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Guido Verucci, L'eresia del Novecento. La Chiesa e la repressione del modernismo in Italia , Einaudi, 2010
di Alessandro Aprile

Il nuovo lavoro di Guido Verucci è il frutto di una ricerca condotta prevalentemente su materiale inedito conservato presso l'archivio della Congregazione per la dottrina della Fede e riguardante uno dei fenomeni più importanti, e discussi, nella storia della chiesa cattolica del XX secolo: il modernismo. L'apertura stabilita nel 1998 degli archivi della suddetta Congregazione, che nel 1965 sostituì l'antico Sant'Offizio, ha dato nuovo impulso alla ricerca storica, permettendo di conoscere in maniera dettagliata l'attività repressiva  messa in atto dalla chiesa di Roma contro quella che, non casualmente, Verucci definisce “l'eresia del Novecento”. Il volume contribuisce infatti a far luce sulle modalità dell'antimodernismo e sulle continuità, o discontinuità, con le quali la chiesa di Roma affrontò la “questione modernista” anche quando gli anni più violenti della crisi, inquadrabili storicamente nel pontificato di Pio X (1903-1914), sembravano ormai superati.
            Guido Verucci prende in esame un periodo storico piuttosto ampio, dagli ultimi anni del pontificato di Leone XIII (1878-1903) fino all'elezione al soglio pontificio di Pio XII (1939-1958). Tematicamente lo studio rimane circoscritto all'esame di documenti relativi ai “casi” di modernismo in Italia, e indaga con premura anche i rapporti di collaborazione, e talvolta anche scontro, tra le Congregazioni del Sant'Offizio e dell'Indice e l'autorità papale nell'attività antimodernista.
            Parallelamente ad una dettagliata ricostruzione di procedimenti di censura, di indagine o “semplice” controllo, di cui furono vittime alcune figure tradizionalmente meno note del modernismo italiano (si vedano in proposito i capitoli III e IV), un posto di rilievo viene offerto dal volume alla lunga vicenda inquisitoriale di Ernesto Buonaiuti (1881-1946), giustificato se non altro dalla presenza di una notevole quantità di documenti a lui relativa conservata presso l'archivio dell'ex Sant'Offizio.
            Uno dei fulcri intorno ai quali ruotò, anche, la “questione Buonaiuti” fu – come ben dimostra Verucci – la cattedra di storia del cristianesimo presso l'Università di Roma. Già alcuni anni prima questo insegnamento aveva allarmato gli ambienti vaticani, non solo per la sua stessa istituzione (avvenuta nel 1886 con il nome di Storia delle religioni, poi cambiato l'anno successivo) ma anche per il primo docente incaricato, l'ex sacerdote Baldassarre Labanca (1829-1913), del quale la Congregazione dell'Indice aveva condannato il volume Gesù Cristo nella letteratura straniera e italiana (1903), perché troppo vicino a studi moderni sulla figura del “Cristo storico” e che fu, probabilmente, la prima condanna italiana (pp. 21-22). La morte di Labanca nel 1913 aveva reso vacante la cattedra di Storia del cristianesimo, la quale fu messa a concorso nel 1914 con l'esplicita sottolineatura da parte del ministro della pubblica istruzione d'allora, Edoardo Caneo (1851-1922), della «grande importanza di un insegnamento storico-critico che si opponesse alle scuole dogmatiche del Vaticano» (p. 67). Si presentò al concorso una “rosa” molto particolare di candidati: oltre a Buonaiuti, il quale era stato già costretto a lasciare l'insegnamento di storia della chiesa presso il seminario dell'Apollinare a Roma, ed inoltre aveva già visto condannata parte della sua attività di studioso, Umberto Fracassini (1862-1950), già deposto dalla direzione del seminario di Perugia, Nicola Turchi (1882-1958), deposto dall'insegnamento nell'Istituto di Propaganda Fide, l'ex sacerdote Salvatore Minocchi (1869-1943), poi estromesso dal concorso e sostituito da Luigi Salvatorelli (1886-1974), ed infine Alfonso Manaresi, docente presso il seminario di Bologna, del quale il Sant'Offizio aveva già condannato un volume dal titolo L'impero romano e il Cristianesimo nei primi tre secoli (1910).
            La Congregazione del Sant'Offizio, informata nella seduta del 30 aprile del 1914 della candidatura dei quattro sacerdoti modernisti, era orientata a inibire la partecipazione di quest'ultimi al concorso, ma per decisione personale di Pio X, rispettata poi dal successore Benedetto XV (1914-1922), si preferì di aspettare l'esito del concorso e poi intimare al vincitore la rinuncia. Ernesto Buonaiuti vinse e fu nominato professore “straordinario” con decreto del 19 luglio 1915. La prima reazione degli ambienti vaticani alla vittoria di Buonaiuti fu ben sintetizzata dalle parole che il cardinale Louis Billot (1846-1931) inviò al Segretario di Stato, il cardinale Rafael Merry del Val (1861-1930): «Un nouveau scandale est sur le point d'éclater à Rome» (p. 69). Ma nonostante la drammaticità espressa da questa missiva, Benedetto XV si mosse con grande cautela nei confronti di Buonaiuti, frenando anche il Sant'Offizio dall'emettere subito una condanna. Il pontefice incaricò il cardinale vicario Basilio Pompili di ammonire Buonaiuti dell'obbligo di svolgere il suo nuovo incarico attenendosi al sentire della chiesa cattolica, ed inoltre dispose, sempre al Pompili, «che una persona di sua piena fiducia assistesse per un intero corso alle lezioni di Buonaiuti, per riferirgli ogni volta che gli fosse sembrato che le idee espresse “redoleant modernismum” (odorassero di modernismo), nel quale caso, il cardinale vicario ne avrebbe dovuto riferire al Sant'Offizio» (p. 71). E i problemi non si fecero certo attendere. La curia romana, oltre a criticare il discorso inaugurale del corso, condannò già l'anno successivo la “Rivista di scienza delle religioni”, fondata da Buonaiuti, e sospese quest'ultimo a divinis, interrompendo anche l'assegno che egli riceveva ancora dalla Santa Sede. Ma la condanna fu poco dopo revocata perché il sacerdote, con il benestare del papa, prestò il giuramento antimodernista (istituito da Pio X nel 1911).
            Ma già nel 1917 scoppiò un nuovo caso. Uscirono infatti litografate le lezioni di Buonaiuti, le quali furono subito esaminate dal Sant'Offizio, che le definì piene di «errori radicali» ed empie (p. 73). Buonaiuti fu convocato nel Vicariato di Roma e lì dichiarò che nel caso delle dispense universitarie l'esclusiva responsabilità era del compilatore e che era impossibilitato a riconoscere la paternità degli errori in esse contenute. Grazie ad una dichiarazione, verosimilmente rilasciata da Buonaiuti direttamente al pontefice, il quale la ritenne sufficiente, il sacerdote riuscì ad evitare un'altra sospensione a divinis. Se quindi dal canto suo Benedetto XV si mostrava più cauto di fronte al “caso Buonaiuti”, da parte parte dei cardinali del Sant'Offizio certo risultava più pressante il fatto che un sacerdote così intriso di modernismo potesse ancora celebrare messa. Questa differenza di comportamenti si prolungò per tutto il pontificato di Benedetto XV, mentre Buonaiuti continuò ad essere oggetto di controlli da parte di padre Mario Barbera de “La Civiltà Cattolica”, inviato da padre Enrico Rosa ad ascoltare le sue conferenze e lezioni. Nel 1921 venne emessa una nuova scomunica e di nuovo la sospensione a divinis nei confronti del sacerdote (pp. 81-83). Ma certamente anche la condanna, alla quale nuovamente Buonaiuti si sottomise, non eliminava l'altro importante problema per il Sant'Offizio, sul quale certo non poteva direttamente intervenire, e cioè che Buonaiuti insegnasse all'Università di Roma e continuasse da quella posizione una prolifica attività di studioso, oltretutto molto seguita dagli studenti.
            Nuovamente il Sant'Offizio, dopo un accurato e lungo controllo degli scritti e delle affermazioni pubbliche di Buonaiuti, lo dichiarava, il 18 marzo 1924, sospeso a divinis e gli interdiceva di continuare ad insegnare in materia attinente alla religione (p. 119). Di quest'ultimo provvedimento Buonaiuti non tenne conto e continuò il suo insegnamento universitario. Il 30 gennaio 1925 il Sant'Offizio deliberò per una drastica soluzione, e scomunicò il sacerdote vitando, privandolo del diritto di vestire l'abito ecclesiastico, e comunicò alla Segreteria di Stato la sentenza, affinché essa fosse mandata a esecuzione mediante l'autorità civile. Come ben commenta Verucci: «non erano ancora iniziate le trattative per il Concordato fra Chiesa e Stato fascista, ma la Chiesa già presumeva di tornare a esercitare sullo Stato quel braccio secolare che per secoli aveva sostenuto le sue spesso cruente sentenze» (p. 120). La questione Buonaiuti divenne quindi, verosimilmente, un problema diplomatico, tanto da spingere il ministro Pietro Fedele (1873-1943) a richiedere all'ex sacerdote, a nome del governo, la sospensione delle lezioni e l'assunzione di un incarico extra-accademico -che si concretizzò in un impiego presso la Biblioteca Vallicelliana di Roma -, al fine di facilitare le trattative con la Santa Sede, trattative che sfociarono, com'è noto, con i Patti Lateranensi del 1929. Anche se scosso fortemente dall'ultima scomunica maggiore, Buonaiuti continuò comunque negli anni successivi la sua attività di studioso pubblicando tra il 1942 e il 1943 la sua opera più importante, Storia del Cristianesimo in tre volumi, e scrivendo sui giornali dell'epoca. 
            Durante gli anni del pontificato di Pio XII, lontani ormai gli anni terribili della crisi modernista, ci fu, probabilmente per volere diretto del Segretario di Stato d'allora Giovanni Battista Montini (futuro Paolo VI), un tentativo di riconciliazione di Ernesto Buonaiuti con la Chiesa (capitolo V), ma a motivo dell'esplicita dichiarazione del Sant'Offizio, che riaffermava sul suddetto caso la propria esclusiva competenza, le trattative si protrassero a lungo, giungendo infruttuose fino alla morte di Buonaiuti, avvenuta il 20 aprile 1946.

            È sembrato opportuno, in questa sede, soffermarsi sulla “vicenda Buonaiuti”, al fine di offrire un esempio delle ricostruzioni storiche delle vicende che compongono il presente volume, il quale ha l'obbiettivo, come si legge nella premessa, d'«integrare la documentazione già esistente con quella oggi disponibile» (p. X). E proprio a fronte di questo utile proposito, non può certo che interrogare il lettore, il fatto che l'opera, per altro basata su una ricerca d'archivio e frutto del lavoro di un importante e affermato studioso, si presenti così spoglia di riferimenti dei documenti inediti, o editi, spesso ampiamente citati nel corpo del testo. Appare alquanto difficoltoso infatti poter esprimere un giudizio sul valore scientifico di questo volume, quando l'unico e breve riferimento alla documentazione inedita utilizzata lo si trova alla pagina 130. Questa non è questione marginale, bensì fondamentale, perché riguardante la struttura formale e il contenuto di un lavoro storico così complesso, che forse riveduto nei suoi necessari apparati può dare un maggiore contributo agli studi storici sul modernismo.

PUBBLICATO IL : 31-12-2010
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