Michael Thöndl, storico e Politikwissenschaftler viennese, affronta in questo libro il problema del “Kulturexport” delle idee della rivoluzione conservatrice in Italia, più nel dettaglio il ruolo di Oswald Spengler durante il Ventennio fascista. Quello di Spengler è sicuramente un ruolo importante, in grado di collocare in una prospettiva poco comune l’altro interlocutore di questa ricostruzione e protagonista della storia d’Italia – Benito Mussolini, nelle vesti inconsuete di potenziale konservativer Revolutionär, lettore di Spengler, diffusore dei suoi scritti principali in Italia, suo recensore e perfino traduttore (pare). Spengler nutriva profonda ammirazione per il fascismo italiano e soprattutto per la figura carismatica di Mussolini, almeno quanta riluttanza, scetticismo e scarsa stima aveva per Hitler e il nazismo, definiti perfino “cannibali”. L’esperimento di accostare Spengler e Mussolini può avere senso tenenendo conto del loro contesto storico effettivo in cui si trovavano ad interagire, Spengler nel campo dello spirito, Mussolini in quello del politico: è l’epoca faustiana del tramonto dell’Occidente, che include l’avvento di una nuova epoca. È il contesto culturale che fa da sfondo teorico a questo accostamento, questo perché la cultura riflette sul tempo e sulle sue esigenze e richieste, sul suo sviluppo stesso, dando una precisa immagine di sé, crea altra cultura e, soprattutto, uno status di pensiero che forgia la Nazione, la società, i valori. In un’epoca estrema, di epocali sconvolgimenti, vita politica e vita culturale si confrontano con i propri prodotti e con le tendenze del proprio tempo: non era quindi del tutto inusuale, decidersi per opzioni “estreme”, sia nella politica che nella cultura, così nella filosofia.
Opzione “estrema” è, per esempio, quella della “rivoluzione conservatrice”, che investe soprattutto il campo della cultura e del politico: ma che cosa indica questa espressione? Si tratta di un ossimoro, un concetto che contiene in sé una spinta rivoluzionaria, una irruzione nel nuovo e del nuovo, verso nuovi valori che devono imporsi in un’epoca di crisi quali la Germania (l’Europa) del primo dopoguerra. L’altro termine dell’ossimoro, l’aspetto conservatore della rivoluzione, fenomeno europeo ma soprattutto tedesco nato in contrapposizione ideologica alla Repubblica di Weimar, non è quindi una reazione al presente per il presente, ancora meno una nostalgica considerazione nazionalistica del passato. Tutt’altro. L’aspetto rivoluzionario è esemplificato in una necessità di creazione assiologica, in quanto la rivoluzione conservatrice non vuole semplicemente preservare e mantenere una tradizione, ma imporne una nuova, così come porre nuovi valori in grado di creare una tradizione. «Essere conservatori significa creare cose, che valgono la pena di essere mantenute» – questa frase di Arthur Moeller van den Bruck, personaggio poco conosciuto in Italia, esponente della rivoluzione conservatrice e autore dello scritto Das Dritte Reich del 1923 (che, nonostante l’intenzione non nazionalsocialista, ebbe diffusione e risonanza proprio durante il Terzo Reich) esprime al meglio la carica rivoluzionaria di questa nuova specie di conservatorismo. Ma torniamo all’analisi di Thöndl.
Trovo di estremo interesse per il lettore italiano i capitoli due (“Das Konzept der ‘konservativen Revolution’ und seine Transfer nach Italien”, pp. 25-60) e quattro (“Spengler in Italien”, pp. 85-196). Il secondo capitolo inizialmente ricostruisce la genesi del concetto di rivoluzione conservatrice secondo la tipica divisione di Armin Mohler che, tra il 1949 e il 1953, fu anche segretario di Ernst Jünger. Mohler, che introduce e diffonde questo concetto nel dibattito storico-politico, pubblica nel 1950 la sua tesi di dottorato (discussa l’anno precedente a Basilea con Jaspers e Schmalenbach) con il titolo La rivoluzione conservatrice in Germania 1918-1932. Lo scritto è diventato un classico sul tema, soprattutto per quanto riguarda le fonti di questo movimento non composito né organizzato, ripartito da Mohler stesso, tuttavia, in cinque sottogruppi (pp. 25 e sgg.): i Völkischen, i Jungkonservativen, i Nationalrevolutionäre, i Bündischen e, infine, coloro che si rifanno alla Landvolkbewegung. Sono distinzioni labili, raramente ben marcate, a volte contraddittorie e spesso gli stessi esponenti della rivoluzione conservatrice possono essere inclusi contemporaneamente in più gruppi. Mohler individua circa 360 diversi autori che possono essere ascritti alla rivoluzione conservatrice; non solo tedeschi, tra questi include, per esempio, anche gli italiani Vilfredo Pareto e Gaetano Mosca. «La tesi di Mohler sostiene che autori così diversi tra loro come, per esempio, Ernst Niekisch e Oswald Spengler, Ernst Jünger e Otto Strasser, Houston Stewart Chamberlain e Thomas Mann […], Adolf Lanz alias Jörg von Liebenfels e Harro Schulze Boysen, disposero di una convinzione fondamentale comune che giustificherebbe l’inclusione di essi nel concetto o almeno nell’ambito della “rivoluzione conservatrice”» (p. 27). A seguire (pp. 31-33) Thöndl cita e chiarisce la critica a Mohler di Stefan Breuer che, sia in Italia che in Germania, venne recepita e commentata. Nel 1993 Breuer nel suo libro Anatomie der Konservativen Revolution (trad. it. La rivoluzione conservatrice. Il pensiero di destra nella Germania di Weimar, Donzelli, Roma 1995) critica, in primo luogo, l’artificiosità del termine “rivoluzione conservatrice”, in secondo luogo ritiene insostenibile la pretesa della lettura mohleriana di subordinare un determinato gruppo di autori ad un unico e comune concetto generale. Thöndl riconosce il merito di Breuer nell’aver individuato le debolezze della costruzione di Mohler, tuttavia, con la sua concezione alternativa di “nuovo nazionalismo”, non viene a capo della loro eliminazione.
Thöndl espone, quindi, una breve ricostruzione della recezione del dibattito tedesco circa la rivoluzione conservatrice in Italia (pp. 33-37), citando autori come Maurizio Serra, Antonio Giuseppe Balistreri, Alessandro Campi, nonché la rivista “Futuro presente”, che nel 1996 dedicò un numero monografico alla rivoluzione conservatrice. Le pagine 38-54 (così le pp. 161-169) sono dedicate ad un grande interprete e diffusore del pensiero e dell’opera di Spengler: il barone siciliano Julius Evola (1898-1974) trapiantato poi a Roma, pensatore “non convenzionale”, ex artista dadaista e astrattista, esperto di esoterismo e dottrine orientali, anti-democratico, anti-moderno, pubblicista polemico, con un ambiguo rapporto nei confronti del fascismo, traduttore e curatore della prima edizione italiana del Tramonto di Spengler (1957), così, nel 1965, del volume di Jünger Al muro del tempo e, soprattutto, autore del vasto commento al fondamentale lavoro jüngeriano del 1932, L’Operaio: L’«Operaio» nel pensiero di Ernst Jünger (1960). L’ammirazione per Spengler, in ogni caso, non impedisce al barone di prendere posizione contro alcune sue tesi: benché l’atmosfera di disfacimento e di declino di una intera civiltà sia in parte molto simile, l’autore del Tramonto ritiene la decadenza dell’Occidenteinevitabile, mentre Evola, da una prospettiva forse più anti-moderna che si riallaccia alla Tradizione e all’esoterismo e, quindi, meno ad una concezione “morfologica” e “biologica” dell’evoluzione della civiltà, ritiene che questo processo di decadenza, tramite una “rivolta”, sia potenzialmente reversibile: «La rivolta contro il mondo moderno in quanto sovvertimento nel senso della preservazione e del risveglio di atteggiamenti e valori tradizionali» (p. 53). Nella prima edizione della Rivolta contro il mondo moderno (1934), Evola afferma perfino che fascismo e nazismo potrebbero, in quanto “contro-movimenti”, invertire la rotta di decadenza dell’Occidente (p. 165).
Thöndl dedica, quindi, qualche pagina a Marcello Veneziani, giornalista, saggista e scrittore della “nuova destra” italiana. Veneziani sostiene che «il fascismo sia stato il punto culminante della “rivoluzione conservatrice” in Italia» (p. 54) e che quest’ultima si sia imposta in questo paese ben prima che in Germania, anche per merito di Mussolini stesso, «l’esponente più importante della “rivoluzione conservatrice italiana”» (p. 56). Oltre ad Evola, Veneziani inserisce nella rivoluzione conservatrice italiana il giornalista, scrittore ed editore Giuseppe Prezzolini, come i filosofi Giuseppe Rensi, Giovanni Gentile e Augusto del Noce.
L’altro capitolo rilevante è il quarto, il fulcro dell’intero libro: la questione Spengler in Italia e Mussolini suo lettore, diffusore, recensore (nel 1933 recensì Anni decisivi) e perfino “co-curatore” di uno scritto di Richard Korherr, Regresso delle nascite: morte dei popoli (1928), apparso in edizione italiana con prefazioni, appunto, di Spengler e Mussolini. All’epoca, e per la precisione per tutta la prima metà del XX secolo, l’intellettuale di riferimento della cultura italiana era Benedetto Croce (Thöndl dedica invece scarsa considerazione all’altro grande filosofo italiano – e filosofo ufficiale del regime – di questo periodo, ovvero a Giovanni Gentile, citato ma non discusso). Il filosofo di Napoli fungeva da centro di raccolta delle nuove tendenze filosofiche europee. La recezione di Spengler in Italia deve essere, di conseguenza, contestualizzata sullo sfondo di una situazione politica particolare dell’epoca e dell’Europa tutta, non solo dell’Italia e della Germania. Croce, di impostazione liberale, fu fin da subito tendenzialmente scettico e ostile circa l’approccio di Spengler. Mussolini, per contro, incarnava il polo contrapposto alla posizione di Croce nei confronti del filosofo del Tramonto. Una lettera del 3 novembre 1919 di K. Vossler a Croce richiama l’attenzione del filosofo napoletano su Spengler, che aveva appena pubblicato la quarta edizione del primo volume del Tramonto. Mentre Vossler sembra entusiasta, nonostante alcune riserve di fondo («Molte cose ti piaceranno molto, altre, proprio come ho fatto io, le rifiuterai in quanto naturalismo mistico. In ogni caso rimane un libro molto interessante, mezzo geniale, mezzo da dilettanti, dal quale si ricevono nuovi e forti stimoli»), Croce non lo è affatto, colto da una sorta di “sdegno” che indirettamente Thöndl sembra attribuire a quel “provincialismo culturale” di cui anche il filosofo napoletano (cfr. in particolare pp. 85-104) soffrirebbe, d’accordo in ciò con lo stesso Spengler, il quale aveva già rivolto ad altri storici questa accusa di provincialismo. Nella lettera di risposta del 21 dicembre 1919 Croce replica di dover riconoscere che il successo di libri come questo lo addolorano, poiché totalmente «antimetodici, al di fuori di ogni tradizione scientifica, pretenziosi di aver scoperto qualcosa di nuovo (quando le loro scoperte sono invece materiale secolare), pieno di fantasticherie che vengono presentate come risultati scientifici […]» (p. 89). Poco tempo dopo Croce, su questa linea, recensì per “La Critica” (18/1920, pp. 236-239) lo scritto di Spengler.
Spengler venne diffuso in Italia grazie all’edizione italiana di due suoi scritti, come grazie a recensioni e brevi saggi dedicati alla sua filosofia. Nel 1931 è pubblicata in Italia, appena due mesi dopo l’uscita dell’edizione tedesca, il testo rielaborato di una conferenza tenuta da Spengler presso il Deutsches Museum di Monaco: Der Mensch und die Technik. Beitrag zur Philosophie des Lebens (trad. it. L’uomo e la macchina. Contributo ad una filosofia della vita). Anche questo breve scritto, nell’edizione tedesca, venne recensito da Croce per “La Critica” (30/1932, pp. 57-60). Il secondo (ed ultimo) libro di Spengler pubblicato in Italia durante l’era fascista fu Jahre der Entscheidung (trad. it. Anni decisivi, 1934), già recensito – nella sua edizione tedesca dell’agosto 1933 – dallo stesso Duce per “Il popolo d’Italia” (15 dicembre 1933, n. 297). Lo scritto principale di Spengler, tuttavia, Il Tramonto dell’Occidente, venne pubblicato in italiano solamente nel 1957 a cura di Evola, come si è già detto. Nel primo dopoguerra la cultura e filosofia italiana si mostrano interessate a Spengler e ai suoi scenari di crisi: Adriano Tilger, ad esempio, nello scritto Relativisti contemporanei (1921) dedicò una parte dello studio a Spengler, spiegando che egli aveva intuito il carattere “faustiano” della moderna civiltà capitalistica ben prima del filosofo tedesco, quando perfino il suo nome gli era del tutto ignoto. Le due edizioni italiane di Spengler, L’uomo e la macchina e Anni decisivi (1931 e 1933), sembrano essere state promosse da Mussolini stesso in parte deluso dal parziale successo editoriale dell’impresa (cfr. pp. 90-92).
Se escludiamo due monografie italiane dedicate al filosofo (quella di Vittorio Beonio-Bocchieri del 1928 e di Lorenzo Giusso del 1935), la recezione di Spengler in Italia è perlopiù dovuta a recensioni e a brevi saggi. Nella recezione italiana di Spengler è, secondo Thöndl, comunque Croce a giocare ilruolo decisivo, tanto che l’Autore dedica svariate pagine a questo confronto (pp. 93-104). I lineamenti fondamentali della recensione e della critica già ricordata di Croce al Tramonto di Spengler sono resi dall’Autore in tre punti: l’opera «“Il Tramonto dell’Occidente” è 1. un’opera di un dilettante, 2. dal punto di vista speculativo l’opera è scritta in maniera scientificamente inammissibile, 3. contraddistinta da una precisa tipologia di Weltanschauung, il naturalismo, che dà costantemente l’occasione di considerazioni pessimistiche» (p. 93). La critica di Croce è netta e diretta: Spengler è un “dilettante”, poiché si arroga il diritto di proporre problemi da una prospettiva completamente nuova che, secondo Spengler, non ha esempi né precedenti nella ricerca scientifica. Croce, così riporta Thöndl, afferma che Spengler pretende «[…] ad ogni sgangherata combinazione di concetti che egli esegua o ad ogni mezza verità che gli baleni nel cervello, di aver compiuto scoperte mirabili, che sconvolgono la scienza generalmente ammessa: l’incauto asserire dello pseudoscienziato va così a braccetto con la più audace sicurezza e vanteria di sé medesimo» (“La Critica”, 18/1920, p. 236). La “morfologia della storia”, osserva Croce, non è un approccio originale di Spengler, bensì un’antica intuizione arricchita in seguito di concetti filosofici da Giambattista Vico, del quale Spengler non sembra avere idea, come non sembra essere a conoscenza dei dibattiti circa il filosofo di Napoli da due secoli a questa parte. La prospettiva di Spengler, continua Croce, che profetizza l’incombere sull’Occidente, in analogia con altre antiche civiltà già tramontate, di un’epoca di conquista, di espansione e di barbarie, non si basa su nessun metodo scientifico sostenibile, essendo semplicemente una “speculazione”. Croce rimprovera Spengler di “scioccheria”: «Tutto può accadere nel mondo, e anche che, dopo il 2200, i nostri pronipoti tornino alla selva dei nostri lontani progenitori. Ma asserire ciò come fatto certo in base ad “analogie” (e fossero anche condotte con quella dottrina, quel discernimento, quello scrupolo, che il signor Spengler non possiede), è dire una scioccheria, che non produce altro effetto se non quello, proprio di tutte le scioccherie, di confondere le menti e deprimere gli animi» (ivi, p. 238). Croce con un filtro forse un po’ esclusivo colloca Spengler nelle file del naturalismo, rimproverando, tuttavia, al filosofo di non aver compreso la vera essenza dell’uomo, poiché egli non è affatto naturalità, ma “spiritualità”. L’uomo infatti è «spiritualità e perciò creatività, e ha in sé una infinita potenza che gli rende possibile affrontare e superare e trasformare tutte le situazioni, per difficili o disperate che sembrino» ”(Ivi, p. 238 e sgg). La posizione profetica e pessimista di Spengler, secondo Croce, è complessivamente un “riflesso” dell’epoca di crisi che sta cogliendo al momento la Germania. Croce, così, relativizza la crisi “europea”, “mondiale” secondo Spengler, in una crisi interna alla Germania, causa la sconfitta nel primo conflitto mondiale, le dure sanzioni imposte dai vincitori, la Repubblica fantoccio di Weimar e l’avvento del nazismo (cfr. p. 95). Thöndl riporta il giudizio del filosofo Rensi circa Croce: il filosofo di Napoli scrive i suoi libri come un dogmatico che pretende di chiarire tutto. La filosofia di Spengler, al contrario, afferma Rensi nel 1923, è puro anti-“Crocismo”, in quanto trasmette in modo brillante conoscenze “generali” allora in voga.
La recezione di Croce del pensiero di Spengler, tuttavia, non si limita a due recensioni e a qualche riga sparsa e critica qua e là. Dietro a questa ostilità di fondo, in una fase più tarda della recezione di Spengler da parte di Croce, si cela qualcosa di “estraneo” che incarna lo sconcerto per le fosche diagnosi di Spengler, le quali non sembrano più essere visioni pseudo-scientifiche di un visionario dilettante. Thöndl, in questo contesto, cita un passo del saggista Massimo Ferrari Zumbini, che in uno scritto del 1975 si espresse così circa Croce lettore di Spengler: «Anche altri passi dimostrano come Croce abbia più volte pensato a Spengler con un sentimento di ripugnanza, ma anche con un non taciuto timore che le sue “profezie” diventassero realtà» (p. 100). Con Spengler le certezze, un tempo ovvie circa l’esito positivo del progresso umano, iniziano ad andare in crisi, un mondo inizia a vacillare e a Croce si prospetta un futuro potenzialmente “barbaro”, contenente in nuce la caduta dell’Italia e dell’Europa nell’abisso del nichilismo e della violenza. È quanto si intuisce, per esempio, già in una lettera di Croce a Giovanni Ansaldo del 20 febbraio 1920, che tratta il lavoro crociano Storia d’Italia dal 1871 al 1915 (pubblicato nel 1928). L’esperienza della storia in questa lettera assume un significato non proprio ottimista, poiché se Croce ha la possibilità di dominare e conoscere il passato, non riesce però a pensare il futuro del primo dopoguerra, in quanto una “linea generale” del nuovo periodo sembra non prospettarsi ancora, essendo del tutto ignota: «[…] non potendo scrivere ove non posso segnare una linea generale, mi rifiuto a continuare la storia dopo il ’15. La marcia su Roma e la politica dell’Aventino le conosco bene, ma dove condurranno? L’Italia darà […] l’esempio dell’irrigidimento bizantino, di cui Spengler crede minacciata la vita europea? O ne uscirà più forte e liberale, come io spero? Questo né io né altri potrebbero storicamente stabilire, perché la storia è del passato e non del futuro» (pp. 100-101). Thöndl non fa comunque riferimento all’ultima fase del pensiero di Croce, che abbandona in parte l’ottimismo e trova più difficilmente conciliazione.
Lo scritto di Thöndl, nonostante qualche omissione o punto che sarebbe stato da approfondire, è notevole e dettagliato dal punto di vista storico-politico e merita attenzione anche da parte del pubblico (più) filosofico. Meriterebbe anche una edizione italiana, poiché lavoro che fa da “ponte” tra Italia e Germania, quindi tra filosofia, teorie politiche, storia delle idee e storia del XX secolo di questi due paesi, divenendo uno dei tanti “passaggi obbligati” per chi si occupa del fenomeno globale “fascismo europeo”. La documentazione proposta è ampia, ben organizzata e con una sistematicità di fondo. Qualche scelta dell’autore, dicevo prima, penalizza forse l’impianto generale dell’opera, orientata di più verso la storia politica e “meno” in direzione della filosofia, si pensi alla scarsa attenzione per Gentile, già ricordata. Il tralasciare Gentile potrebbe avere una giustificazione nel fatto che il filosofo italiano non si è espresso chiaramente circa questa temperie culturale rivoluzionar-conservatrice, così circa Spengler in riferimento alla cultura italiana. Altro punto discutibile di Thöndl è il fatto di aver solo accennato all’accusa di “naturalismo” rivolta da Croce a Spengler, che ha una specificità propria rimasta inesplorata nel volume: in sintesi, il lettore- filosofo avverte l’esigenza di una “immersione” più filosofica nel problema e nel “carattere” di quel tempo, sia in Italia che in Germania.
Per concludere ricordo che le ricostruzioni di Spengler circa l’Occidente, in gran parte ambigue e “scomode” alla cultura a lui contemporanea, vengono paradossalmente riassunte al meglio nel numero della rivista “Logos” (1920/1921), dedicato interamente all’analisi e critica, spesso radicale, del Tramonto di Spengler da parte della cultura scientifica “accademica” (nel duplice significato di questo termine) dell’epoca, che fece fronte comune contro l’opera “catastrofale” di Spengler, tacciata di errori storici, dilettantismo e superficialità, interpretazioni non legittime e fuorvianti. Lettura, quella della rivista “Logos”, colpevole, secondo Karl Löwith, di non aver compreso che, nonostante tutto, Spengler avesse ragione. Scrive Löwith nel suo noto La mia vita in Germania prima e dopo il 1933: «ognuno [gli specialisti della cultura accademica intervenuti in “Logos”] rilevò una quantità di errori e di lacune rispetto al proprio settore specialistico, ma nessuno discusse l’insieme dell’opera, perché istintivamente erano tutti convinti della sua verità, malgrado la loro superiorità scientifica nel dettaglio».
Uno scritto diagnostico dell’Occidente, che riassume l’atmosfera culturale del primo dopoguerra e anticipa (o… profetizza), per alcuni aspetti quella del secondo, non può non essere che “scomodo”, non può che essere un tramonto in attesa di una nuova alba dell’Europa. |