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Norberto Bobbio, Giustizia Democrazia Rivoluzione , Aragno, 2009
di Andrea Pinazzi

Nel centenario della nascita di Norberto Bobbio, Aragno sceglie di ripubblicare tre saggi dell’autore torinese usciti su Teoria Politica tra il 1985 e il 1989. L’importanza della riedizione, curata da Luigi Bonante, è accentuata dal cadere nel momento in cui la rivista cessa le pubblicazioni. I tre saggi affrontano argomenti totalmente distinti, è, dunque, inutile la ricerca di un filo conduttore che vada oltre il comune riferimento alla vita politica e sociale del cittadino e dello Stato.

Nel primo dei tre articoli – pubblicato nel 1985 col titolo Sulla nozione di giustizia – l’autore intende dimostrare, muovendo dalla classica distinzione aristotelica tra giustizia intesa come legalità o come eguaglianza, l’insufficienza delle due nozioni prese separatamente. Ritenendo che «non si possa affrontare di petto, o direttamente, l’analisi della nozione di giustizia», il filosofo torinese afferma che «se la lettura dei classici ci può essere di qualche utilità anche in questo caso, essa ci ha dimostrato che tale nozione appartiene a una famiglia di altre nozioni che si richiamano continuamente l’una con l’altra» (p. 8). Il dibattito sulla giustizia deve, dunque, essere inserito in un orizzonte più ampio in cui rientrano, come coprotagonisti, le nozioni di legge, eguaglianza e ordine. Il termine principale – la giustizia – non può essere inteso se non in un rapporto in cui ciascuna di queste tre nozioni rimanda inevitabilmente all’altra, in uno schema in cui la giustizia si trova ad essere a un tempo motore primo e termine ultimo della combinazione di questi tre fattori. Bobbio inizia, così, col portare avanti un’analisi del termine giustizia nella relazione bilaterale che, separatamente, intrattiene con ciascuno degli altri tre termini. Si esamina, dapprima, la relazione che la giustizia intrattiene con la legge, rapporto in cui giusto corrisponderebbe, inevitabilmente, a legale e ingiusto sarebbe tutto ciò che non è conforme a legge. Questo significato di giustizia vale, però, «soprattutto e limitatamente quando viene attribuito a un’azione umana», meno chiara è la corrispondenza tra giustizia e legge quando il termine giusto, anziché riferirsi a un’azione, si riferisca a un individuo: «un uomo giusto può essere tanto un uomo rispettoso delle leggi, quanto un uomo equanime che distribuisce imparzialmente il torto e la ragione, e in questo caso la nozione di giustizia richiama piuttosto quella di eguaglianza» (p. 10). Il termine giustizia si rivela, dunque, ambiguo: se, infatti, permanendo nel considerare giusto equivalente a legale, è illecito porsi la domanda sulla giustizia della legge, non altrettanto si può dire per le azioni legate, anche strettamente, alla legge stessa, è dunque lecito chiedersi se una sentenza, pur rispettosa della norma in vigore, sia o meno giusta. E’ evidente, dunque, che il problema della giustizia non possa essere ridotto tout court al problema della legalità dell’azione, ma debba passare attraverso il rapporto che la legge stessa intrattiene col principio di eguaglianza. Come è noto, una norma è caratterizzata dai due criteri di generalità e astrattezza, attraverso cui «una legge, qualsiasi legge, assicura una prima forma di eguaglianza, l’eguaglianza formale, intesa come l’egual trattamento di coloro che appartengono alla stessa categoria» (p. 14). Tuttavia, nell’adattamento della norma astratta al caso concreto, possono darsi due casi anomali: equità e privilegio. «La prima permette di correggere una possibile diseguaglianza che risulterebbe dall’applicazione rigida della norma generale, e quindi non viola la regola di giustizia. Il secondo introduce una diseguaglianza non prevista, e quindi viola la regola di giustizia» (p. 15). Nel primo caso si avrebbe, cioè, una diseguaglianza di trattamento relativa alla diseguaglianza di situazione – ad esempio psicologica – in cui l’azione illecita si è consumata; nel secondo, invece, a parità di situazione si avrebbe un trattamento diseguale di diversi individui o di diverse classi. L’eguaglianza di trattamento, intrinseca alla legge stessa, deve essere distinta dall’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, principio con cui non s’intende affermare l’identità assoluta dei cittadini, ma che può – e deve – essere inteso in due modi distinti a seconda del soggetto a cui si ritiene che questo precetto sia rivolto. «Rivolto ai giudici può essere tradotto in quest’altra formula: “La legge deve essere eguale per tutti”» (p. 17). S’intende, uguale per tutti coloro che rientrano in una determinata classe – ad esempio quella degli omicidi – fermo restando il ruolo del giudice di stabilire, di volta in volta, chi rientri o meno in una data classe. Se, invece, questo medesimo principio s’intende rivolto non al giudice, ma al legislatore, il suo significato muta nell’affermazione che tutti debbono avere una legge uguale, ovvero che non ci devono essere cittadini o classi per cui, aprioristicamente, una data legge non valga. «La differenza fra i due significati è resa evidente dalle rispettive negazioni: altro è dire che “la legge non è eguale per tutti”, altro che “non tutti hanno eguale legge”. La prima espressione mette in evidenza la violazione da parte dei giudici del dovere di imparzialità; la seconda lascia intendere che la società è ancora divisa in ceti, o ordini, o classi, e ogni ceto o ordine o classe ha un proprio ordinamento giuridico» (p. 17).  Il principio di eguaglianza di fronte alla legge è il frutto delle rivoluzioni borghesi del secolo XVIII, è noto come, nella Dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti, si affermi che «tutti gli uomini sono creati uguali», e come, all’articolo 1 della costituzione Francese del 1791 si legga che «gli uomini nascono e rimangono liberi e uguali nei diritti». L’intento era, in entrambi i casi, quello di escludere la diseguaglianza giuridica dei cittadini sulla base di diseguaglianze di rango, tuttavia discriminazioni e diseguaglianze di fronte alla legge si sono mantenute in vigore anche a valle di questi due scritti fondamentali, ad esempio su base sessista; dunque, «l’unico significato innovativo che si possa ad esso [principio di eguaglianza di fronte alla legge] attribuire è che l’ordinamento non tollera discriminazioni ingiuste, dove per ingiustizia s’intende una discriminazione dallo stesso ordinamento non prevista (rispetto al diritto posto, ed è aperto alla eliminazione di discriminazioni ancora esistenti via via che le differenze su cui esse si fondano vengano sentite e concepite come non più rilevanti» (p. 19). Il discorso sulla rilevanza delle differenze conduce a dover attuare il passaggio dalla regola di giustizia, relativa a un principio di eguaglianza formale, a criteri di giustizia che possano dirci se e quando una differenza è rilevante. Problema che «sarebbe enormemente semplificato se tutti gli uomini fossero eguali in tutto come si dice che siano, se pur soltanto in senso metaforico, due palle di biliardo o due gocce d’acqua» (p. 20). Il problema è che, in riferimento all’ordinamento giuridico, è senz’altro giusto compiere un’azione da esso prescritta, ma possiamo essere certi che l’azione prescritta sia giusta? Possiamo, ad esempio, essere certi che il diritto di voto debba essere prerogativa dei cittadini maschi? Nella scelta di un criterio, piuttosto che di un altro, è inevitabile rifarsi a giudizi valoriali indimostrabili e suscettibili di mutamento storico. L’esempio portato da Bobbio è quello dell’art. 3 della Costituzione italiana, che stabilisce l’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge senza distinzioni di sesso, razza, religione, opinioni politiche, sociali ecc., è evidente, però, che tali differenze abbiano costituito in altre epoche – o costituiscono ancora in altri luoghi – differenze sufficienti alla messa in pratica di distinzioni categoriali tra cittadini (si pensi, ad esempio, alle leggi razziali promulgate dal governo fascista nel 1938, o alle situazione di discriminazione, spesso drammatica, che le donne si trovano ancora oggi a subire).
Altro aspetto connesso con la nozione di giustizia è l’ordine: «da Platone in poi la virtù della giustizia è la virtù che presiede alla costituzione di una totalità composta di parti e in quanto tale consente alle parti di stare insieme» (p. 24). Il rapporto tra giustizia e ordine, e la sua relazione con la nozione di legalità, conduce il nostro a dover affrontare il problema del rapporto tra giustizia e libertà, ovvero ad esaminare la possibilità di una società giusta composta di uomini liberi. Problema che storicamente è sempre stato risolto privilegiando uno dei due corni della questione, dando luogo alla scissione tra dottrine liberali – che privilegiano la libertà individuale – e dottrine socialistiche, che privilegiano il lato dell’eguaglianza, non solo formale, tra cittadini. Bobbio non intende dare soluzione a un problema di per sé insolubile se non per via pratica, empirica, e afferma che «proprio perché è un problema che può essere risolto solo prammaticamente, qualsiasi soluzione non è mai la soluzione ottima e tanto meno quella definitiva» (p. 26).

Il secondo saggio riproposto in questo libro è di due anni successivo al primo, e ha per tema La democrazia dei moderni paragonata a quella degli antichi (e a quella dei posteri). Volutamente il titolo rimanda a quello del celebre libro di Constant sulla libertà. La distinzione fondamentale che intercorre tra le due democrazie o, meglio, trai due modi di intendere la democrazia, riguarda il grado e il modo di partecipazione all’amministrazione della polis che distingue gli antichi dai moderni: «per democrazia gli antichi intendevano la democrazia diretta, i moderni, la democrazia rappresentativa» (p. 27). La democrazia degli antichi, dunque, ha a che fare con la decisione presa da ciascun cittadino riguardo l’amministrazione dello Stato, la democrazia dei moderni si manifesta, invece, come l’elezione di un certo numero di rappresentanti che avrà il compito di prendere le decisioni. Per gli antichi «“Democrazia” significava quel che la parola designa letteralmente: potere del “demos”, non, come oggi, potere dei rappresentanti del demos» (p. 28). I moderni, in sostanza, fanno confluire in uno due concetti che, per secoli, sono stati distinti: quello di democrazia e quello di elezione. Al di là dell’evidente cambiamento funzionale che caratterizza la democrazia nel passaggio dall’antichità all’età moderna,va rilevato l’altrettanto importante mutamento nel giudizio sulla democrazia. E’ noto come tanto Platone quanto Aristotele avessero un giudizio affatto negativo di questa forma di governo, altrettanto evidente è come in età moderna a questo giudizio negativo se ne sostituisca uno del tutto positivo. La differente valutazione assiologia risiede nel differente modo di intendere il popolo, dagli antichi inteso non come una somma di individui, ma come una massa indistinta: «perché si potesse dare un giudizio positivo sulla democrazia bisognava sgombrare il campo definitivamente dal riferimento a un corpo collettivo come il demos, che si presta ad essere interpretato in senso peggiorativo quando lo si scambi, com’è accaduto per lunga tradizione, con la “massa”, il “volgo”, la “plebe” e simili» (p. 35). Il fatto che sfuggiva agli antichi, e che viene invece messo in evidenza da Bobbio, è che «il demos in quanto tale non decide nulla, perché i decisori sono singolarmente presi gli individui che lo compongono» (p. 36). Il popolo non è, dunque, interpretabile, se non in senso metaforico, come un soggetto sovrano, anzi, a rigore non è interpretabile come soggetto: «nella democrazia moderna il sovrano non è il popolo ma sono tutti i cittadini. Il popolo è un’astrazione, comoda ma anche, come ho detto, fallace; gli individui, coi loro difetti e coi loro interessi, sono una realtà» (p. 40). Nelle concezioni democratiche moderne prevale l’accento sull’individuo, a partire dall’insistenza con cui si batte sui diritti umani individuali. Nonostante l’individualismo prevalente, non bisogna ritenere che la dimensione sociale venga persa del tutto: anche nella società moderna, infatti, l’individuo non è mai considerabile come isolato, costituisce, invece, il punto di partenza della riflessione sociologica. Esaminate le differenze tra la democrazia degli antichi e quella dei moderni, Bobbio passa a prevedere i possibili sviluppi della democrazia, non prima di aver ammonito che queste previsioni, come ogni previsione, si possono fare soltanto con i se. Due i punti di particolare interesse: il primo verte su un certo grado di riconquista della partecipazione diretta all’organizzazione democratica dovuta alla diffusione dell’uso del computer, pur mantenendo la connotazione positiva della democrazia moderna: «rispetto alle due differenze fondamentali fra democrazia degli antichi e dei moderni, di cui ho discorso sinora, si può timidamente prevedere che la democrazia del futuro goda dello stesso giudizio positivo della seconda pur tornando in parte attraverso l’allargamento degli spazi della democrazia diretta, reso possibile dalla diffusione dei calcolatori elettronici, alla prima» (p. 44). A oltre vent’anni dalla stesura di questo saggio, ci pare di poter affermare, che sia pure in modo embrionale, questa previsione si stia realizzando, come sottovalutare, infatti, l’importanza crescente che la rete sta assumendo non solo nella formazione, ma anche nella manifestazione dell’opinione individuale? I casi in cui lo spazio informatico rappresenta lo spazio privilegiato – o l’unico spazio possibile – della partecipazione politica sono ormai cronaca quotidiana. La seconda previsione non riguarda la partecipazione dei singoli alla vita politica del loro Stato, ma l’interazione degli Stati fra loro. Nel suo libro Autoritarismo e democrazia nella società moderna, Gino Germani aveva individuato nella crescente internazionalizzazione uno dei pericoli costantemente corsi dalla democrazia. Certamente bisogna affermare che «una società tendenzialmente anarchica, come quella internazionale, che poggia ancora sul principio dell’autodifesa in ultima istanza, favorisce il dispotismo interno dei suoi membri, o perlomeno ostacola il processo di internazionalizzazione» (p. 48). Per giungere a una piena democrazia, dunque, uno dei primi passi da fare è quello di giungere a una società internazionale che sia intrinsecamente democratica, e, tuttavia, ci s’inserisce così in un circolo vizioso: «gli stati potranno diventare tutti democratici soltanto in una società internazionale democratica. Ma una società internazionale democratizzata presuppone che tutti gli stati che la compongono siano democratici» (pp. 49-50). Su entrambi i punti c’è ancora molto da lavorare.

Il saggio di chiusura – La rivoluzione tra movimento e mutamento – fu pubblicato per la prima volta nel 1989. Partendo da un’analisi semantica del termine rivoluzione e, dunque, dal significato affatto differente che questa parola, di derivazione scientifica, ha assunto nel linguaggio politico, l’autore afferma che la rivoluzione può essere esaminata sotto un duplice profilo, o meglio può essere analizzata ponendo l’accento su uno dei due elementi inscindibili che la costituiscono: il movimento e il mutamento. Il fenomeno rivoluzione si caratterizza per essere un movimento dal basso che porta a un radicale mutamento dell’ordine istituzionale preesistente, tuttavia, a seconda degli interessi dello studioso, sarà uno dei due aspetti ad essere privilegiato nell’analisi del fenomeno. Così, «al sociologo la rivoluzione interessa come movimento collettivo, e quindi tenderà a analizzarla come una delle tante forme di movimenti collettivi» (p. 56). «Al giurista, al contrario, interessa esclusivamente l’aspetto del mutamento. Per la teoria del diritto la rivoluzione rappresenta il momento della rottura tra un ordinamento e un altro» (p. 57). Questi due momenti, inseparabili nell’evento storico, vanno considerati distintamente quando si voglia riflettere sul fenomeno rivoluzione. Guardando al mutamento si potrà, così, distinguere una rivoluzione da una rivolta, o da una sedizione: era l’aver scorto la potenzialità metamorfica degli eventi del 1789 che aveva portato il duca di Rochefoucault ad affermare, rivolto a Luigi XVI, «No, sire, non è una rivolta ma una rivoluzione» (p. 51). Pur nella coincidenza del movimento, che in entrambi i casi parte dal basso, la rivolta si distingue, infatti, dalla rivoluzione per l’incapacità di mutare l’assetto istituzionale. Si potrebbe dire che la rivolta è esclusivamente negativa, laddove la rivoluzione ha il suo momento di positività nella costruzione di un nuovo assetto. Guardando, invece, all’aspetto del movimento si può distinguere la rivoluzione dal colpo di stato: entrambi questi fenomeni rappresentano una violenta rottura della legalità, e condividono le caratteristiche di brevità, subitaneità e violenza; tuttavia è proprio su quest’ultimo carattere comune che s’incentra la differenza incolmabile tra i due fenomeni: «la violenza rivoluzionaria è una violenza popolare. Questo carattere è essenziale perché una violenza, pur subitanea e illegittima ma proveniente dall’alto, ovvero dalle stesse classi dirigenti, è il carattere proprio del colpo di stato» (pp. 58-59). Il colpo di stato può, comunque, esser distinto dalla rivoluzione anche rispetto al mutamento, è, infatti, evidente che, essendo esso perpetrato dalle stesse classi dirigenti, il mutamento che lo caratterizzerà sarà meno radicale di quello che caratterizza la rivoluzione: nella rivoluzione si assiste anche a un mutamento ai vertici del potere statale. Infine, la rivoluzione comporta un mutamento non solo nella gestione del potere politico, ma anche nella struttura della società: «il mutamento della società nella sua composizione di classe dirigente rappresenta una rottura, un’interruzione, ben più grave che il mutamento del sistema politico o della forma di governo» (p. 61). Nel mutamento sostanziale della forma sociale, si può ravvisare un’analogia tra rivoluzione e movimenti religiosi: la trasformazione rivoluzionaria comporta, infatti, oltre alle già citate ed evidenti mutazioni nell’assetto sociale e politico, un radicale cambiamento nell’interpretazione della natura dell’uomo. La rivoluzione «riesce nel suo intento solo se riesce a trasformare la natura umana, se, oltre a essere un mutamento delle cose, è anche una rigenerazione dell’umanità, una seconda rinascita, l’inizio di una nuova fase della Storia, di una nuova età dello Spirito» (p. 61). La novità è elemento essenziale della rivoluzione, anzi, vero e proprio discrimine per distinguere rivoluzione da sedizione è la concezione profetica della storia: la rivoluzione non tende mai verso un passato da restaurare, ma sempre verso un futuro da costruire guardando fiduciosamente a un evento ultimo. Il carattere definitivo, catastrofico, della rivoluzione è alla base della distinzione tra rivoluzione e riforma: il discrimine tra le due è, riguardo al movimento, «l’accettazione o il rifiuto del metodo della violenza, intesa come rottura intenzionale della legalità» (p. 72), mentre riguardo al mutamento «passa attraverso la differenza tra cambiamento parziale, graduale, a piccoli passi, e cambiamento radicale» (p. 73). La rivoluzione ha, dunque, come carattere sostanziale l’epocalità. Epocalità che, intesa anche come l’appartenenza a una data epoca, conduce alla seguente conclusione: quale che sia il giudizio sui movimenti rivoluzionari in genere, o su una data rivoluzione, l’albero della rivoluzione è «un albero che non cresce in tutte le stagioni e su qualsiasi terreno» (p. 79).

Quasi un quarto di secolo ci separa da questi tre saggi, non per questo le riflessioni di Bobbio possono lasciare indifferenti, né è possibile pensare, a cagione della mutata situazione sociale e politica, che non ci riguardino. In una società in trasformazione continua, forse più che mai dinamica, come quella odierna, è impossibile sfuggire a un’accorta riflessione sui temi del mutamento, dell’eguaglianza di fronte alla legge, della partecipazione alla vita politica e della riconquista di un certo grado di partecipazione anche diretta. Il libro non fornisce risposte a questi problemi, vi si trovano, invece, importanti stimoli alla riflessione, spunti di cui non potrà non sorprendere l’attualità.

PUBBLICATO IL : 23-07-2010
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