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L. Marcon, Kant e Leopardi. Saggi , Guida, 2011
di Massimiliano Biscuso

Loretta Marcon ha ormai al suo attivo diversi lavori dedicati a Giacomo Leopardi; si è soffermata in particolar modo sulla lettura – precoce ma con effetti duraturi nel tempo e perciò ritenuta a ragione assai importante per la maturazione del pensiero del Recanatese – di due scritti veterotestamentari, il libro di Giobbe e l’Ecclesiaste (mi riferisco alle due monografie uscite entrambe per Guida: La notte oscura dell’anima: Giobbe e Leopardi, 2005, e Qohélet e Leopardi: l’infinita vanità del tutto, 2007). Nelle sue ricerche la studiosa segue una linea interpretativa che, al di là delle apparenze, gode in Italia di una duratura fortuna e di un consenso non piccolo: una interpretazione che abbiamo in altra sede definito “moderata”, in quanto negatrice della radicalità ateistica e materialistica del pensiero leopardiano. Oltre a questo argomento principale, in cui ha raggiunto i risultati più solidi, Marcon ha anche cercato di esplorare il difficile tema del rapporto tra Kant e Leopardi in alcuni saggi da poco raccolti in volume e riproposti ai lettori in forma immutata rispetto alla loro prima uscita, senza quindi avvertire l’esigenza di aggiornarne la bibliografia e di confrontarsi, sia pure criticamente, con altre interpretazioni sulla medesima questione nel frattempo pubblicate.
La silloge si apre con lo studio meno recente (1998) Leopardi conosceva Kant? (pp. 11-34), cui seguono l’inedito Leopardi e Kant: un poeta e un filosofo alle radici della loro formazione. Educazione familiare, Cattolicesimo razionalista e Pietismo (pp. 35-83), e “Incontro” sul limite: Kant e Leopardi del 2002 (pp. 85-104), e si chiude con il saggio del 2007 La ragione, il corpo, la vita. Kant, Hufeland, Leopardi (pp. 105-141). Nonostante Marcon, proprio alla fine del volumetto, rassicuri il lettore di aver avvicinato «il pensiero di Kant e la poesia di Leopardi […] senza nessuna volontà di proporre paralleli e/o cercare analogie» (p. 141) – l’autrice infatti sa bene che i paralleli possono risultare «assurdi» e le analogie «improbabili» (p. 108) –, fa invece proprio quello che avrebbe desiderato non fare: istituire paralleli e cercare analogie; un’operazione che, quando non contribuisce ad illuminare di nuova luce il profilo degli autori studiati, appare estrinseca. La studiosa paragona la concezione del “limite” di Kant e Leopardi; ne ricostruisce le rispettive fanciullezze, gli ambienti familiari e la primissima formazione, pubblica per Kant, domestica per Leopardi; infine studia il loro diverso atteggiamento nei confronti della macrobiotica, l’“arte di allungare la vita”, del medico tedesco Hufeland. Le conclusioni non sembrano purtroppo pari all’impegno e all’entusiasmo dimostrati. La presentazione della prima formazione dei giovanissimi Kant e Leopardi, a tratti anche viva, cerca di mettere in discussione alcuni luoghi comuni circa le relazioni tra Giacomo e i suoi genitori, ma giocata com’è tutta tra somiglianze e differenze finisce inevitabilmente per cadere nella tentazione di trovare «qualche sorprendente punto di contatto» (p. 37) che non spiega nulla. Sfugge il fine di una tale operazione, a meno che esso non sia quello di ricordarci il rigorismo delle rispettive educazioni religiose, che portarono entrambi al distacco dalle forme di cristianesimo soffocante e malinteso in cui furono educati, ma al tempo stesso alla formazione della loro forte personalità morale. Analogamente i risultati raccolti dal terzo saggio non sembrano rilevanti: «Kant […] parte da un atteggiamento positivo circa il “prolungare la vita”; Leopardi, invece, si pone decisamente al lato opposto pensando che prolungare una vita infelice non sia certo una cosa desiderabile. I due pensatori però approdano alla medesima constatazione circa l’insensatezza del tentativo di allungare una vita che non sia più degna di essere vissuta» (pp. 134-135). Di nuovo: differenze e somiglianze. Più promettente l’indagine sulla nozione di “limite” nel filosofo della Ragion pura e nel poeta dell’Infinito: effettivamente in entrambi si dà il problema del nesso tra la radicale finitezza del soggetto conoscente e desiderante e la sua costitutiva vocazione a trascendere il limite della propria natura. Ma invece di impostare il confronto – che è, come detto, la modalità di indagine propria di questi saggi – sulla base della comune relazione con la tradizione empirista del pensiero moderno (come ad es. ha tentato di fare, con qualche forzatura, Bortolo Martinelli: cfr. il saggio del 1980 Il «colle» e la «siepe»: gli archetipi dell’Infinito, poi ristampato in Leopardi tra Leibniz e Locke. Alla ricerca di un orientamento e di un fondamento, Carocci, Roma 2003, pp. 227-287, mai preso in considerazione qui), l’autrice preferisce insistere sui due tasti dell’analogia e della differenza: l’uomo di Kant e Leopardi si sente «come sospeso tra il nulla e l’infinito, attratto da un richiamo cui, a volte, non sa dare il nome; un richiamo che gli proviene da quell’inattingibile di cui parla Kant e che viene catturato dal poeta, mentre il filosofo, gravato di quel peso che si chiama ragione, mai potrà afferrare, poiché legato alla sensibilità» (p. 103). E con questa celebrazione pascaliana della superiorità del cuore sulla ragione il saggio si chiude.
Qualche maggiore attenzione alla letteratura critica avrebbe forse contribuito ad una interpretazione più approfondita del rapporto Kant-Leopardi. Certo, tenere presente l’immensa letteratura secondaria su Leopardi è, obbiettivamente, impossibile, e a tutti è accaduto, dopo aver licenziato un lavoro, di accorgersi che qualche studio è sfuggito. Ma appunto una seconda edizione può dare l’occasione di colmare le lacune della prima. Marcon non sembra però preoccuparsi troppo di ciò e non aggiorna la bibliografia. Così, è del tutto legittimo citare solo di sfuggita il mio saggio su Leopardi e Hufeland (p. 132, nota; cfr. M. Biscuso, Leopardi: Dialogo di un Fisico e di un Metafisico. Arte di prolungare la vita o arte della felicità?, in www.giornaledifilosofia.net/public/filosofiaitaliana/pdf/saggi/Leopardi_Hufeland.pdf, 2006), ritendolo implicitamente di scarso interesse; non sembra invece legittimo ignorare completamente due studi che in quel saggio erano citati e che si annoverano tra i pochi contributi su quegli argomenti: il mio Leopardi, Kant e il paralogismo del sublime (in “Quaderni Materialisti”, 2, 2003, pp. 123-154), e quello di M. Conforti, Leopardi e la medicina: prolungamento della vita e concetto di morte (in G. Stabile, a cura di, Giacomo Leopardi e il pensiero scientifico, Fahrenheit 451, Roma 2001, pp. 121-142; Maria Conforti ha ulteriormente ampliato l’indagine in L’ignuda morte delle mummie di Federico Ruysch: sapere del corpo e poesia in Giacomo Leopardi, in “Medicina nei secoli”, 22, 2010, 1-3, pp. 163-180). Come non è legittimo citare uno solo dei saggi che compongono il libro di Liana Cellerino (L’io del topo. Pensieri e letture dell’ultimo Leopardi, La Nuova Italia Scientifica, Roma, 1997), uno studio fondamentale nella sua interezza per la comprensione del rapporto Kant-Leopardi.
L’insufficiente confronto con la letteratura secondaria ci permette di passare all’ultimo aspetto della silloge. Rimane infatti ancora qualcosa da dire sul problema della conoscenza del pensiero kantiano da parte di Leopardi e sull’uso delle fonti leopardiane. Marcon conclude correttamente su una conoscenza indiretta del pensiero di Kant (sembra infatti esclusa la lettura dei testi kantiani, dato che Leopardi non era in grado di leggere il tedesco né risulta in alcun modo che abbia preso visione della prima traduzione della Critica della ragion pura, uscita tra il 1820 e il 1822 a cura del medico pavese Vincenzo Mantovani), ma non distingue esplicitamente tra fonti sicuramente lette, fonti probabilmente lette e infine fonti di cui è possibile solo congetturare la lettura o la consultazione; né dà molto peso ai diversi periodi in cui le letture, vere o presunte, sono avvenute. Così si elencano De l’Allemagne di M.me de Stäel, letta all’inizio degli anni Venti; La filosofia di Kant esposta ed esaminata da F. Soave (Modena 1803), la cui lettura non è attestata; la recensione di Romagnosi alle Lettere filosofiche su le vicende della filosofia relativamente ai principi della conoscenza umana da Cartesio fino a Kant inclusivamente di Galluppi, apparso sulla “Biblioteca Italiana” (1828-29), rivista che Leopardi leggeva; La storia della filosofia moderna di J.G. Buhle tradotta da V. Lancetti tra il 1821 e il 1825, che il Recanatese ha sicuramente consultato, ma non sappiamo se per intero e solo parzialmente, durante il soggiorno bolognese. Alle letture vanno aggiunte le notizie sul pensiero kantiano che Leopardi avrebbe potuto apprendere da contatti personali: Marcon ricorda personaggi come Niebuhr o Bunsen e altri ancora, e Ottavio Colecchi, traduttore di Kant e presente a Napoli negli stessi anni in cui vi soggiornò Leopardi, menzionato in nota in un successivo saggio (p. 85). In effetti sulla relazione tra Leopardi e Colecchi andrebbe condotta un’indagine specifica, che potrebbe restituirci un quadro più ricco del rapporto tra Kant e Leopardi e portare ulteriore luce sul periodo napoletano.
A patto di abbandonare il facile gioco delle analogie e delle differenze.

PUBBLICATO IL : 31-12-2010
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