare ai propri interlocutori, diretti o indiretti che fossero. Cuoco tende ad accreditarsi davanti agli ambienti prima milanesi e poi napoletani come estraneo alla preparazione e agli eventi della rivoluzione partenopea, evento imprevedibile e incontrollabile, comunque distante biograficamente dall’esule o dal reduce, che per queste fortuite vicende è diventato autore (pp. xli-xlii, 407); anche il sostanziale silenzio sulla sua opera più importante, il Saggio storico sulla rivoluzione di Napoli, a vantaggio invece del Platone in Italia e della Statistica mai portata a termine, va nella direzione di questa costruzione di sé, che vuole la parentesi rivoluzionaria, compresa la riflessione critica su di essa, come qualcosa di veramente estraneo al “vero” Vincenzo Cuoco.
Se perciò queste affermazioni «non possono essere schematicamente riportate sotto l’etichetta del moderatismo o del “catonismo”» (p. xlii), tuttavia non è neppure plausibile ritenere che con il moderatismo nulla abbiano a che fare, come in effetti credono tanto Martirano quanto Conte, non trattando mai la questione, e mostrando di aderire all’interpretazione di De Francesco, che io ho già discusso criticamente su questo sito recensendo il Platone in Italia (cfr. http://www.giornaledifilosofia.net/public/filosofiaitaliana/scheda_rec_fi.php?id=59). Giustamente Conte scrive che la scelta di Cuoco di diventare autore, come dimostra in modo esemplare proprio la genesi del Saggio storico, va inserita «in una strategia del ‘fare’, che non è solo un ‘fare’ storico e filosofico, ma anche e soprattutto un ‘fare’ politico, attento a cogliere le occasioni di intervento nella realtà per modificare la realtà e anche la propria situazione dentro la realtà» (p. 410). Ma, appunto, non discute se un tale ‘fare’ vada inteso come realistica adesione, o forse sarebbe meglio dire costruzione, all’opzione moderata. Credo al contrario che proprio l’immagine di sé che Cuoco ci offre nelle lettere sia del tutto congruente con il progettare una “via mediana”, che ideologicamente si presentava, e poi si è sempre presentata, come estranea e superiore alla opposte parti in lotta tra loro, tesa com’è a edificare il solo bene della nazione e a difendere il potere legittimo: «Fui dai democratici accusato qual aristocratico; dal Re condannato qual democratico; dall’uno e dall’altro partito rispettato qual uomo onesto» (p. 151). Una qualità morale, prepolitica, si opponeva alla scelte politiche degli estremi. Cuoco già parlava il discorso di sempre del moderatismo.

PUBBLICATO IL : 29-09-2009
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