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Luciana Castellina, La scoperta del mondo , nottetempo, 2011
di Francesco Saverio Trincia

Quando, a malincuore, ho concluso la lettura del diario giovanile del 1943-1948 di Luciana Castellina, un diario ripercorso, rivisitato, in certo senso restituito a nuova vita e dunque sapientemente, con interventi leggeri, ‘riattivato’ come opera scritta nel presente e che dal presente trae ispirazione affinché il passato perda la sua cruda fisionomia di mero documento – ciò su cui sempre si interroga chi diari non ne ha scritti, ma ne ha costantemente avvertito il fascino inquietante – mi sono chiesto: perché questo diario è stato scritto? E perché è stato pubblicato nella forma letteraria che ha infine assunto?
Quasi imprevedibilmente si comprende subito quello che oggi per l’autrice è in gioco, quale è la sfida che, senza incertezze, deve essere definita politica e intellettuale, vitale e culturale, che nel libro viene affrontata: si vuole raccontare come è nato e come nasce un “mondo”, come lo si scopre, secondo il titolo assai puntuale del libro stesso, da parte di chi, giovane, diviene una donna da ragazza che era, facendosi essere umano attivo, responsabile, creativo solo in quanto il “mondo” è diventato suo, si è cioè sottratto all’indifferenza di mero luogo o spazio insignificante dove comunque si vive, perché semplicemente questo ci tocca, vivere. Il “mondo” che nasce per la giovane Castellina comincia nel 1943 con l’inizio della fine del fascismo e quella che il diario racconta è una storia, la sua storia di persona che letteralmente ‘viene al mondo’ come soggetto morale e politico. Ma si comprende anche, sin dalle prime pagine – aiutati dal suggerimento della figlia Lucrezia Reichlin circa il senso della “felicità” che il libro racconta e che consiste nell’apertura alla dimensione ultraindividuale dell’esperienza condivisa con gli altri, così scoperti come tali, altri appunto, a noi comunque legati – che il libro dice anche e soprattutto come ci si debba aprire al mondo, come questa esperienza, fatta dalla Castellina  negli anni del consolidamento della convinzione antifascista e della maturazione della scelta comunista di fronte allo sfacelo della “patria”, sia il compito senza tempo, assoluto, anche se svolto in un certo tempo storico, che si impone ad ogni essere umano, soprattutto se ancora giovane.
Il libro dunque si rivolge al presente e in questo senso è intriso della stessa ansia morale che Luciana coglie come primo segnale di una maturazione lenta, seguita e raccontata con sapiente distacco partecipato. Il libro parla del presente e per il presente, e del futuro, per il futuro, per quello che oggi ha importanza, per ciò a cui la storia di una vita passata, registrata in un diario giovanile rivisitato offre indicazioni, fornisce segnali di vie da seguire, di fisionomie spirituali da costruire, nonostante la grande diversità dei tempi. In gioco c’è, per chi legge oggi, come per chi annotava ieri le vicende della propria vita attraversata dalla grande storia (la fine del fascismo, i bombardamenti, le fughe, ma anche i momenti di vacanza spensierata, la crescente preoccupazione per il destino degli ebrei, vicini e anzi interni a vari gradi d’intensità alla famiglia di Luciana), la piena consapevolezza della necessità morale di trovare un orientamento nella vita. Ossia la certezza che la faticosa ricerca di una giusta via da seguire presupponga il consolidarsi di una coscienza carica della proprie responsabilità, decisa a non lasciarsi vivere nella “indifferenza” (una parola chiave – si pensi ad Alberto Moravia – nel lessico anche letterario dell’Italia che torna libera con la vittoria dell’impegno antifascista e della Resistenza).
Si sarebbe tentati di dire che il diario della lenta maturazione civile e politica di Luciana, che approda alla consapevolezza di voler essere una comunista, rappresenta la storia di uno svincolamento, di un liberazione o anche solo di un superamento dell’animo e del mondo borghese in cui si svolge la sua vita di adolescente. Ma sarebbe, questa, una definizione forzata di ciò che il libro racconta. La conquista del mondo, la scoperta che c’è un mondo che non sta lì per noi come un semplice strumento di un vivere ruotante soltanto sulle scelte soggettive, su ciò che volta per volta ci piace – e che pure è parte non sostituibile della nostra ricchezza di individui in formazione, perché è il luogo nel quale, partecipandovi, immergendosi in esso, si svela il senso in movimento fino all’autoconsapevolezza di ciò che agendo e scegliendo siamo – tale emersione del mondo per Luciana e di Luciana per il mondo, non ha l’aspetto di un percorso interrotto da un frattura, non ospita una svolta radicale, nonostante la drammaticità dei tempi. È molto chiara nel libro, e molto ben rappresentata, la continuità di una vita che da un lato abbandona progressivamente fughe e chiusure, incomprensioni, distrazioni giovanili ed equivoci, per veder maturare invece elementi di chiarezza sempre più frequenti e dai contorni sempre più netti, sulla situazione storica, sulle persone, sul futuro del paese che sta uscendo dalla guerra, sulle responsabilità degli individui e dei gruppi sociali e culturali, sull’orrore del fascismo e sulle speranze civili antifasciste. Dall’altro lato, questo processo accade appunto entro, anzi meglio, nella forma (consapevolmente riconosciuta e valorizzata oggi) della continuità di un vivere mutando anche radicalmente i propri contenuti, trasformando sempre più nettamente tali contenuti in una coscienza politica collocata non contro ma oltre la privatezza, senza tuttavia che questo mutamento comporti in alcun modo delle fratture drammatiche, o la preparazione della nascita di una persona ‘nuova’. Ogni retorica dell’uomo e della donna nuovi – una retorica che fa rabbrividire al pensiero dei disastri provocati da tale nefasto ideologismo – è bandita dal libro.
Luciana racconta e mette in mostra nella propria storia che il mondo si conquista progressivamente e che questa progressività è la rivoluzione stessa (la rivoluzione non solo politica rappresentata dal comunismo)  che ad un certo punto si impone come fine e come compito  non più declinabile (soltanto) individualmente. Dopo aver riferito del suo primo impegno politico, una conferenza sul cubismo e su Picasso, richiestale dai compagni comunisti del liceo Tasso, Luciana riporta una frase di Hoffman letta su Il Mercurio: «Si viveva solo nell’arte e solo per essa si traversava la vita, un’epoca tragica e fatale ha afferrato l’uomo col suo pugno di ferro e il dolore gli strappa accenti che prima gli erano ignoti», e la commenta osservando che così in effetti è stato, che si era stati “afferrati” dalla storia e dalla realtà, ma subito avverte che, per chi come lei non aveva  potuto vivere la Resistenza né aveva avuto tempo per conoscere l’antifascismo consapevole, «il cammino è stato più lento e tortuoso». Lentezza e tortuosità di un cammino che conduce all’impegno politico comunista via via più assorbente sono i modi in cui si esprime anche stilisticamente, nella scrittura, la continuità del passaggio alla dimensione “collettiva” che domina il libro come sua ispirazione fondamentale. Il ricordo di Calvino svolge a tutti gli effetti la funzione cardine di indicare la crucialità del ‘come’ della conquista del mondo da parte di Luciana, ma evoca anche una sorta di paradigmaticità di un vivere che ospita la rivoluzione in forma di continuità  nella partecipazione alla storia. «Calvino lo scriverà qualche anno dopo, dicendo che la nostra non è stata una generazione di iconoclasti, di ‘angry young people’, perché ha avuto più vivo di altri il senso della partecipazione alla storia. ‘Un impegno vissuto senza risparmio, con grande gioia e libertà più che baldanza’» (p. 147). Può apparire paradossale che si attribuisca spirito di continuità ad una militante comunista che nel 1969 viene radiata dal PCI, quando fonda con altri il gruppo del Manifesto, un evento che apparve, e forse fino a un certo punto fu l’espressione di un impegno rivoluzionario o diversamente rivoluzionario rispetto a quello  del partito. Ma si vuole sottolineare così un tema rilevante, se non fatale, ossia che l’innesto della scelta politica nella partecipazione alla storia, nel rispetto delle sue tortuosità, nel rifiuto dell’idea che mai si dia un radicale ‘voltare pagina’, perché il retro della pagina nuova è la pagina vecchia che non scompare, costituisce la cifra identificativa del progressismo italiano di matrice comunista del secondo dopoguerra. Se si riesce, e nella misura in cui si riesce a ridurre o a neutralizzare il peso negativo che la retorica, e anche la consapevole costruzione di una politica culturale da parte del PCI, hanno depositato su questa sorta di ‘storicismo vissuto’, di dolente e insieme combattiva volontà di stare nella storia a cui si era deciso di tentare di dar forma vivendo, non rinunciando a riconoscere che «è necessario tentare di vivere», secondo il verso di Paul Valery, la figura di Luciana Castellina si staglia per noi sullo sfondo della ‘sua’ storia e della ‘sua’ vita non solo come narratrice di eventi registrati da un diario giovanile. Non si sbaglia, infatti, se le si attribuisce il desiderio, declinato nella forma del distacco partecipato, serio ma non tragico, di dire non solo come si è vissuto, come lei ha vissuto, ma come si è tenuti a vivere.
Ci si è molte volte chiesto, e si dovrebbe continuare a farlo con consapevolezza critica sempre più spregiudicata, quale sia l’eredità che ci consegna la storia, e le storie individuali che la intessono, della militanza comunista delle generazioni che, come Luciana, erano ancora formate da adolescenti tra il 1943 e il 1948. Questo libro dice che un elemento di tale eredità, quello a cui non vorremmo rinunciare e a cui non rinunceremo perché costituisce il valore stesso su cui si edifica la dignità di ognuno, è l’indicazione sobria ma ferma che la vita è una vicenda tortuosa in cui la scelta dell’impegno a non lasciarsi vivere nell’indifferenza individuale può essere scansata solo al prezzo di una perdita del significato morale del vivere stesso. Se esiste qualcosa come quella che è stata definita “l’umiltà del male”, esiste anche, e può essere anch’essa forse più opportunamente voluta e decisa, l’umiltà del bene, ossia il “tentativo” di vivere operando nel mondo in nome di valori miranti a realizzare il massimo di dignità e di felicità (o il minimo di infelicità), valori che dalla dimensione individuale si allargano alla dimensione collettiva, edificando così la “patria” che tutti dobbiamo faticosamente cercare. Febbraio 1946: «È questa dimensione nuovamente collettiva che mi aiuta ad uscire dall’autoreferenzialità… La pietà che comincio a sentire per il mio prossimo più lontano dal mio ghetto sociale, per i senza privilegi, gli sfollati, i disoccupati, i reduci, i martiri, mi ridà una dimensione collettiva, solidale. Se non è patria, è comunque qualcosa che ci somiglia. E che a poco a poco mi apre alla curiosità della politica, che è, appunto, il contrario del proprio ombelico» (p. 148).

PUBBLICATO IL : 31-12-2010
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