La recente traduzione italiana dell’originale inglese Plato in the Italian Renaissance (l’edizione del 1992) propone ai lettori italiani l’ormai “classico” testo di James Hankins. Rispetto all’edizione inglese, la versione italiana contiene una prefazione dello studioso americano appositamente scritta, l’aggiornamento della bibliografia indicata in nota (curata da Stefano Baldassarri), e, in fondo al volume, un aggiornamento bibliografico (a cura dello stesso Hankins) riguardante gli studi sulla diffusione di Platone nel Rinascimento dal 1990 al 2008.
Malgrado siano trascorsi circa vent’anni dalla prima pubblicazione, l’opera ha conservato molto del suo fascino e della sua utilità; infatti nessuno studioso che si avvicini al pensiero del Rinascimento potrebbe prescindere dal libro di Hankins per avvicinarsi al mondo umanistico. Quest’opera è il frutto della vasta e profonda esperienza dello studioso americano nel campo degli studi umanistici e ha apportato, sin dalla pubblicazione della prima edizione, importanti e consistenti contributi alla comprensione di uno dei periodi fondamentali per il successivo sviluppo della modernità: “Lo studio della rinascita platonica nel Quattrocento può quindi aiutarci a meglio comprendere […] la riclassicizzazione della cristianità, vale a dire quel processo che, secondo Burckhardt, ha contribuito a portare il mondo medievale alle soglie della modernità” (p. 38). Il libro affronta varie tematiche, focalizzandosi sui metodi di lettura e di traduzione dei testi platonici; gli argomenti sono ricompresi all’interno di in un quadro generale. L’autore non si sottrae al compito di affrontare argomenti lungamente discussi dai più celebri studiosi, esprimendo le proprie opinioni e proponendo, talvolta, nuove prospettive critiche che, nel corso del tempo, dalla pubblicazione del suo volume fino ad oggi, sono state discusse, accolte o respinte dagli specialisti, e modificate o confermate dall’autore. Si pensi ad esempio al ridimensionamento, da parte di Hankins, dell’influenza esercitata da Giorgio Gemisto Pletone sulla cultura umanistica della seconda metà del XV e su Ficino in particolare (p. 396. Per una prospettiva diversa si vedano S. Gentile, Giorgio Gemisto Pletone e la sua influenza sull’umanesimo fiorentino, in Firenze e il Concilio del 1439, a cura di P. Viti, pp. 813-833; C. Vasoli, Quasi sit Deus: Studi su Marsilio Ficino, pp. 32-48). Oppure si consideri la tesi sull’Accademia ficiniana, già espressa altrove da Hankins e qui ribadita, che si pone in aperto contrasto con le opinioni tradizionali, secondo la quale essa sarebbe un ginnasio privato diretto dal filosofo fiorentino (pp. 4-5, p. 378 n. 5, pp. 415-419. A tal riguardo si veda A. Field, The Platonic Accademy of Florence, in M. J. B. Allen e V. Rees, Marsilio Ficino: His Theology, his Philosophy, his Legacy, pp. 359-397). Originale e innovativa è l’ipotesi, avanzata dall’autore, sui motivi che spinsero Ficino a pubblicare la sua traduzione del Corpus Platonicum nel 1484: Hankins suggerisce che Marsilio abbia dato frettolosamente alle stampe la Platonis opera omnia proprio in quell’anno spinto da considerazioni astrologiche e da speranze millenaristiche di rinnovamento della Cristianità, attraverso la pia philosophia del platonismo. Il 1484 era infatti considerato l’ “annus magnus”, in cui la congiunzione di Saturno e Giove lasciava prefigurare cambiamenti positivi per la religione cristiana (pp. 422-426).
Ne La riscoperta di Platone nel Rinascimento italiano Hankins esplora la riscoperta, la ricezione e le interpretazioni rinascimentali delle opere platoniche per rispondere al quesito iniziale su “come le nuove interpretazioni dei dialoghi abbiano reso possibile la riscoperta di Platone”. L’autore prende in esame le circostanze in cui furono elaborate le traduzioni del Corpus platonico: le finalità, gli strumenti e i presupposti ermeneutici che spinsero i traduttori ad intraprendere l’opera. Il tutto in un ambito, quello della Rezeptiongeschichte, che di studi di così ampio respiro non ne aveva ancora prodotti. Anzi, al libro di Hankins si deve riconoscere proprio il merito di aver dato impulso al campo dei “reception studies”.
La tesi principale che Hankins sostiene nel libro è che la lettura e l’interpretazione di Platone nel Rinascimento furono influenzate più dai tentativi di includere o escludere il filosofo antico dalla cultura cristiana, che non dalla temperie storico-politica in cui operarono gli umanisti. Egli ridimensiona così le interpretazioni avanzate da Baron e, soprattutto, da Garin, la cui spiegazione del revival platonico era ricondotta a specifiche intenzioni politiche. Tale motivazione è giudicata da Hankins troppo astratta e “incompleta dal punto di vista psicologico allorché egli tratta dell’ermeneutica rinascimentale” (p. 49). Lo studioso americano ritiene che gli umanisti del XV secolo – fossero essi detrattori o sostenitori di Platone – abbiano dovuto confrontarsi con due problemi principali. Innanzitutto era da affrontare la questione se i dialoghi platonici fossero appropriati o meno per dei giovani lettori cristiani e se fossero assimilabili nel programma umanistico “di riorientazione della cultura Cristiana con attenzione alla cultura classica”. Per il pubblico cristiano del Quattrocento risultava infatti difficile accettare dottrine platoniche, come la trasmigrazione delle anime e la posizione platonica sull’omosessualità, che erano state oggetto delle critiche autorevoli di Tertulliano e San Gerolamo ed erano state da poco riproposte dai critici “moderni” come Giovanni Dominici e Giorgio di Trebisonda. Inoltre per un lettore cristiano che condividesse l’ideale umanistico dell’educazione retorico-letteraria di stampo ciceroniano e isocrateo, fondata cioè sull’imitazione di exempla attinti dai testi classici, era difficile condividere le critiche platoniche a tale tipo di formazione (si pensi al Gorgia). Altro tema che si pose agli studiosi quattrocenteschi era la possibilità di sostituire Platone ad Aristotele “come fondamento filosofico della teologia cattolica”.
La riscoperta di Platone nel Rinascimento italiano si apre con una prefazione all’edizione italiana (pp. 1-6) in cui l’autore espone i due temi dominanti del suo lavoro: 1) l’evoluzione delle tecniche di traduzione degli studiosi rinascimentali dei dialoghi platonici; 2) l’interpretazione di Platone nel XV secolo. In queste pagine Hankins evidenzia alcune lacune nel suo lavoro, che oggi possono considerarsi colmate dai suoi studi successivi, la più grande delle quali è l’assenza di una riflessione dedicata al Timeo platonico (per i quattro articoli di Hankins su questa tematica si veda l’aggiornamento bibliografico, p. 517 punto G).
Segue la prefazione all’originale inglese (pp. 9-19), poi l’introduzione (pp. 33-63), nella quale Hankins cerca di delineare il quadro ermeneutico in cui gli umanisti si trovarono a leggere Platone, descrivendo le tecniche esegetiche da essi adoperate, che a noi, oggi, sembrano così lontane e poco scientifiche (p. 52). Gli umanisti che per primi si avvicinarono al Corpus platonicum, da poco reintrodotto in Occidente dai dotti bizantini immigrati in Italia, erano spinti da preoccupazioni di carattere pedagogico-morale, piuttosto che dal desiderio di comprendere il vero pensiero dell’antico filosofo. In altre parole, essi generalmente non praticarono una “lettura critica”, che “tende a considerare i testi come fontes più che come auctoritates”, una lettura “cosciente che l’intento originale dell’autore […] va piuttosto ricostruito attraverso una precisa osservazione dei contesti e di possibili termini di confronto” (p.61). Delle sette forme di lettura descritte da Hankins – meditativa, dottrinale, scolastica, mimetica, allegoresi, critica ed estetica – gli umanisti impiegarono principalmente la “lettura dottrinale”, basata sulla convinzione che l’autore possedesse la verità e fornisse validi modelli di comportamento; e la “lettura mimetica”, che “cercava di trasmettere l’ethos dominante, ossia gli ideali delle classi colte, selezionando un canone di testi considerati espressione esemplare di quei valori e imponendoli come modelli da imitare” (p. 58), espressi in una prosa raffinata. L’applicazione di queste tipologie di lettura, che miravano a fornire al lettore degli exempla di comportamento morale desunti dalle auctoritates antiche affinché lo persuadessero ad emulare tali comportamenti virtuosi, presentava dei problemi con i dialoghi platonici, che veicolavano alcune dottrine opposte agli ideali cristiani e umanistici. Nei quattro capitoli che compongono il libro, Hankins descrive le tecniche esegetiche e versorie utilizzate dai traduttori quattrocenteschi nel loro tentativo di integrare Platone nella cultura cristiana e renderlo accettabile al pubblico. Egli individua quattro grandi sezioni articolate secondo un criterio geografico e cronologico, ciascuna di esse focalizzata su figure di primo piano. A Firenze emerge il ruolo di Bruni, a Milano l’attenzione si rivolge a Pier Candido Decembrio; nella Roma papale, che fa da sfondo alla disputa tra Giorgio di Trebisonda e il cardinale Bessarione, inizia, secondo lo studioso, la svolta esegetica che culminerà nelle traduzioni platoniche di Ficino, approntate nella Firenze medicea.
Il primo capitolo, dedicato a “Firenze”, è suddiviso in tre sottocapitoli (pp. 65-163) e il protagonista principale è Leonardo Bruni. A Firenze rinacque la conoscenza del greco grazie agli insegnamenti del bizantino Manuele Crisolora, che ebbe come allievi, tra gli altri, Bruni, Uberto Decembrio e Cencio de’ Rustici. Nel suo primo periodo trascorso a Firenze (fino al 1405, quando divenne segretario pontificio, e dal 1415 al 1444) Bruni tradusse in latino il Fedone, in cui abbandonò la medievale traduzione ad verbum in favore dell’innovativa tecnica versoria ad sententiam, che conservava il significato e le peculiarità stilistiche dell’originale. La traduzione ad sensum, usata dalla maggior parte dei traduttori quattrocenteschi di Platone, rappresentò, secondo Hankins, un espediente precauzionale volto a celare le discrepanze culturali fra il mondo classico e la società del XV secolo. La versione bruniana delle opere dell’antico filosofo presenta alcuni difetti, riconducibili sia alle volontarie censure dei brani moralmente sconvenienti sia all’impreparazione filosofica del traduttore che, non conoscendo le dottrine platoniche, spesso si trovò in difficoltà nel tradurre i passi più speculativi. Le peculiarità di Bruni, e dei traduttori fiorentini in generale, fu la trasposizione del pensiero di Platone nell’ideologia del loro “umanesimo civile”, profondamente distante dalle genuine concezioni dell’antico filosofo. L’uso che essi fecero del corpus platonico fu “utilitaristico”, essi ricorsero all’auctoritas di Platone per sostenere i loro programmi culturali e i loro ideali educativi e politici. Ai loro occhi i dialoghi platonici erano anche uno splendido esempio di come la saggezza potesse esser espressa eloquentemente e poeticamente e testimoniavano la vicinanza tra uno dei massimi pensatori pagani e la verità cristiana.
A Milano, cui sono dedicati i tre sottocapitoli del secondo capitolo (pp. 165-237), il clima politico diverso rispetto a quello fiorentino orientò l’attenzione degli umanisti verso la Repubblicadi Platone. Nella “repubblica fiorentina” Platone era stato rivestito di un profilo “repubblicano”, mentre nella Signoria dei Visconti l’antico filosofo aveva ricevuto una connotazione aristocratica. Gli umanisti milanesi cercarono di introdurre la versione latina della Repubblica nel mondo cattolico, compito reso più arduo dalle resistenze e dai pregiudizi antiplatonici degli esponenti della cultura tradizionale.
Il dialogo platonico fu dapprima tradotto da Uberto Decembrio e Manuele Crisolora, all’inizio del secolo; successivamente dal figlio di Uberto, Pier Candido, e infine da Antonio Cassarino. Questi esponenti dell’ “umanesimo principesco” cercarono nel testo del filosofo greco un sostegno alla forma di governo principesca e nelle sue teorie politiche un supporto per la teorizzata superiorità costituzionale di Milano rispetto a Firenze e Venezia. Come già i fiorentini, così anche i milanesi continuarono a vedere Platone come un autore da adattare alla Weltanschauung umanistica, smussandone o eliminandone gli aspetti da questo punto di vista più problematici. Nel caso di Uberto, che si avvicinò al Platone storico più di Bruni, “fu appunto Platone ad aiutare Uberto a spiegare razionalmente (a sé e agli altri) scelte politiche dei Visconti quali il preferire le persone di talento ai nobili, plasmare i costumi civili” (p. 182). A differenza di Uberto, Pier Candido non si servì dell’ideale Stato platonico come exemplum per il mondo contemporaneo, ma preferì “considerare lo Stato aristocratico della Repubblica non come un programma per la società italiana del XV secolo ma come un ideale da cui trarre ispirazione” (p. 216). Il più giovane dei due Decembrio si preoccupò di rendere il dialogo sistematico e fruibile per il pubblico cui era destinato – esponenti del governo signorile forse più vicini agli ideali platonici dello stato rispetto al regime oligarchico fiorentino (p. 182) – individuando nell’allegoria della vita il filo conduttore dei 10 libri della Repubblica, che egli suddivise in capitoli e corredò con commenti e con un apparato di note a margine. Organizzando e disponendo l’opera alla stregua di un trattato organico, egli sperava anche di difendere Platone dall’accusa di non esporre sistematicamente la propria dottrina. Pier Candido compì dei significativi passi avanti rispetto a Bruni sia nella teoria della traduzione che nell’esegesi del dialogo, nonché nell’apologia di Platone. Spinto dalla necessità di rispondere alle critiche antiplatoniche dei suoi contemporanei, i quali si richiamavano a Lattanzio e San Girolamo, egli elaborò una innovativa strategia difensiva che attaccava il principio di auctoritas e quindi anche i due Padri della Chiesa. Il traduttore della Repubblica difese il fondatore dell’Accademia sia ricorrendo ad alcune tecniche ermeneutiche già utilizzate dai suoi predecessori (censura e reinterpretazione dei brani più imbarazzanti, “lettura dottrinale”, interpretazione “figurativa”) sia rivendicando il maggior valore storico del testo, considerato come fons, rispetto alle concezioni basate sull’auctoritas, anche quella dei Padri della Chiesa. A differenza dei traduttori fiorentini, il giovane Decembrio non cercò di cristianizzare Platone, ma si limitò a mostrare che la dottrina del filosofo greco era in accordo con gli ideali cristiani. Malgrado dei passi avanti rispetto ai suoi predecessori in alcuni campi, tuttavia Pier Candido rimase ben lungi dalla comprensione della metafisica platonica.
Bruni, Decembrio e degli altri studiosi di Platone attivi nella prima metà del XV secolo ebbero il merito di accrescere nell’Occidente latino la conoscenza delle opere platoniche. Scelsero di tradurre quei dialoghi ritenuti più adatti e utili per il pubblico a cui si rivolgevano, ricorrendo però a delle strategie difensive – chiosarono e riadattarono, a volte ricorsero ad omissis – che rendevano il filosofo antico più o meno accettabile al lettore cristiano, ma che, inevitabilmente, lo allontanavano dal Platone genuino presentato dai testi greci. Queste manipolazioni preservavano sì l’auctoritas di Platone, l’antico filosofo emblema della sapienza e della virtù, ma impedivano la comprensione della sua filosofia. Una svolta nella ricezione di Platone e nell’interpretazione delle sue opere avvenne verso la metà del Quattrocento, come conseguenza di alcuni mutamenti in ambito secolare, che Hankins ben individua ed espone chiaramente. Innanzitutto gli umanisti iniziarono ad ampliare il proprio campo di interessi alla filosofia speculativa (metafisica e dialettica) e, viceversa, i filosofi scolastici riconobbero l’utilità della conoscenza diretta dei testi greci di Aristotele e dei suoi commentatori. A ciò si aggiunse il fatto che Platone assunse progressivamente un ruolo di primo piano rispetto agli altri antichi sapienti e retori, fino ad assurgere al ruolo di guida per l’ “ambizioso movimento di riforma religiosa oggi noto col nome, forse fuorviante, di ʽneoplatonismo fiorentinoʼ” (p. 241). Infine, un gran contributo venne dallo sviluppo della critica storica e filologica, che, per la prima volta, fu indirizzata anche verso le auctoritates patristiche. Gli umanisti assunsero un atteggiamento meno idealistico e più apertamente critico verso il mondo classico: i tempi erano ormai maturi perché gli intellettuali si interessassero allo studio delle opere antiche per comprendere le dottrine che gli autori antichi vi avevano esposto. Nell’ambito del platonismo la querelle Platone – Aristotele di metà del Quattrocento, cui è dedicato il terzo capitolo (il più lungo di tutto il libro, suddiviso in 5 sottocapitoli, pp. 239-373), costituì, secondo lo studioso americano, lo spartiacque nella ricezione e interpretazione di Platone e del suo corpus di scritti. La controversia sulla superiorità di Platone o Aristotele – o, più precisamente “se la filosofia platonica potesse davvero sostituire l’aristotelismo come supporto filosofico della teologia cristiana” (p. 311) – esplosa durante il Concilio di Firenze nel 1439 e proseguita tra i dotti bizantini Giorgio di Trebisonda e il cardinale Bessarione, ebbe come risvolto pratico l’elaborazione di metodi esegetici più sofisticati nell’attacco e nella difesa di Platone, grazie alla profonda e diretta conoscenza della tradizione platonica posseduta dai due contendenti. Giorgio di Trebisonda, dopo un iniziale avvicinamento al platonismo, se ne allontanò, spinto dalla sua convinzione di esser un profeta, incaricato di svelare al mondo latino il piano dei platonici di riportare in auge il paganesimo. Nelle sue versioni latine delle Leggi, tradotte liberamente e cursorie,e del Parmenide, reso quasi alla lettera e in modo abbastanza preciso, egli additò al mondo latino e mise in evidenza tutti gli aspetti più negativi delle opere Platone, in un modo o nell’altro celati dai traduttori precedenti, con il solo fine di minare la considerazione di cui godeva il filosofo antico. Il colpo finale all’autorità del fondatore dell’Accademia, che indirettamente veniva sferrato anche contro il circolo di Bessarione, fu assestato dal vate cretese nella Comparatio Platonis et Aristotelis (1458), attraverso la quale il mondo latino entrò in contatto con la querelle, fino ad allora rimasta ristretta alla cerchia dei dotti rifugiati bizantini. L’efficacia degli attacchi del Trapezunzio era dovuta al suo ricorso a fonti greche allora sconosciute in Occidente e all’uso della critica storica umanistica, entrambe utilizzate per provare la superiorità di Aristotele e, soprattutto, per dipingere “lo sconvolgente ritratto di un Platone ignorante, anticristiano, immorale e pericoloso” (p.301). Così facendo egli portò alla luce l’incompatibilità fra le idee contenute negli gli scritti platonici e le concezioni religiose e morali dei suoi contemporanei; per riabilitare e rendere assimilabile il filosofo antico fu necessaria una nuova interpretazione delle opere platoniche. Tale nuovo approccio fu introdotto da un grande estimatore di Platone, il cardinale Bessarione, che per rispondere alle critiche di Giorgio di Trebisonda elaborò una tecnica ermeneutica che avrebbe dovuto risolvere i problemi nella ricezione della dottrina platonica. Il diplomatico bizantino, coadiuvato dai membri della sua cerchia, stese l’In calumniatorem Platonis (1458) “in modo da respingere, una volta per tutte, i pregiudizi della Comparatio e annientare la reputazione del Trapezunzio come studioso e filosofo” (p. 309). Bessarione non vi espresse un’interpretazione particolarmente originale di Platone, ma ebbe il merito di introdurre in Occidente sia le dottrine metafisiche che le tecniche esegetiche neoplatoniche, anticipando così la strategia ficiniana e gettando i semi per la futura diffusione di Proclo, Plotino e degli altri platonici tardo antichi.
In questo capitolo Hankins si basa ampiamente sui validi studi di John Monfasani [George of Trebizond: a biography and a study of his rethoric and logic, Leiden 1976; Collectanea Trapezuntiana. Texts, documents adn bibliographies of Georges of Trebizond, Binghamton 1984] e Ludwig Mohler [Kardinal Bessarion als Theologe, Humanist, und Staatsmann, Paderborn 1923-1942], inserendoli in una cornice storico-dottrinale unitaria e rielaborandoli in una sintesi che risulta comunque originale. Egli prende spesso posizione su questioni ampiamente dibattute dagli storici, come nel caso del ruolo di Pletone nello sviluppo del “neoplatonismo fiorentino”. La tesi esposta dallo studioso americano tende a ridimensionare l’influenza di Pletone in Occidente, rivendicata, tra gli altri, da Masai e da Garin; la diffusione di Platone nella seconda metà del XV secolo sarebbe riconducibile, per Hankins, all’opera mediatrice della cerchia di Bessarione, impegnato a “limitare l’influenza di Pletone e del dibattito bizantino sul pubblico occidentale” (p. 299). Il Professore di Harvard ipotizza che l’elaborazione della dottrina dell’amore, emersa quasi simultaneamente in Bessarione e in Ficino, potrebbe esser considerata, almeno all’inizio, come una “risposta esegetica” agli attacchi mossi contro la moralità di Platone. Particolarmente interessante risulta anche l’attenzione di Hankins per l’uso ficiniano dell’In calumniatorem Platonis di Bessarione, che lo studioso americano si ripromette di esplorare e approfondire in un prossimo saggio, che ancora non compare nella sua bibliografia. Hankins ritiene che il secondo libro del testo bessarioneo possa aver influenzato la prospettiva teologica ficiniana e che tanto l’ In calumniatorem Platonis quanto la Theologia Platonica del filosofo fiorentino abbiano determinato, all’inizio del secolo successivo, “la tendenza a riscontrare nel testo platonico un sistema teologico come quello di Proclo e dei commentatori neoplatonici” (p. 355).
Bessarione ebbe il merito di riproporre in Occidente l’antica tradizione esegetica neoplatonica, che apriva nuove strade all’interpretazione di Platone e a una lettura meno letterale e più alta dei dialoghi platonici, la quale era resa possibile dalla conoscenza della metafisica platonica, mediata da Plotino e Proclo. Questa nuova ermeneutica, che aveva permesso a Bessarione di affermare l’accordo tra i valori cristiani e il pensiero platonico, fu perfezionata da Marsilio Ficino, cui è dedicato il quarto ed ultimo capitolo del libro (pp. 375-501). Il cardinale bizantino e il platonico fiorentino si valsero dell’autorità degli antichi commentatori e delle loro tecniche esegetiche per mostrare che i detrattori quattrocenteschi del filosofo antico avevano interpretato male i dialoghi. Con il filosofo fiorentino si ebbe la definitiva affermazione dell’utilità di Platone, che divenne l’auctoritas di un movimento di riforma religiosa, e si attuò una sintesi di cristianesimo e sapienza pagana. Le traduzioni ficiniane dei dialoghi platonici rappresentano l’acme della ricezione dell’antico filosofo nel Quattrocento, oltre a costituire il principale veicolo di diffusione di Platone in lingua latina fino alle soglie del Novecento. Grazie al lavoro del filosofo fiorentino, per la prima volta l’intero corpus platonico fu disponibile in lingua latina (edizione 1484), accompagnato anche da commentari e annotazioni. Rispetto ai suoi predecessori, Marsilio rese accettabile per i cristiani il fondatore dell’Accademia non tramite manipolazioni del testo, ma attraverso un’innovativa interpretazione delle sue dottrine e il ricorso all’allegoria per includere quegli elementi che i suoi predecessori avevano cercato di eliminare. Ficino per primo interpretò unitariamente gli scritti di Platone, “ossia come un insieme di scritti armoniosamente connessi tra loro e finalizzati a un preciso scopo didattico e religioso […] egli li considerava infatti davvero l’ ʽAccademia platonicaʼ, lo strumento per una riforma religiosa e politica inviato al mondo cristiano dalla divina provvidenza” (p.458). I vari dialoghi presenterebbero una varietà di livelli semantici ed esporrebbero le dottrine secondo molteplici “livelli di verità”: il vero significato della filosofia platonica per Marsilio si può cogliere solo adottando una mentalità platonica.
Nell’interpretazione ficiniana di Platone si intrecciano continuamente l’esegesi e l’apologia. Il filosofo fiorentino cercò di giustificare gli attacchi platonici a ciò che per l’uomo del XV secolo era nobile e valido, con il fatto che Platone attaccava una “forma ontologicamente inferiore”; analogamente tentava di spiegare quelle lodi, tessute nei dialoghi, per comportamenti ritenuti sconvenienti, affermando che in quei casi Platone lodava la forma purificata di tale fenomeni, che noi non riusciamo a cogliere (p.496). Ficino contribuì a creare una nuova mentalità platonico-cristiana, che formalmente si conformava alla dottrina del cristianesimo, ma che implicitamente, secondo Hankins, finì per porsi come un’alternativa al dominio culturale delle tradizioni cristiane. Egli sostiene che la posizione di Ficino nei confronti di Platone fu influenzata dalla sua crisi spirituale e dalla sua profonda religiosità; che lo stesso Marsilio, considerandosi un “medico delle anime”, cercò un rimedio al malessere spirituale del suo tempo nella conciliazione di cristianesimo e (neo)platonismo, conciliazione che trovava una legittimazione nella dottrina della “prisca theologia”. Riguardo a questa importante tradizione è da sottolineare la tesi di Hankins, secondo il quale, e contro una consolidata interpretazione, essa sarebbe stata elaborata da Ficino indipendentemente dalla dottrina di Pletone (p. 396).
Come gli umanisti che lo avevano preceduto, anche il filosofo fiorentino non si era avvicinato a Platone disinteressatamente. Infatti Marsilio si era servito dell’auctoritas dei testi platonici a fini pedagogici, non per comprendere il Platone storico.
Il libro termina con una breve conclusione (pp. 503-511), che ripercorre i temi principali affrontati cercando di riassumerne il significato: “L’ermeneutica rinascimentale, come quella medievale, si proponeva compiti in larga misura edificanti, non critici […] lo scopo principale degli studiosi non era appurare il significato originale di un autore o l’eventuale attendibilità delle fonti” (p. 509). Il metodo ermeneutico rinascimentale, per quanto evoluto potesse essere, era intrinsecamente limitato e impossibilitato a “criticare” e demolire i miti storici che fondavano l’autocoscienza della cultura rinascimentale; risultava inadeguato a comprendere la distinzione tra i preconcetti su un dato fenomeno e ciò che il fenomeno è nella realtà. Tali limiti erano dovuti al fatto che gli umanisti vedevano il mondo antico filtrato attraverso le proprie convinzioni morali, religiose e utilitaristiche. In altre parole essi non assunsero un punto di osservazione moralmente neutro e ricorsero a considerazioni extratestuali per cogliere il significato del testo. Con queste considerazione Hankinsha proposto un nuovo punto di vista sul senso storico-critico degli umanisti e sul significato che gli studi classici rivestivano per essi, demolendo il mito degli umanisti come padri fondatori della moderna critica storica e della filologia come scienza. Questo atteggiamento, assieme allo stato poco avanzato del metodo storico-critico, spiega come possano esser state elaborate interpretazioni dei dialoghi platonici che oggi risultano se non addirittura bizzarre, almeno non obbiettive. Senza la ricerca storica, che ha fornito un contributo fondamentale allo sviluppo della vita intellettuale, conclude Hankins, il mondo moderno non avrebbe un rimedio ai miti e alle credenze ereditate dal passato e create quotidianamente.
Per terminare è d’uopo qualche osservazione più precisa sull’edizione italiana. La traduzione è molto valida, Baldassarri e Downey sono riusciti a rendere anche in italiano la piacevole e brillante prosa di Hankins, evitando quelle trasposizioni talmente letterali, presenti in molte traduzioni, che ricalcano i costrutti tipici della lingua di partenza. I due traduttori hanno inoltre provveduto ad integrare nelle note gli aggiornamenti bibliografici, resisi necessari visto il tempo intercorso tra la prima edizione inglese e la traduzione italiana. Sono stati eliminati anche alcuni errori, come a p. 82 n. 27, dove l’errato “Simone Autumano” (ed. ingl. p. 41 n. 24) è corretto in “Simone Atumano”; o ancora a p. 168 n. 3 “alto” è emendato in “alio” e “iddem” con “idem”.
Permangono però le imprecisioni dell’edizione inglese relative all’ortografia e all’accentuazione delle parole greche, già segnalate per l’edizione del 1990 da Luc Deitz (in Renaissance Quarterly, vol. 45, n. 3 [1992], p.552) e Nigel G. Wilson (in Studi umanistici, vol. 3 [1992], pp. 260). Siano sufficienti alcuni esempi: p. 296 il plurale di πάθος è πάθη e non πάθοι; p. 215 non ἐν τῇ, ma ἔν γε τῇ; a p. 337 non è πολὺ ἧττων, ma πολύ ἥττων; p. 90, n. 42, p. 179, n. 20, p. 249, n. 8, p. 290, n. 85.
Come detto all’inizio, La riscoperta di Platone nel Rinascimento italiano rende fruibile ai lettori italiani solo il primo dei due volumi dell’edizione del 1990. Manca infatti la traduzione del secondo volume, contenente il materiale di supporto che amplia quanto detto nella parte monografica. Questo secondo volume consta di: I) venti appendici relative a tematiche affrontate nel primo volume, sulle quali Hankins ha preso posizione rimandando ad esse per gli approfondimenti, per le argomentazioni e le prove testuali; II) 104 testi (prefazioni, epistole, proemi, argumenta), alcuni dei quali inediti, riguardanti i traduttori di Platone nel XV secolo; III) un censimento di tutti i manoscritti noti e le edizioni a stampa di Platone tra il 1400 e il 1600. È superfluo sottolineare l’utilità di tale volume, non solo perché fornisce materiale prezioso per future ricerche (in particolare le sezioni II e III), ma in quanto costituisce una completamento del volume monografico, come afferma Hankins nella prefazione a questo secondo volume: “In the first volume I have sometimes, without argument, taken positions and assumed facts which are either controversial or unsupported by secondary authorities; in the Appendix section of the present [scil. second] volume I give the evidence and arguments by which I was led adopt those positions. There I also give such further information about the study of Plato in the fifteenth century as I was unable conveniently to incorporate into the monographic portion of the study”. L’utilità di questo secondo volume, di cui si auspica una futura traduzione, si apprezza anche in questioni meno astratte e più concrete. Esso infatti contiene gli indici dei manoscritti e, cosa più importante, gli indici dei nomi, che mancano nella versione italiana. Oltre agli importanti Addenda et Corrigenda al Volume I (1991), tra cui i più significativi (le pagine si riferiscono alla traduzione italiana) sono: p. 52 sostituire “sacra lectio” con “divina lectio”; p. 139 n. 129 correggere l’errato ὅστε con ὥστε; p. 465 cambiare “dociles sia indociles” con “docibiles sia indocibiles”; rimpiazzare l’errato “Karl Popper” con “l’antropologo Evans-Pritchard”. |