Uscito nel 2009 per Meltemi Editore, che ha intrapreso la pubblicazione delle Opere complete di Gianni Vattimo, questo agile volume annuncia già nel titolo, volutamente icastico, definitivo, la paradossalità della proposta che vi si condensa. E di tale paradossalità è consapevole l’Autore, che vi allude, quasi distrattamente, in apertura: «Addio alla verità: così potremmo esprimere, in maniera più o meno paradossale, la situazione della nostra cultura attuale, sia nei suoi aspetti teorici e filosofici, sia nell’esperienza comune» (p. 7). In cosa consiste, di preciso, il paradosso da Vattimo associato all’espressione che dà il titolo al suo libro? A tutta prima sembrerebbe trattarsi della paradossalità accessoria, sottile, scaturente dal curioso gioco di parole innescato dai due termini che la strutturano. Gioco sottaciuto, pressoché involontario: il gioco di dire addio a una verità di cui si nega la stessa consistenza metafisica e che in quanto tale, perciò, non sussisterebbe affatto, o almeno, non sussisterebbe “più”. «Oggi» - osserva appunto Vattimo - «molto più chiaramente che in passato, la questione della verità è riconosciuta come una questione di interpretazione, di messa in opera di paradigmi che, a loro volta, non sono “obiettivi” […], ma sono una faccenda di condivisione sociale» (p. 15). O forse si tratta, più sostanzialmente, di una paradossalità non soltanto formale, ma costitutiva, e dunque intrinseca a quella stessa situazione, teorica e fattuale, che Addio alla verità si propone di descrivere. L’addio pronunciato da Vattimo sarebbe, in tal senso, un’indicazione, certo provocatoria, per il ripensamento delle condizioni entro cui si rende possibile, nel postmoderno, la riconfigurazione dell’orizzonte teorico-pratico tradizionalmente consegnato all’idea di verità. Sarebbe, insieme, la presa di congedo non soltanto dalla verità intesa come rispecchiamento di un dato stabile e oggettivo, ma anche dalla “mezza-verità” o dalla «menzogna» (p. 14) quale suo immediato, “paradossale” rovescio sul terreno etico-politico. È chiaro che la prima opzione non esclude la seconda e che, anzi, la implica essenzialmente. Tanto più che, nell’atto di formulare questo interrogativo, occorre calarlo - con tutte le conseguenze che ciò comporta - entro la prospettiva teorica propria del “pensiero debole”, di cui il libro di Vattimo costituisce, per sua stessa ammissione, una sintesi e un nuovo sviluppo. Di quella consumazione dell’«oggettività del mondo a favore di una sempre crescente trasformazione soggettiva, non individuale, ma delle comunità, delle culture, delle scienze, dei linguaggi» (p. 82) - che ne definisce l’asse teorico - Addio alla verità esplica, infatti, le direzioni fondamentali. Intento di Vattimo è, appunto, in questo libro, descrivere i molteplici versanti su cui si riverbera l’“indebolimento”, il rarefarsi del fondamento veritativo proprio della cultura occidentale, che è alla base della secolarizzazione nella post-modernità. Una secolarizzazione triplice, che viene a investire il terreno di politica, religione e filosofia.
Questi i momenti che scandiscono il volume, breve ma denso di passaggi e riferimenti, e che ne definiscono, altresì, l’articolazione in capitoli. Essi appaiono strettamente interconnessi, tanto che nell’introdurre il primo aspetto della sua descrizione, quello politico, l’Autore titola, significativamente, «Oltre il mito della verità oggettiva» (p. 18), fissando un rapporto di stretta continuità tra il problema specificamente politico e la questione filosofica del «compito del pensiero» (p. 32). La domanda fondamentale da cui Vattimo prende le mosse suona allora così: «che ne è del rapporto filosofia-politica in un mondo in cui, sia in conseguenza della fine della metafisica, sia in conseguenza dell’affermarsi della democrazia, non si può (più?) pensare la politica in termini di verità» (p. 53)? Il pluralismo che connota le società occidentali, la crescente «tolleranza» (p. 8) che nella pratica politica si accompagna al costante contravvenire al dovere di verità, l’accondiscendenza diffusa con cui vengono recepite le ormai usuali violazioni all’etica nella vita di tutti i giorni sono le condizioni concrete che segnano e accompagnano il «tramonto dell’idea di verità» (ibid.). Stabilmente sancito in filosofia ed epistemologia, esso stenta ad affermarsi nel senso comune, ove alla persistenza di un’«idea del vero come descrizione obiettiva dei fatti» (ibid.) si associa quell’uso strumentale della verità, quella «ipocrisia» che, nei media come nella pratica politica, è ormai comunemente riconosciuta e accettata. Ora, tale ipocrisia - precisa Vattimo, rimarcando la mira politico-sociale del suo discorso - «va condannata non perché ammette la bugia violando il valore “assoluto” della verità come corrispondenza, ma perché viola il legame sociale con l’altro, potremmo dire che va contro l’uguaglianza e la carità» (p. 27). Se, inoltre, all’idea della verità come corrispondenza meglio si addice un modello politico elitario («la repubblica dei filosofi, degli esperti, dei tecnici»; p. 25), «l’addio alla verità» - questa la conclusione cui l’Autore punta - «è l’inizio, e la base stessa, della democrazia» (p. 16).
In primo luogo, dunque, sembrerebbe profilarsi, nel complesso, un’incongruenza in ordine alla concezione della verità. Ci riferiamo all’incongruenza che Vattimo rileva tra quid facti e quid iuris, tra la pratica politica concreta e il senso comune, da un lato, e l’autocoscienza filosofica, dall’altro. Ad essa si connette il pericolo che l’idea della verità come corrispondenza obiettiva concretamente veicola: il pericolo di una pratica disinvolta della menzogna e dell’illusione delle masse; il pericolo, speculare e ancor più fortemente avvertito, dell’affermarsi progressivo di una tecnicizzazione totalizzante, di un Gestell fagocitante e onnicomprensivo. Tale sarebbe l’esito della vicenda storica legata al colonialismo europeo tramite cui, stando a Vattimo, la metafisica si sarebbe affermata progressivamente quale vero e proprio «ordine del mondo» (p. 118). In secondo luogo, fondamentale è il significato del richiamo, su cui l’Autore insiste molto, alla caritas cristiana, che fa da pendant etico-religioso alla valorizzazione del paradigma democratico. È proprio in quella che viene descritta nei termini di una «transizione dalla verità alla carità» (p. 16) che si raccoglie infatti, a nostro avviso, l’istanza più autentica del libro. Al primato della verità come fondamento valoriale oggettivo - etico, politico e teoretico - Vattimo mira a sostituire la carità quale unico orizzonte possibile per il dialogo politico, multiculturale e interreligioso nel mondo contemporaneo. Il passaggio dalla verità alla carità implica, in tal senso, una preliminare rinuncia all’illusione che verte sull’esistenza di un fondamento metafisico stabile quale criterio della pratica scientifica come di quella civile, politica e religiosa. Tale rinuncia non appare, però, come la semplice presa d’atto di uno stato di cose immodificabile, né tantomeno come la resa definitiva del pensiero di fronte al consumarsi della verità. Essa deve costituirsi bensì - agli occhi dell’Autore - come un collocarsi consapevole all’interno del «circolo ermeneutico» (p. 13) che viene a tenere insieme pensiero ed essere, da un lato, presente e passato, dall’altro. Un passato heideggerianamente concepito non come vergangen, ma come gewesen, come assunzione responsabile e libera di un compito sempre possibile, quello di «interpretare e trasformare» (ibid.) la realtà, al di là di ogni pretesa di oggettività assoluta. Evocando Sartre, Adorno, ma soprattutto Heidegger, Vattimo esibisce lo «sfondo di violenza» (p. 11) insito in tale pretesa, con il connesso timore - cui abbiamo già fatto cenno - «che la metafisica oggettivistica fondata sull’idea della verità come corrispondenza (culminata nel positivismo) prepari (o determini) l’avvento di una società dell’organizzazione totale» (ibid.). In ciò il senso “esistenzialistico” dell’analisi di Vattimo, il cui esito consiste, in ultima istanza, nell’affermazione di un’idea della verità come (ancora heideggerianamente) apertura di un orizzonte comune, come condivisione sociale e costruzione dialogica di paradigmi mutevoli e sempre emendabili.
Il forte nesso che il filosofo stabilisce fra il tramonto della verità e il compito politico del pensiero ha allora a che vedere - come emerge ormai chiaramente - con il riconoscimento della libertà quale irrinunciabile baluardo della prassi filosofica, politica e sociale. Ad essere in gioco, in definitiva, nell’«addio»pronunciato da Vattimo, sembra proprio il complicato nesso che sussiste tra verità e libertà. Ecco che lo ribadisce, con un’apparente concessione all’idea strumentale della verità più volte stigmatizzata: «La verità che ci fa liberi è vera proprio perché ci fa liberi: se non ci fa liberi va buttata via» (pp. 86-87). E - radicalizza - «Se dico che non mi importa la menzogna di Bush e Blair, purché essa sia giustificata da un fine buono, cioè da un fine che condivido, accetto che la verità dei “fatti” sia un affare di interpretazione condizionato dalla condivisione di un paradigma» (p. 14). A prescindere dal carattere più o meno provocatorio di queste affermazioni, è chiaro che esse segnalano, in fondo, nient’altro che il primato dell’istanza etico-sociale, e - se così possiamo esprimerci - “pragmatica”, su quella metafisica e veritativa. Ma nemmeno a una forma di pragmatismo, come vedremo, può essere sovrapposta la posizione del filosofo torinese. L’Autore, dicevamo, è in ogni caso perfettamente consapevole del duplice rischio che una siffatta concezione della verità viene a implicare. Il primo è, per l’appunto, il pericolo di incorrere in una concezione della verità quale instrumentum regni, il rischio di degenerare, per fedeltà al principio dialogico, in una «pura e semplice professione di fede machiavellica» (ibid.). Il tradizionale principio di Machiavelli verrebbe, in tal senso, non ancora decostruito ma semplicemente esteso: non più il principe ma un soggetto collettivo sarebbe il detentore della verità. Da tale “machiavellismo democratico” Vattimo si smarca però decisamente, attribuendolo piuttosto ad autori quali Gramsci e Lukács, prigionieri, ai suoi occhi, di una concezione solo parzialmente innovativa, ma in fondo ancora fedele a un paradigma “verticale”, strumentale e metafisico della verità. Il secondo pericolo cui facevamo riferimento è quello che potremmo definire nei termini di un’“assenza di normatività”. Ad esso Vattimo pare alludere ad esempio allorché, in riferimento all’auspicio di una «liberazione dagli autoritarismi che si pretendono fondati metafisicamente», scrive: «la consapevolezza del carattere interpretativo di tutta la nostra esperienza sembra lasciare un vuoto» (p. 24). Se il binomio politica-verità rappresenta dunque l’estrema minaccia per la democrazia, alla rinuncia alla verità si connette d’altra parte il rischio che non subentri, in sua vece, alcuna possibilità di una condizione sostitutiva. Nel paventare l’esito nichilistico del paradigma ermeneutico, Vattimo fa ricorso perciò all’ordine valoriale ruotante attorno alla libertà, la convivenza civile e l’amicizia politica, così da ammorbidirne la portata. Egli articola, in tal modo, il versante più schiettamente propositivo della sua analisi: proprio la consumazione della verità nella carità - per Vattimo la sintesi più prossima della vicenda attraversata dalla nozione di verità nel XX secolo - si conferma come la prospettiva in grado di tenere insieme, da un lato, l’istanza libertaria e democratica, dall’altro, la rinuncia all’idea della verità come corrispondenza, evitando il duplice rischio appena enunciato. «Non è vero, dunque» - conclude l’Autore - «che se accettiamo la regola dell’interpretazione “tutto va” e ognuno può dire quello che gli pare. Ci sono comunque regole che sono però relative a quel linguaggio» (p. 77).
La carità veicola, d’altronde, un forte potenziale di liberazione dalla verità: questo è, difatti, il compito che viene riconosciuto al cristianesimo nel contesto storico segnato dalla secolarizzazione e dal nichilistico disfarsi del mondo oggettivo: «non come un fattore positivo di identità, ma proprio al contrario, come una potente vocazione alla disidentificazione» (p. 89) esso trova posto, ad esempio, nella costruzione di un’Europa unita e democratica. Tale è anche quello che il filosofo, con espressione che dà il titolo al secondo dei tre capitoli componenti il volume, chiama «il futuro della religione» (p. 58), ovvero il suo progressivo alleggerirsi dal peso dogmatico in favore dell’affermarsi dei valori di carità e libertà: destino ultimo del cristianesimo, la «dissoluzione della violenza del sacro» è proprio «il nocciolo della predicazione di Gesù» (p. 93). È una religione, quella di Vattimo, condensata nel motto «solo un Dio relativista ci può salvare» (p. 58), ove al Dio relativista - come egli stesso suggerisce - si può sostituire un meno “scandaloso” Dio chenotico, ovvero un Dio «conforme all’immagine che ne possiamo avere, oggi, come cristiani» (ibid.). Soltanto la kenosis, senso dell’incarnazione e della storia della salvezza, è in grado di sprigionare il potenziale “liberatorio” del cristianesimo: liberazione dalle superstizioni, liberazione dai residui dogmatici e mitologici, dall’idea dell’esistenza di una “natura umana” (anche nella formulazione fornitane da Habermas), ma soprattutto liberazione dalla “verità” - ciò che è, appunto, il destino stesso della metafisica - e, infine, rottura dell’identità tra Dio e ordine metafisico del mondo. Gravida delle più svariate suggestioni filosofiche, che possiamo qui soltanto in parte ricordare (Heidegger, Dilthey, Kant, Benjamin, Girard), e di concessioni al più docile ecumenismo, quella formulata da Vattimo si conferma come una religiosità a suo modo “morbida” (etichetta da lui stesso attribuita, invero, alla religiosità lassista del cattolicesimo tradizionale), che accompagna accenti aspri, di invettiva contro le rivendicazioni temporali della Chiesa - «la Chiesa è ancora ferma al processo di Galileo» (p. 61), sentenzia il filosofo - ad accorati accenti di partecipazione al più popolare dei sentimenti religiosi: «Non vorrei una Chiesa senza santi o senza rituali natalizi e pasquali» - scrive - «Ma non voglio essere obbligato ad accettare una dottrina elaborata come quella della transustanziazione per poter andare a Messa» (p. 71). Punto fermo, nel biasimo riservato allo «scandalo» (p. 62) della Chiesa, rimane, però, la necessità di sfuggire alla pretesa “fondamentalista” di una predicazione che vorrebbe «dettare la “verità” su come “stanno davvero” le cose della natura, dell’uomo, della società, della famiglia» (ibid.): la necessità di affermare l’autonomia delle scienze e l’impossibilità, per la mitologia cristiana, di rappresentare un’alternativa alla descrizione scientifica dell’ordine naturale. Ove la scienza stessa, in quanto frutto del lavoro comune, di un continuo accordo dialogico e “orizzontale”, non può nutrire alcuna pretesa di oggettività assoluta. Il «cristianesimo non religioso» (p. 72) invocato da Vattimo si presenta dunque come una variazione sul tema del nichilismo, come una traduzione postmoderna, più conforme all’assetto politico-sociale contemporaneo, della religione trasmessaci dalle tradizioni: «Il punto di vista che qui ho sviluppato è che il nichilismo sia l’interpretazione, o versione, postmoderna del cristianesimo - nella mia opinione la sola che possa salvarlo dalla dissoluzione o da una fine violenta in una guerra religiosa universale» (p. 68). Di qui anche il nesso stabilito tra il cristianesimo e il concetto di interpretazione, il quale spinge Vattimo ad affermare risolutamente che «il cristianesimo è una dottrina dell’interpretazione» (p. 78). Insegnando l’ineludibile inserimento in una tradizione culturale, cultuale, testuale, essendo, essa stessa, trasmissione di codici e linguaggi condivisi, nonché «messaggio di liberazione dalla metafisica» (p. 79), la religione cristiana è dottrina ermeneutica secondo il senso del detto, pronunciato da Croce e citato dallo stesso Vattimo, secondo il quale «non possiamo non dirci cristiani» (p. 80).
Nel riprendere, infine, l’adagio nietzscheano che fa da sfondo al suo pensiero - «non ci sono fatti, solo interpretazioni» (p. 23) - Vattimo radicalizza il riferimento alle «radici storiche» del «prevalere della nozione di interpretazione» (p. 134), definendo la “consumazione della verità nella carità” come una versione più marcatamente storicistica del concetto di koiné ermeneutica. Su queste premesse si fonda la proposta filosofica che è al centro di Addio alla verità e che viene formulata con ricorso all’espressione, mutuata dal tardo Foucault, di «ontologia dell’attualità» (p. 44). Declinata in un senso duplice, essa richiama, più o meno direttamente, il senso del circolo ermeneutico nella sua formulazione heideggeriana: ontologia dell’attualità significa, infatti, per Vattimo, «rendersi conto del paradigma in cui siamo gettati», e, al contempo, «sospenderne la pretesa di validità definitiva in favore di una ascolto dell’essere in quanto non detto» (p. 45). Muovendo dalla necessità di rinunciare al compito fondativo della filosofia, l’ontologia dell’attualità rappresenta, nelle intenzioni dell’Autore, una sintesi tra il principio di anarchia di Schürmann e l’istanza sociale marxiano-benjaminiana, lo “spiritualismo” hegeliano e la Verwindung di Heidegger. Quest’ultima, in particolare, vuole essere una risposta all’«esperienza di conclusione che stiamo facendo nel nostro tempo» (p. 124), la quale è, sotto tutti i versanti, nient’altro che «un sintomo della fine della metafisica» (ibid.). Se la fine della metafisica, accanto alla «crisi dell’etica» (p. 95) e del discorso fondativo tout-court, segna, al contempo, la fine dei rivolgimenti storici forti, delle rivoluzioni e delle catastrofi, insomma di quegli snodi storici che talvolta sanno essere dirimenti e in qualche modo risolutivi, nell’epoca del progressivo inserimento nel Gestell - “struttura” onnipervasiva che neutralizza ogni possibile evento (Ereignis) di novità - non resta che operare la silenziosa e lenta conversione, la “distorsione” che il termine «Verwindung» sta a indicare. Non solo nel pensiero di Heidegger, ma anche in Lévinas, Derrida e Rorty Vattimo rinviene la consapevolezza di tale «mancanza di un evento» (p. 127). Egli rifiuta inoltre, perché giudicata descrittiva, la via della decostruzione à la Derrida e, rivendicando alla filosofia una costitutiva progettualità, si affilia decisamente alla lignée storicistica hegeliano-marxiana. In un’epoca in cui la sua funzione è divenuta «puramente descrittiva» (p. 105) - è il caso, secondo Vattimo, degli esiti tautologici della fenomenologia - o, al limite, di ausilio alle scienze dure, la filosofia deve prendere in carico l’impegno di abbandonare ogni neutralità e di gettarsi nella storicità degli eventi per prevederne e favorirne esiti, limiti e possibilità, scommettendo sui suoi pur sempre imprevedibili sviluppi. A questa visione si associa la proposta di un’etica non soggetta alla legge di Hume: un’etica, cioè, che non possa essere tacciata di passare surrettiziamente dal piano descrittivo a quello di principio. Tale è, per Vattimo, il discrimine di «un’etica esplicitamente costruita intorno alla finitezza» (p. 100), informata al rispetto dell’alterità, della provenienza, del dialogo e all’assunzione di «massime e comportamenti di portata critica» (p. 101).
Tracciati i limiti teorici che circoscrivono la fine dalla metafisica e l’affermarsi, per la filosofia, di una prospettiva più marcatamente sociale, l’Autore impugna - come anticipato - «la validità del discorso sulla verità come apertura contro la verità come corrispondenza» (p. 24). Nel rifarsi alla heideggeriana alétheia, la sua mira appare dunque chiaramente profilata: da un lato, mostrare che la verità intesa come corrispondenza oggettiva al dato e come istanza valoriale di fondo rappresenta «un pericolo più che un valore» (p. 25), dall’altro, nell’uscita dall’oggettivismo metafisico, fissare le condizioni per il raggiungimento dell’istanza della «comprensione reciproca» (p. 29), in nome di una «razionalità intesa come discorso-dialogo tra posizioni finite che si riconoscono come tali» (p. 103), la quale risponda, a sua volta, al solo criterio “pragmatico” della «riduzione della violenza» (ibid.). Tutto ciò non rappresenta affatto, come lo stesso Vattimo si premura di sottolineare, una concessione al relativismo, che consiste, al contrario, non tanto nel dialogo tra posizioni finite, quanto nell’«irrigidimento metafisico - autocontraddittorio e impraticabile - della finitezza» (p. 99). Nel sancire quella «fine della filosofia» (p. 94) che dà il titolo al terzo capitolo del volume, il problema che sta a cuore al filosofo è invece di tipo genuinamente etico: in questo senso dicevamo che la sua posizione non può essere in alcun modo ridotta alla «superficialità» (p. 140) propria del pragmatismo. Nel neopragmatismo si manifesta, certo «la presa d’atto che si dà verità solo come manifestazione di una comunità» (p. 135) e che «è vero ciò che “funziona”» (ibid.). Esso tuttavia, non rende ragione della storicità, né della progettualità di cui la filosofia deve farsi carico: «Sono interessato» - sintetizza l’Autore - «a una filosofia progettuale piuttosto che “descrittiva”, come sono ancora oggi le teorie che riprendono la fenomenologia husserliana, il trascendentalismo kantiano, varie versioni di empirismo e di scientismo» (p. 133). Questa, in sintesi, l’istanza che Vattimo viene a definire nel suo Addio alla verità.
Legittima parrebbe, di primo acchito, l’impressione di una vaga nebulosità, la sensazione che si abbia a che fare, nel libro di Vattimo, con una sorta di «pluralismo senza fatti» (F. D’Agostini nella recensione apparsa sul Manifesto, 9 luglio 2009), con un ecumenico eclettismo che pretende di tenere insieme tutto. Questa, tuttavia, è soltanto la più immediata, la più ovvia delle obiezioni che si possono muovere al volume. Complice ne è, certo, quel linguaggio colloquiale e disinvolto del cui effetto l’Autore è più che consapevole. Scelta di metodo, guadagnata e mai abbandonata sin dalla stesura di Credere di credere (Garzanti, Milano 1996), esso finisce per restituire al lettore nient’altro che la medesima reciprocità tra detto e vissuto, tra forma e contenuto, la quale, già da sé, destituisce di fondamento - è il caso di dirlo - quella prima, immediata obiezione. Non sorprenderà affatto, allora, la circostanza per cui il paradosso al quale Vattimo distrattamente allude in apertura vada riverberandosi, nella sua duplice valenza, formale e concreta, in tutto il libro, schiudendo il campo alle più disparate critiche. Sembra “debole”, verrebbe da dire, questa chiave pratica, ma si tratta di una debolezza assunta. Conscio delle possibili obiezioni - a ben guardare continuamente anticipate e messe in scacco - un pensiero che si propone non come «espressione dell’epoca» ma, più modestamente, soltanto come una possibile «interpretazione» di essa, che assume e «riconosce la propria contingenza, libertà, rischiosità» (p. 55), pare prestarsi poco a una confutazione che ricorra ai classici argomenti “forti”. Giacché il compito filosofico che emerge da queste pagine è del tutto difforme dal senso di quelle obiezioni. «Definita come ontologia dell’attualità, la filosofia si esercita come un’interpretazione dell’epoca che mette in forma un sentire diffuso circa il senso dell’esistenza attuale in una certa società e in un certo mondo storico» (ibid.). Il paradosso di cui si diceva in apertura si rivela, infine, modalità e descrittiva e progettuale che non sembra escludere, tuttavia, agli occhi di un lettore non partigiano, interrogativi critici residuali circa l’effettiva costruttività di uno stile filosofico improntato all’indicazione di linee interpretative contingenti e sempre modificabili. |