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N. Bobbio, U. Campagnolo, Dialogo sulla politica della cultura , Il Melangolo, 2009
di Andrea Pinazzi

Uscito a maggio di quest’anno nella collana Università di Il melangolo, questo breve volume – curato da Davide Cadeddu – raccoglie i tre articoli che, tra l’ottobre 1960 e il gennaio dell’anno successivo, costituirono il botta e risposta fra Campagnolo e Bobbio sui temi “politica e filosofia” e “politica della cultura”.

L’introduzione di Davide Cadeddu occupa circa metà del volume e ripercorre la genesi sia storica – da quando nel 1949 Campagnolo propose a Bobbio di entrare a far parte della costituenda Société Européenne de Culture – sia teorica del confronto fungendo, quindi, anche da apparato critico. Da un lato l’attenzione va al programma della SEC: la necessità di «estendere la conoscenza della società in ambienti culturali più vasti» (p. 9) per arginare «quella propaganda che vuole indurre ciascuno di noi, attraverso gravissimi errori di prospettiva storica, all’unilateralità delle vedute» (p. 10) era comunemente avvertita dai due filosofi. Dall’altro si esplicita che la diversità di vedute sul concetto di filosofia e sul ruolo assegnato alla scienza politica non è e non può essere accidentale, ma è immanente a due filosofie che si distinguono sia per il modo di procedere che per gli autori di riferimento.

Il primo – e il più corposo – dei saggi qui pubblicati è l’articolo di Campagnolo Politica e filosofia, stampato la prima volta su Rivista di Filosofia dell’ottobre 1960.
Per Campagnolo la politica non può essere oggetto di scienza, non è riducibile a necessità di natura, ma è un atto di volontà. Quella che interessa a Campagnolo è la politica intesa non in astratto ma la politica ricondotta alla concreta esperienza in cui «la pratica e la teoria sono indissolubilmente fuse nell’unità dell’azione» (p. 37). Si coglie un’eco idealista, gentiliana, che fornirà a Bobbio lo spunto principale per la sua critica. La politica, inoltre, non può essere oggetto di scienza perché questa si occupa di fenomeni, ma essa non è fenomeno bensì concetto, non è esterna, contingente al soggetto, ma è la «forma concreta dello spirito umano» (p. 38), è l’attività essenziale dell’essere umano, l’attività che gli dà «la struttura stessa del suo pensiero» (p. 44). Nel pensiero, aprioristicamente, è data anche la società, che – come rileva Bobbio – pare non si distingua dalla politica. Campagnolo polemizza con i contrattualisti che non riescono a dimostrare la socialità ma si limitano a postularla. Dal momento che la politica-società è data nel pensiero, pare evidente che la filosofia sia inevitabilmente politica, che equivale a impegnata in politica, non nel senso del detto marxiano secondo cui si tratta di cambiare il mondo ma nel senso in cui, se la filosofia non prendesse ad oggetto quell’attività, quel concreto umano operare che agisce sul mondo, trasformandolo, resterebbe un «astratto esercizio logico, vuota retorica» (p. 42). La filosofia, dunque, come assoluto, come pensiero che si fa, si fa storia e fa la storia. Ma cos’è la storia? Campagnolo aggira il problema affermando che non è importante per la filosofia se la storia sia tutta la realtà o una sua parte, non è importante la domanda sull’essere, anzi, interrogarsi sull’essere è antifilosofico: dire che qualcosa “è” significa, in qualche modo, renderlo indipendente dal soggetto, indipendenza inconciliabile con una filosofia che vuole essere assoluta. Il problema dell’essere sfocia, per Campagnolo, in «antinomie insuperabili o nell’amputazione del pensiero»(p. 44).
L’autore riconduce le origini della politica della cultura al ruolo che Platone assegna alla filosofia all’interno della polis, nel trasformarsi della politica in speculazione filosofica, nel suo farsi dialettica. Proprio perché introduce la consapevolezza della dialetticità del rapporto tra reale e ideale, la filosofia impedisce alla società di sclerotizzarsi mantenendone la dinamicità, funziona, per così dire, come un anticoagulante sociale la cui azione è essenziale per mantenere in vita la società stessa.
Qual è il ruolo dello Stato in questo quadro? L’autore lo pensa come culmine dell’attività politica, coincidente col diritto. Tuttavia la sovranità dello Stato nasce da una necessità, non è incarnazione della coscienza dell’uomo e la libertà umana non consiste nell’obbedire alle leggi. Accanto allo Stato rimane, imprescindibile, la libertà morale individuale. Campagnolo assume, quindi, su questo punto, una posizione non idealistica, che utilizzerà per difendersi dalle accuse di Bobbio.
La politica della cultura mira alla salvaguardia delle condizioni in cui l’uomo può svolgere l’attività creatrice che lo oppone, dialetticamente, allo Stato, spingendo quest’ultimo a superare le sue forme particolari. Campagnolo, scrivendo in un periodo in cui era particolarmente sentita la tendenza dello Stato a sostituirsi alla coscienza morale individuale, considera molto urgente la questione, pur antica, di cui investe la politica della cultura. Gli uomini di cultura devono «interpretare e difendere le ragioni universali della giustizia, che nessun ordinamento giuridico può esaurire» (p. 54). Campagnolo distingue tra uomini di cultura e intellettuali: mentre i primi agiscono liberamente, perseguendo fini universali, i secondi si pongono al servizio della politica ordinaria in una delle sue forme particolari. Dal momento che si è accennato al periodo storico in cui l’articolo viene redatto è opportuno ricordare – come fa anche Cadeddu nell’introduzione – che Campagnolo, lungi dal considerare Est ed Ovest come due antinomie, li interpretava piuttosto come «due momenti dello sviluppo […] di una stessa realtà etica, culturale e sociale» (p. 11). In questa cornice dialettica va posta la politica della cultura, con la sua tendenza a superare lo Stato per riunire gli uomini in una sorta di comunità ultrastatuale o a-statuale.

Sullo stesso numero di Rivista di Filosofia viene pubblicata la risposta di Bobbio all’articolo di Campagnolo.  In realtà Bobbio – direttore della rivista – aveva già espresso all’autore di Politica e filosofia in forma privata alcune perplessità: l’articolo sembrava affrontare troppi problemi in una volta e non era chiara la connessione tra filosofia politica e politica della cultura, la prima essendo riflessione sull’attività e la seconda un modo di fare politica (p. 18). Il saggio di Campagnolo viene comunque pubblicato seguito, nella rubrica Note e discussioni, dal breve articolo di Bobbio Filosofia politica o politica della filosofia?Risposta a U. Campagnolo qui riprodotto.
L’articolo si apre ribadendo il consenso di Bobbio all’idea di politica della cultura portata avanti da
Campagnolo, il dissenso riguarda piuttosto «l’impostazione generale data al problema della filosofia politica» (p. 57) rendendo evidente la profondità di differenze interpretative che riguardano il modo stesso di concepire la filosofia.
Con riferimento ai tre significati dati da Renato Treves all’espressione “filosofia politica” Bobbio accusa Campagnolo di idealismo: «il concetto di politica di cui parla […] è a priori» (p. 57) così come a priori è data la società. Il darsi aprioristicamente di politica e società ha lo scopo di difendersi da possibili obiezioni. Bobbio rifiuta la distinzione fatta da Campagnolo tra concetto e fenomeno, il concetto di politica si forma, per lui, a partire dal fenomeno politica; separarli significa porre la politica, fatta concetto, in una condizione in cui «non può essere smentita dall’esperienza» (p. 58). Una soluzione di comodo, dunque, che permette di dedurre la realtà «a tavolino».
Campagnolo sarebbe spiritualista e la società spirito. E’ il suo spiritualismo a spingerlo a rifiutare la scienza, e la scienza politica in particolare: «le scienze ci offrono generalizzazioni più o meno sicure, ma non scoprono l’essenza» (pp. 58-59). La scienza politica si occupa della politica come fenomeno, modus operandi che non crea alcun problema a Bobbio – che come si è visto definisce un punto oscuro la distinzione tra concetto e fenomeno – ma che risulta inaccettabile a Campagnolo.
Bobbio ribadisce la condivisione morale delle tesi di Campagnolo e, così facendo, rimarca, ancora una volta, che la distanza è filosofica, riconosce le esigenze della coscienza morale contro la «potenza minacciosa, sempre più minacciosa, dello stato» (p. 60) ma chiede, in forma esplicita, all’ «amico Campagnolo» se è davvero convinto che la filosofia idealistica sia adatta a renderne conto.
L’errore di Campagnolo è nel punto di partenza: egli, come altri idealisti, cerca «la fondazione del liberalismo nel pensiero dei classici dell’antiliberalismo» (p. 60) che  per Bobbio sono Hegel, Marx e Platone, costringendosi a forzature per raggiungere quello che in altre tradizioni filosofiche è raggiunto con difficoltà molto minori. Bobbio si riferisce ai classici del pensiero politico inglese, Locke in primis. Un ultimo attacco antiidealistico chiude l’articolo: «come nella parte teorica penso che l’idealismo sia un cattivo consigliere – dice Bobbio – così, in questa parte storica, temo sia un pericoloso alleato» (p. 60). Quest’ultimo riferimento alla parte storica del saggio trascende il contesto dell’articolo in esame per prendere ad oggetto la concretezza della storia politica e delle alleanze novecentesche tra politiche e idealismi.

La replica di Campagnolo deve attendere il numero del gennaio 1961 della Rivista di filosofia. La risposta riprende, non casualmente, il titolo del primo saggio, specificando che si tratta di una prosecuzione, si intitola, quindi: Politica e filosofia. Replica a Norberto Bobbio.
Come aveva fatto anche Bobbio, Campagnolo inizia confermando la vicinanza politica. Entrambi, egli afferma, intendono difendere la tradizione liberale. Esplicita, quindi, che la differenza è tra due concezioni di filosofia e che su tale punto dovrebbe vertere la discussione, mentre «Bobbio trascura di analizzare le ragioni ond’egli nega validità alla filosofia che egli chiama troppo indifferentemente speculativa, spiritualista, idealista» (p. 61). Campagnolo respinge non tanto le accuse di idealismo ma l’accusa mossa all’idealismo stesso di essere illiberale: «se l’idealismo,in Italia, ha avuto la sfortuna di essere presentato come una dottrina fascista, non è questo un buon motivo per gettare il neonato con l’acqua sporca» (pp. 64-65). La difesa dell’idealismo esce dall’ambito filosofico, difende l’idealismo sul piano della sua vicenda storica italiana, lo svincola dalla definizione di «pericoloso alleato» ma non da quella di «cattivo consigliere» mostra, inoltre, di considerare conclusa con l’esperienza italiana la vicenda politica secolare dell’idealismo, dimenticando altri idealismi che ancora dominano la vita politica europea. In realtà il problema di un idealismo immanentemente totalitario non è avvertito da Campagnolo: i regimi totalitari si sono retti, nel corso della storia, con ogni tipo di dottrina o, anche, senza alcuna dottrina e, comunque, «ogni vera filosofia rappresenta una resistenza, un limite, per lo stato» (p. 61) che la combatte opponendole dottrine meno filosofiche. Rifiutato lo schema di Treves, più adatto alle dottrine politiche che non alla filosofia politica, di cui non esaurisce né i temi né i modi di accostarvisi, Campagnolo rivendica la sua discendenza dai “classici dell’antiliberalismo”, in primo luogo Platone, mediato da Aristotele, Hegel e Marx. In essi ritrova, innanzitutto, il ruolo della filosofia come fonte dei valori della polis. Le dottrine dei pensatori empirici, benché più lineari, meno aporetiche, gli appaiono superficiali, si spinge fino a ipotizzare che la simpatia per i pensatori liberali, in particolare gli anglosassoni derivi dal fatto che «ne condividiamo gli ideali» (p. 64) più che da ragioni filosofiche. L’autore ritiene comunque di superare le insidie illiberali dell’idealismo prendendo a oggetto della filosofia non l’essere ma l’uomo, rinunciando a considerare coincidenti reale e razionale e accusa Bobbio di aver sorvolato su questa sua presa di distanza dall’idealismo. Il netto rifiuto di risolvere l’individuo nello Stato è quanto fa poi maggiormente risaltare il tentativo di Campagnolo di smarcarsi dall’idealismo pur conservandone alcuni tratti fondamentali. L’autore chiude affermando – ma non argomentando –  che ci sono maggiori rischi di illiberalismo «nel concetto di politica “scientifica”, a cui perviene fatalmente la “filosofia empirica”» (p. 65).
Quest’affermazione chiude anche il dibattito. Non ci sarà una nuova replica di Bobbio. I punti di distanza tra le due filosofie sono ormai chiari.

Al di la delle considerazioni filosofiche, i tre articoli raccolti nel libro chiedono, a cinquant’anni dalla loro prima pubblicazione, che sia loro riconosciuta, ancora una volta, validità politica. La domanda che bisogna porsi è se – oggi che gli Stati si indeboliscono, perdendo terreno a favore di una società civile internazionalizzata che eredita la tendenza a raccogliere e dirigere le coscienze morali dei singoli; oggi che gli idealismi militanti sono scomparsi dall’Europa e che, nei paesi dove restano in vita, sembrano ispirati più da necessità produttive che non da una coscienza nazionale o di classe – abbia ancora senso una politica della cultura che si pone, tra i primi obbiettivi, che l’individuo oltrepassi lo stato. Forse è proprio nella natura ultrastatuale, intersoggettiva di tale politica che va cercata la risposta.

PUBBLICATO IL : 03-12-2009
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