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Bertrando Spaventa, Opere , Bompiani, 2008
di Stefania Pietroforte

La ripubblicazione dell’opera completa di un filosofo può avere dietro di sé due motivazioni: o si è aggiunto alla nostra conoscenza di quel pensatore un nuovo elemento storiografico (testi inediti e rimasti sconosciuti o testimonianze riemerse dall’ombra della storia), che suggerisce una riconsiderazione di aspetti importanti della filosofia in questione; oppure è la riflessione filosofica stessa, direttamente esercitata sugli scritti dell’autore, che ritiene di essere giunta a condensare un nuovo punto di vista capace di offrire di quegli scritti nel loro complesso, o almeno in una parte, un’idea nuova, di restituirne un significato diverso da quello acquisito dagli studi precedenti. È quest’ultimo il caso della nuova edizione dell’opera di Bertrando Spaventa curata da Francesco Valagussa, operazione, dunque, assai impegnativa teoreticamente, che lancia un sasso in acque quasi stagnanti e propone di svincolare dall’appartenenza esclusivamente idealistica Bertrando Spaventa, unanimemente considerato “padre” della filosofia idealistica italiana.
         Per meglio valutare la proposta di Valagussa occorre aver presente la storia dei testi che vengono ora ripubblicati, perché essa ha avuto un grande peso (se positivo o negativo ciascuno lo giudicherà da sé) sulla ricezione del pensiero di Spaventa, certamente un peso più rilevante di quanto sia accaduto ad altri autori. La vita travagliata del filosofo, il coinvolgimento nelle vicende politiche dell’Italia che si stava formando, il rapporto intellettuale con il fratello Silvio, il carattere profondo e schivo di Spaventa stesso, tutto concorse a far sì che alla sua morte (1883) quello che egli aveva scritto si trovasse sparpagliato in riviste cessate, pubblicazioni non rivedute, manoscritti. Fu Giovanni Gentile, allora giovane di belle speranze, a intraprendere il compito non semplice di raccogliere da volumi di atti accademici o da periodici ormai estinti le cose spaventiane di maggior rilievo, fu lui a ristampare gli studi e le recensioni che Spaventa aveva avuto intenzione di riproporre ma senza riuscire a farlo. Di questo lavoro editoriale Gentile diede conto minuziosamente nell’apparato critico che accompagnava ogni singola pubblicazione. Come ebbe a scrivere Italo Cubeddu: «Gentile si preoccupò di portare a compimento quel disegno dello Spaventa, tracciando fin dal 1900 il piano dei volumi che avrebbero dovuto seguire agli Scritti filosofici. La storia della sua lunga attività di editore è ricostruibile attraverso la lettura delle prefazioni e delle note premesse da Gentile ai singoli volumi o agli articoli via via dati alla stampa; con le notizie più particolari sui criteri di scelta, di ordinamento, ecc., affiorano da quelle pagine i motivi che suggerirono più tardi l’opportunità di allargare il disegno primitivo, ricostruendo, ad esempio, il testo completo dei Principi di filosofia (1867; = Logica e metafisica, 1911), curando la ristampa degli articoli sulla Libertà di insegnamento (1920), o pubblicando per la prima volta i frammenti di studi sulla dialettica (l’importante e assai noto Frammento inedito del 1880-81, accolto e interpretato, nel 1913, come l’autorevole precedente della riforma di Hegel voluta dall’idealismo attuale) e sulla psicologia empirica (1915)» (I. Cubeddu, Avvertenza a B. Spaventa, Opere, Sansoni 1972, I, pp. IX-X). Giovanni Gentile, insomma, non soltanto s’impegnò affinché il corpus delle opere di Spaventa non andasse disperso, ma, nell’eseguire questo compito, diede al corpus stesso l’assetto che esso ha poi sempre conservato. Sicché si potrebbe dire, in certo senso, che mentre se ne faceva editore, Gentile entrava nella sfera di confine tra ciò che è di sola spettanza dell’autore e quella di pertinenza dell’editore. Questo aspetto, che ha un’importanza non sottovalutabile per il testo stesso, non è poi la sola cosa rilevante. Se si riflette alla considerazione che fin da subito Gentile ebbe per gli scritti di Spaventa, di cui scriveva a Croce il 3 settembre 1898, quando era ancora occupato a preparare l’edizione degli Scritti filosofici, «del resto è vero che lo Spaventa si è travagliato quasi sempre sullo stesso problema; ma non s’è mai ripetuto, come tanti altri, né i suoi scritti sono stati per anco superati. D’altra parte il problema, cui egli rivolse particolarmente la sua attenzione, è così ampio, così complicato in sé e nelle sue attinenze, da offrire materia sufficiente a una lunga e varia operosità» (G. Gentile, Epistolario. Lettere a Benedetto Croce, I, Sansoni 1972, p.100), manifestando il suo interesse per quello che riteneva il problema centrale della riflessione di Spaventa che, sottolineava, era ancora insuperato; se si riflette a questo, dicevamo, si capirà l’altro fatto degno di nota, cioè perchè Gentile abbia proseguito per ben venticinque anni il suo lavoro di editore di Spaventa, non dismettendolo mai e anzi continuando con perseveranza in un’epoca della sua vita intellettuale che fu senz’altro la più intensa e proprio quella in cui l’attualismo vide la luce e si sviluppò.
         Queste osservazioni ci aiutano a capire quanto profondo sia il legame tra l’edizione delle opere di Spaventa e il lavoro svolto da Gentile dal 1900 al 1925. Lo riconobbero implicitamente Italo Cubeddu e Simona Giannantoni quando, nel 1972, raccolsero in tre volumi tutti gli scritti spaventiani curati dal filosofo siciliano, conservando non solo l’impianto dato da Gentile all’intero corpus, ma anche tutto l’apparato critico, note, prefazioni, saggi, che faceva pendant con il resto. Cubeddu e Giannantoni, insomma, ritennero opportuno dare forma e veste unitaria a quanto era rimasto non unito solo a causa dell’incompiutezza del lavoro di Gentile e al lettore dell’epoca si presentò in forma compiuta il risultato di una storia che aveva visto coniugato insieme il nome di Spaventa con quello di Gentile. Ora, invece, l’edizione di Valagussa è proprio questo effetto che vuole evitare, è proprio la liaison tra il filosofo hegeliano dell’Ottocento e quello attualista del Novecento che si vuole sciogliere. Si vuole cioè consegnare definitivamente al passato il segno che Gentile impresse a quel suo lavoro di editore, ovvero di costituire una base d’appoggio per favorire lo sviluppo di un nuovo idealismo che dalla ricostruzione del pensiero di Spaventa e dalla riproposizione del suo problema prendesse avvio. È per questo motivo che Francesco Valagussa ci presenta l’opera di Spaventa - sia pure con l’aggiunta di un Indice dei concetti e con una Bibliografia aggiornata rispetto a quella dei curatori del 1972 - epurata da tutti gli interventi scritti di Gentile. È allo scopo di cancellare l’impronta lasciata da Gentile sul pensiero di Spaventa che Valagussa oggi disossa quel testo di una sua parte, lo scarnifica da una sorta di materia cresciuta impropriamente sulla carne buona e ci invita a cibarci ancora (ma qui l’espressione è invece gentiliana) del motivo di fondo della filosofia spaventiana, motivo la cui individuazione affida al Saggio introduttivo.
         Scandito in quattro capitoli, il Saggio introduttivo contiene a mo’ di premessa un altro capitoletto dal titolo “Pensate e vi sarà aperto” che offre la chiave d’accesso a ciò che segue. Citando l’espressione con la quale Spaventa nei Principi di etica parafrasa il Vangelo, Valagussa la interpreta come una sorta di metafora che occorre sciogliere per capire davvero l’animus della filosofia di Spaventa. Di essa infatti dice: «profonda dipendenza e insieme autentico ripensamento del problema del Cristianesimo in queste parole di Spaventa, testimoni fedeli del suo itinerario speculativo: non creazione autonoma, perché esplicito è il riferimento (e dunque la dipendenza da) Matteo e Luca, ma nemmeno meccanica ripetizione, se si presta attenzione alla radicale distanza tra il “bussate” dei versetti originali e il “pensate” della nuova versione tràdita; rimane problematico, benché pretenda di mostrarsi risolutivo, il tentativo di mediazione tra i due termini mediante il latino “pulsare”.
Né creazione, né ripetizione, bensì ri-creazione: qui sta l’essenza del pensiero di Bertrando Spaventa, un pensiero che sempre ricostruisce il proprio mondo, ma non perde mai la sensibilità per l’alterità assoluta, quel mondo della natura che deve essere superato per giungere al vero, benché la sua eco continui a risuonare … Il mondo nuovo è il mondo vero, lo spirito che supera la natura. Al Dio che si fa uomo deve seguire l’uomo che si fa Dio, questo è il compito indicatoci dal Cristianesimo: è il Figlio stesso a lasciare spazio all’azione vivificante dello Spirito, secondo quel passo di Giovanni “è bene per voi che io me ne vada” tanto caro a Hegel. Ma come dimenticare l’opera del Figlio, come dimenticare che l’uomo può considerarsi divino soltanto perché innanzitutto Dio si è fatto uomo? La rievocazione delle parole del Figlio mostra proprio questa sensibilità, mai perduta, anzi sempre nuovamente riconquistata attraverso un pensare inesausto.
Ridurre l’idea di una ricreazione del mondo a mera espressione di quella volontà di potenza che caratterizza il moderno significa misconoscere i meriti di Spaventa; ri-pensare, come riflessione che dà nuova vita al reale, non banale rivendicazione di indipendenza da Dio, bensì intima esigenza dell’individuo. Sulle orme di quella rivoluzione dello spirito che ha avuto inizio quando la Verità incarnata ha rinunciato ad autodefinirsi e ha chiesto la partecipazione dell’uomo per esistere: «“Ma voi chi dite che io sia?” Da queste parole prende forma quella nuova intuizione del mondo, quel nuovo modo di concepire l’Assoluto, come sintesi di soggetto e oggetto, difficile da accettare e soprattutto da sostenere, più volte accantonato in nome di un dualismo decisamente più semplice e più “comodo” da intendere» (F. Valagussa, Saggio introduttivo, in B. Spaventa, Opere, Bompiani 2008, pp. 7-8).
Si concentra in questa apertura del saggio il grosso del suo significato e, quindi, della nuova interpretazione che Valagussa dà di Spaventa in contrapposizione a quella gentiliana. Egli presenta così il nodo concettuale più rilevante e le sue modalità. La citazione evangelica, presa alla lettera ma poi considerata anche come citazione da quel particolarissimo testo che è il Vangelo, costituisce la spia del rapporto profondo che lega Spaventa al Cristianesimo. La filosofia di Spaventa sarebbe profondamente dipendente dal «problema del Cristianesimo» di cui rappresenterebbe un «autentico ripensamento». Per questo, afferma Valagussa, le parole di questa citazione rivisitata sono «testimoni fedeli del suo itinerario speculativo». In altre parole, si può e si deve intendere, secondo Valagussa, la filosofia di Spaventa sotto il segno del suo rapporto con il Cristianesimo e, in particolare, con il problema che esso per eccellenza pone. Ma qual è questo problema e come Spaventa lo assume a propria cifra filosofica?
Spaventa non crea ex novo, ma dipende dalla matrice cristiana; però non la ripete pedissequamente perché la rinnova, anzi la ricrea. Questa è la parola chiave di Valagussa: ri-creare, come precisa sottolineando, con il segno grafico del trattino, il fatto che ogni ricreazione è anche creazione. Spaventa ricrea, dunque, il problema di cui il Cristianesimo rappresenta la posizione nel mondo e, con passaggio improvviso di cui si lascia al lettore il compito di cercare il varco, il ricreare quel problema fa tutt’uno con il ricreare che, più specificamente, sarebbe il concetto centrale della elaborazione filosofica di Spaventa. «Né creazione, né ripetizione, bensì ri-creazione: qui sta l’essenza del pensiero di Bertrando Spaventa»; e così stanno le cose, secondo Valagussa, perché nello sforzo di ricostruire concettualmente il mondo, il filosofo molisano «non perde mai la sensibilità per l’alterità assoluta». Dunque l’essenza del pensiero di Spaventa è di essere ricreazione del problema del Cristianesimo e di essere, insieme, ricreazione del mondo, e ciò grazie al fatto che l’intelaiatura logica che nella sua filosofia si costruisce non è mai dimentica dell’alterità assoluta, cioè, spiega Valagussa, non è mai dimentica del mondo della natura, tenendo fermo alla quale il pensiero concettuale si definisce come ri-creazione e non, come altri pretenderebbe, come creazione. Questo è lo Standpunkt dal quale, già lo si intuisce, Valagussa divarica Spaventa da Gentile. Se l’attualismo gentiliano si propone di essere creazione e Spaventa invece concepisce la sua concezione in termini di ricreazione, è evidente che tra le due filosofie si mette in luce un punto di irriducibilità, una divergenza sostanziale, che non consente di ridurre la seconda alla prima, di fare di Spaventa un “preparatore” di Gentile. Sostiene ancora il nuovo interprete che se lo si fa, se insomma si riduce il ricreare di Spaventa a espressione di «quella volontà di potenza che caratterizza il moderno», si finisce col non capire più bene cosa sia la filosofia del pensatore molisano, se ne disconoscono i meriti, cioè quella peculiarità che, invece, consente di leggerla appunto come esposizione del nucleo filosofico contenuto nel messaggio cristiano e, a tutt’oggi, problema aperto. Se lo si fa, continua Valagussa, si interpreta erroneamente l’esigenza di Spaventa come «banale rivendicazione di indipendenza da Dio».
Ma, domandiamo, dimentica forse Valagussa che questa “banale” rivendicazione era per Gentile, e non meno per Spaventa, non una soggettiva superbia ma niente meno che un problema di rigore concettuale? Dimentica forse che nessuno voleva decapitare Dio (non si era detto così di Kant?) per odio a Dio, ma per amore della verità? No, non lo dimentica e per questo continua spiegando che la verità, il nuovo concetto di verità tanto esaltato dagli idealisti, è quello, proprio quello, che il Cristianesimo ci ha rivelato e che le pagine del Vangelo conservano ancora preziosamente: è l’idea di una «Verità incarnata» che «ha rinunciato ad autodefinirsi e ha chiesto la partecipazione dell’uomo per esistere». È la verità che Valagussa afferma essere espressa dalle parole di Gesù, da quel “ma voi chi dite che io sia?” che chiamerebbe in causa il destinatario della domanda e, quindi, lo farebbe partecipe del suo essere verità.
Ma, domandiamo ancora, quello che chiede Gesù non è un atto di fede? E un riconoscimento di questo tipo non è qualcosa di altro e diverso dalla mediazione della ragione? E se si vuole, come Valagussa vuole, che da queste parole evangeliche prenda forma «quella nuova intuizione del mondo, quel nuovo modo di concepire l’Assoluto, come sintesi di soggetto e oggetto, difficile da accettare e soprattutto da sostenere, più volte accantonato in nome di un dualismo decisamente più semplice e più “comodo” da intendere», si può essere davvero sicuri che la verità incarnata del Cristianesimo, quella scagliata davanti agli occhi degli uomini dalla domanda fulminante di Gesù, quella che richiede essenzialmente che nel suo ambito ci sia l’uomo a farla tale, sia quella sintesi di soggetto e oggetto di cui la filosofia idealistica ha fatto la sua bandiera? Non è forse vero che di questo concetto di verità proprio Gentile era stato uno degli artefici più rigorosi e conseguenti, autore dello sforzo di radicalizzarne il significato proprio ponendone il principio al centro esclusivo della scena filosofica, spingendosi fino ad incontrare difficoltà insormontabili, ma senza recedere dall’affermazione del principio stesso? E la radicalizzazione del principio della sintesi, eseguita soprattutto negli scritti del primo attualismo, quella radicalizzazione che non piace a Valagussa e dalla quale vuole tenere lontano Spaventa, non è forse l’esame circostanziato della sintesi stessa, cioè del principio che, con Kant e Hegel, viene fissato indelebilmente nella storia del pensiero e nel cui ambito la riflessione di Spaventa si colloca, sì, con sguardo critico, ma pur sempre con adesione fondamentale e mai dubbiosa? Questa radicalizzazione, anzi, non si delinea forse nella mente di Gentile anche grazie alla lunga riflessione che lo ha trattenuto su Spaventa? Allora, l’esigenza che ha mosso Gentile era un’esigenza tutta e solo sua o era “la cosa stessa” che parlava? Non era la natura di quel concetto, la sua intima strutturazione, che conteneva in sé quell’esito?
A questa domanda Valagussa risponderebbe di no, che le cose non stanno affatto così. La sua tesi, esposta nel Saggio introduttivo nel capitolo intitolato “La metafisica di Bertrando Spaventa”, dice esattamente il contrario. Afferma cioè che la filosofia di Spaventa, e in particolare la questione dell’immediato che in essa viene messa a tema, sono la riprova che il concetto di verità come sintesi di soggetto e oggetto poteva e doveva essere svolto diversamente.
Nell’illustrare il pensiero di Spaventa, scrive infatti Valagussa: «Lo spirito come conoscenza .. ha di certo l’oggetto, il reale, dinnanzi a sé come un dato, qualcosa che è lì, che egli trova; ma pure il reale, l’oggetto, non è un semplice dato, né lo spirito un semplice spettatore. Intuendo l’oggetto, egli produce (crea) la realtà stessa dell’oggetto» (op. cit., p. 14). In questo passaggio tra dato e creazione dello spirito si trova, dice Valagussa, il fondamento del rapporto tra Fenomenologia e Scienza della logica, il fondamento, cioè, della loro fondazione reciproca. Questo rapporto va inteso nel senso che l’identità dell’essere e del pensare dimostrata dalla Fenomenologia trova nella Scienza della logica riscontro come identità del pensare con l’essere. Spiega Valagussa che il cominciamento astratto da cui prende le mosse la Fenomenologia dovrebbe trovare nella Natura, come risultato della Scienza della logica, la sua fondazione. Ma quello era semplice fenomeno, questa è scienza della natura, cioè spirito. C’è qui allora una asimmetria che non consente fondazione reciproca. Aver osservato questa sfasatura, questo squilibrio, ha portato Spaventa a concepire l’idea metafisica di ricreazione, idea ben diversa da quella di Gentile: «la natura che segue il Logo non coincide con l’astratto cominciamento, ma è già terreno dello spirito, dell’assoluta mediazione. Il puro dato, il “questo” sensibile … non rientra nella mediazione, ma costituisce l’alterità assoluta che il pensare trova sempre di fronte a sé» (op. cit., p. 18). Tenendo fermo questa considerazione, dice Valagussa, si comprende anche come Spaventa abbia valutato la filosofia di Hegel: «“Provare la creazione vuol dire provare quel che v’ha di ideale, di mentale, di vero e perciò di necessario nella creazione. Questo è provabile, provabilissimo; è il provabile stesso”. Ciò che si può provare non è la creazione, bensì la creazione necessaria, quella ricreazione operata da parte dello spirito: il risultato del percorso sin qui seguito costringe a porre in questione l’idea di Hegel come filosofo dell’identità. “Per me tutto il valore di Hegel, qui, è questo: provare l’identità … Ora provare l’identità è provare la creazione”. La creazione provata da Hegel è certamente ciò che vi è di necessario nella creazione: la ri-creazione è la prova stessa, è il necessario, la scienza che produce il vero mondo. Il prezzo di questo guadagno è la perdita della autentica immediatezza … Il primo, quel primo da cui prende le mosse la Fenomenologia (che non può essere provato, perché altrimenti sarebbe secondo), è l’astratto astrattamente inteso che mai sarà recuperato … L’astratto sarà recuperato in quanto inserito nel sistema, ossia inteso concretamente, non più astrattamente: in tal modo l’astratto, l’astratto senz’altro, è perduto. Hegel è pensatore dell’assoluta identità solo in quanto appare insieme come pensatore dell’assoluta differenza. La disgrazia del sapere, intesa in senso radicale, consiste nella perdita dell’oggetto originario dal quale il sapere prende avvio» (op. cit., pp. 18-19). Ma tutto questo, secondo Valagussa, non è un difetto del sistema hegeliano, al contrario: l’asimmetria garantisce al sistema la sua costante riapertura, evita la soluzione definitiva e presenta un «“eterno problema che è eterna soluzione”» (op. cit., p. 19). Hegel che non riesce a “chiudere” il sistema è visto qui come pensatore dell’assoluta differenza e Spaventa, che registra l’irriducibilità dell’immediato alla mediazione facendo risaltare l’asimmetria di Fenomenologia e Logica è indicato come colui che ha il merito di portare alla luce il vero frutto della speculazione hegeliana.
Così suonano le parole di Valagussa, che illustra anche la famosa questione della prima triade della logica servendosi di questo punto di vista e curvando dentro tale prospettiva il nodo concettuale hegeliano: «Nel Nulla della prima triade, non si nasconde forse qualcosa di molto simile alla figura del Padre? Il pensabile che precede ogni distinzione, il Sì prima del No, un Sì muto, prima di ogni apparire, e quindi del tutto contraddittorio, ma necessario perché il gran prevaricatore possa agire» (op. cit., p. 29). In altre parole, come il principio dell’identità di soggetto e oggetto è assimilato da Valagussa alla figura cristiana del Figlio e alla sua natura di mediazione, così il concetto del Nulla introdotto da Hegel nel cominciamento della Logica è fatto coincidere con la figura del Padre, cioè, come lo chiama lui, «il pensabile che precede ogni distinzione». Non c’è bisogno di essere grandi frequentatori delle pagine hegeliane per avvertire un senso di disagio di fronte a queste battute o, quanto meno, per avere la sensazione che non tutto collimi perfettamente. Ed è proprio questa sensazione che ci spinge a domandare nuovamente: non è stato forse Hegel il filosofo che come pochi altri si è sforzato di rendere conto di come l’intellegibilità fosse cosa assolutamente perspicua e del tutto coincidente con il pensiero e quindi, proprio per questo, non potesse essere niente di immediato, cioè di sottratto al pensiero? Non è stato forse il filosofo che ha cercato di dimostrare che l’Assoluto è Soggetto e non Sostanza, è mediazione, e cioè intrinsecamente ed essenzialmente identità di pensabile e pensato? Non è stata anzitutto questa la sua bandiera, vessillo illuministico, ma di un illuminismo che non era né poteva essere scissione e separazione? E se lo sforzo che Hegel ha messo in atto, se quella tensione massima del pensiero alla ricerca del solo modo giusto e possibile di esibire il proprio fondamento, a tal punto si spinge che mostra tutta la difficoltà del suo prodursi e rivela di essere assediata da aporie e contraddizioni che la mettono a repentaglio, se dunque quella tensione non disdegna di sfidare l’aporia pur di tentare di andare più a fondo possibile nella questione che si presenta al pensiero, non bisogna però farle lo sgambetto e con mossa lesta affrettarsi a sostenere che quelle aporie sono la vera realtà. Non, si badi, aporie reali (qualunque cosa questo possa significare), ma realtà razionale, pensabile. Salvo poi questa stessa realtà pensabile riconoscerla anche contraddittoria («un Sì muto, prima di ogni apparire, e quindi del tutto contraddittorio»). E poi, di nuovo, necessaria («del tutto contraddittorio, ma necessario»). Finendo in una situazione concettuale dove la chiarezza scarseggia, il concetto è estinto, la pensabilità non è più tenibile, ma che pure si vuole difendere e tener ferma non come lo scoglio contro cui il pensiero di Hegel urta, e contro il quale pure sceglie di urtare consapevole della sua intrinseca aporeticità, ma invece come l’orizzonte più autentico di quel pensiero. Non l’aporia, insomma, ma la verità nella sua veste appropriata.
Infine, insistendo sull’idea di Hegel filosofo della differenza assoluta e Spaventa suo autentico interprete, Valagussa lancia ancora uno strale contro Gentile e contro il cattivo uso che egli avrebbe fatto di questa materia concettuale. Anche Spaventa, dice Valagussa chiarendo il suo pensiero, ha in sé una componente di attualismo. Ma questo è ben diverso da quello dell’atto puro: «Non la risoluzione della Fenomenologia nella Logica, come vorrebbe Gentile, bensì, all’opposto, l’asimmetria tra le due determina l’attualismo nella prospettiva spaventiana: nessuna risoluzione della natura muta nello spirito, bensì ricreazione del mondo a partire da una perdita originaria: l’astratto astrattamente inteso costituisce l’immemorabile e inattingibile passato rispetto al quale il pensare come atto del conoscere rivendica il ruolo di presente assoluto … la pretesa di Gentile di una compenetrazione originaria di essere e pensare per la quale tutta la natura si risolve in spirito, non viene avanzata da Spaventa, perché spirituale è il mondo nell’attualità, in quanto ricostruzione del “prima” inconsapevole. Gentile non si sarebbe mai chiesto se vi sia un modo di essere che non sia sussistere: tutto si risolve nell’autoctisi dell’io, mentre in Spaventa l’unità di pensare ed essere, se accade, è risultato. “La conoscenza non è immagine o copia, vera o falsa; né segno o simbolo. È -per dir tutto in una parola - una evoluzione dell’essere delle cose: un nuovo essere, il vero essere delle cose […] E ci è di più: le cose sono le cose, le vere cose, soltanto nella cognizione e per la cognizione. E quello che si suppone come essere delle cose, senza o prima, come si dice, della cognizione, non è il vero essere delle cose: conoscerlo è impossibile perché non è vero, e conoscere è conoscere il vero”. Conoscere è l’evoluzione dell’oggetto, dalla materialità alla mente assoluta: in tal modo è inteso il processo di produzione hegeliano che conduce a consumare l’oggetto; l’oggetto si consuma nel senso che si evolve ed il momento in cui è conosciuto è il luogo più alto della sua evoluzione, che tuttavia mai s’interrompe. La compenetrazione di pensare ed essere non è l’originario, dal momento che si può dedurre soltanto la creazione necessaria, a partire da quel puro fatto del pensiero che è negare la quiete dell’Essere; di più, si può arrivare a dire che l’Essere che non ha ancor coscienza di sé è falso e perciò inconoscibile, ma non è annullato, è ciò da cui si avvia il processo di evoluzione» (op. cit., pp. 37-38). L’evoluzione di cui parla Spaventa non ha alle spalle alcun residuo della cosa. In questa battuta riferita da Valagussa Spaventa definisce la conoscenza vera in contrapposizione alla conoscenza come copia, ovvero precisamente a quell’idea del conoscere che ammette impropriamente un essere a prescindere dal pensiero. Il vero, poi, se è un punto d’arrivo, un risultato, lo è solo grazie al fatto che l’immediatezza è concettualmente inammissibile e, quindi, il suo “risultare” non ha a che fare con il movimento da un essere inconoscibile, ma dato, al conosciuto. Il cambiamento di “stato”, non è un cambiamento che possa realizzarsi sul piano degli enti. È vero bensì che in questo luogo concettuale sprizza tutta la difficoltà che la filosofia idealistica ha cercato di pensare ed emergono, con prepotenza, i problemi che si innalzano alti come montagne insormontabili. Ma per quanti problemi possano esserci in queste asserzioni, interpretarle come affermazioni di una realtà ontologica inconoscibile ma anche innegabile, di un Essere che può ben stare senza il pensiero e che a un certo punto il pensiero incontrerebbe, è esattamente il contrario di quanto Hegel ha voluto dimostrare ed è lontano anni luce da quello che nell’idealismo hegeliano Spaventa ha trovato di valido e vero. A riprova di ciò basterebbe rileggere il bellissimo La filosofia di Kant e la sua relazione colla filosofia italiana, il primo dei saggi contenuti negli Scritti filosofici, nel quale si può davvero gustare l’intelligenza filosofica di Spaventa alle prese con l’analisi della sintesi apriori di Kant e, seguendone i passi, si tocca con mano quanto il suo pensiero sia intrinseco alla prospettiva hegeliana idealisticamente intesa o, se si preferisce, alla prospettiva di Hegel filosofo dell’identità. Non è questo ovviamente il luogo in cui possa essere affrontato l’esame del testo, per verificare se l’interpretazione di Valagussa sia pertinente. Ma il lettore interessato saprà farlo da sé.
In conclusione, in filosofia ogni operazione è lecita se ben sostenuta e corroborata da argomenti e prove che abbiano solido fondamento. E non c’è dubbio che Valagussa abbia cercato di motivare la sua lettura di Spaventa e il conferimento a questo pensiero di una diversa egida filosofica. Ma il filo che tesse non sembra abbastanza resistente, soprattutto non sembra essersi srotolato dal di dentro della matassa concettuale idealistico-hegeliana per poi ritessersi nella nuova prospettiva. L’impressione insomma è che l’esigenza filosofica del nuovo interprete non abbia grande parentela con quella di Hegel o di Spaventa, e tuttavia egli abbia cercato in un nucleo importante di questo pensiero di fare il nido e trovare un riparo. Come dicevamo, in campo filosofico tutto è possibile, purché motivato. Però, quando le motivazioni addotte non risultano abbastanza convincenti e tradiscono una qualche estrinsecità, allora quello che dovrebbe essere un nido accogliente rischia di rivelarsi come il nido del cuculo, di un uccello cioè che depone le sue uova in casa altrui perché possano schiudersi grazie al calore fornito da un’altra cova. Per quanto concerne Valagussa siamo certi, invece, per le capacità filosofiche che gli abbiamo visto mettere in campo, che egli sia ben capace di covare da sé le sue uova, senza dover cercare altrove, senza cioè andare a deporre nel nido idealistico uova che, una volta aperte, mostrerebbero con tutta evidenza di appartenere a una specie diversa.

PUBBLICATO IL : 31-12-2010
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