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Markus Krienke (a cura di), Sulla ragione. Rosmini e la filosofia tedesca , Soveria Mannelli, 2008
di Stefania Pietroforte

Il volume che segnaliamo raccoglie gli atti del convegno dedicato a “Rosmini e la filosofia tedesca” tenutosi sul lago di Como nel 2005. Nella Prefazione all’edizione italiana dei testi, Markus Krienke e Giulio Noverino, rimarcano il fatto che il convegno sia stato preceduto da una Nota di riabilitazione del pensiero dello stesso Rosmini ad opera della Congregazione della dottrina della fede (2001) e sia stato seguito dalla beatificazione del Roveretano (2007), cosa che avrebbe ulteriormente sollecitato lo sforzo di ripensamento e approfondimento della sua opera filosofica. La precisazione, per la verità, avrebbe probabilmente rallegrato il “vero Rosmini”, come lo definì Benedetto Croce nel famoso dibattito che lo oppose al “Rosmini vero”, ma forse non avrebbe fatto altrettanto piacere a quest’ultimo, ché se il primo certo non sarebbe rimasto insensibile alla voce della Chiesa, per il secondo era sicuramente la voce della ragione quella che doveva essere chiamata in causa a giudicare la sua filosofia. Sicché uno studio di questa che esordisca premettendo la rassicurazione del favore della Chiesa lascia perplessi, non tanto per le intenzioni, senz’altro nobili, degli autori quanto riguardo alla tranquillità del loro animo.
         Dalla difficoltà di dar conto di un volume composto dai saggi di ben ventiquattro studiosi, appartenenti a diverse università e ambiti linguistici e filosofici, ci traiamo con un gesto arbitrario ma non inutile, scegliendo di esaminare il testo che funge da quadro teorico della raccolta: Rosmini e la filosofia tedesca. Stato della ricerca e prospettive, di Markus Krienke. E’ questo il contributo che fa da battistrada agli altri e che intende mettere in risalto il filo rosso che li unisce. E’ anche il contributo più ampio del volume e, con le sue circa settanta pagine, riassume e analizza la Wirkungsgeschichte del pensiero rosminiano dalla metà dell’Ottocento ai giorni nostri. Il fulcro centrale di questa storia non ha bisogno di essere determinato, di essere ricercato. Gli studi compiuti soprattutto negli ultimi decenni, dice Krienke, hanno ben stabilito che esso è rappresentato dal rapporto che il pensiero di Rosmini ha con la filosofia tedesca del suo tempo, in special modo con Kant e l’idealismo. Quegli studi infatti hanno appurato non solo «che Kant e l’idealismo sono punti di riferimento essenziali per Rosmini, ai fini del configurarsi e del successivo sviluppo del suo pensiero –fino alla Teosofia; che in tal modo essi sono presenti in tutta l’opera rosminiana nei punti essenziali e non emergono soltanto marginalmente», ma anche «che la determinazione del rapporto del pensiero di Rosmini coi principali esponenti del “pensiero tedesco” del suo tempo costituisce la problematica centrale della Wirkungsgeschichte della filosofia di Rosmini»(p. 31). Ciò significa che il rapporto con Kant e l’idealismo è stato, secondo Krienke, non solo elemento importantissimo perché la filosofia di Rosmini si costituisse quella che è, ma è stato anche la lente attraverso la quale i suoi interpreti e critici, e comunque tutti coloro che da 150 anni a questa parte si sono misurati con il Roveretano, hanno guardato al suo pensiero. Concretamente, però, qual è il significato di questa affermazione? Qual è il valore di questo rapporto di cui, sostiene Krienke, anche la ricerca, che pure l’avrebbe riconosciuto e fissato, «non si è ancora resa conto fino in fondo»(p. 31)?
         Tre sono le fasi attraversate dalla Wirkungsgeschichte rosminiana: la prima è rappresentata, dice Krienke, dai contrasti emersi quando Rosmini era ancora vivo e attivo; la seconda, la più lunga, va dalla sua morte fino alla metà del Novecento; la terza, infine, copre l’arco temporale che dalla metà del Novecento giunge fino ai giorni nostri. Però, avverte l’autore, proprio negli ultimi anni si sarebbe aperta una nuova, quarta, fase.
         Della prima fase occorre rilevare che essa fu caratterizzata dall’attenzione per il Nuovo saggio sull’origine delle idee(1830), testo che il mondo filosofico italiano avvertì come l’ingresso di una vera e propria novità. Una tradizione sostanzialmente empirista (con elementi platonici), che Krienke delinea come l’asse Aristotele-Bacone-Galilei-Locke, e la presenza molto significativa del sensismo di Condillac erano lo scenario nel quale l’interesse per Kant, che si era acceso in Italia nei primi trent’anni dell’Ottocento, trovava un freno non di poca cosa. Fu proprio il Nuovo Saggio a rappresentare uno scossone che, se non diede il crollo all’esistente, impose la problematica della filosofia trascendentale come discorso filosofico ineludibile. Vero è che Rosmini era stato in parte già anticipato da Galluppi su questa strada. Ma quelle anticipazioni erano state troppo deboli. Per questo Spaventa scrisse: «“Rosmini ha veduto molto più a dentro nella questione, e si è accorto come Kant, che un intelletto senza forma non è vero intelletto. Oltre a ciò, se fosse vera la sua esposizione del principio della dottrina di Kant, bisognerebbe dire che egli lo ha criticato con un principio superiore. Il Rosmini, ammettendo una forma nell’intelletto, non poteva non ammettere i giudizi sintetici a priori; l’una cosa è inseparabile dall’altra … Ma egli dice di ammetterli in un senso diverso dal kantismo, cioè nel vero senso. E questo è quello che bisogna vedere”»(p. 36). Insomma fin quasi dal suo esordio Rosmini si mise in luce per un rapporto con la filosofia trascendentale, che criticava, sì, ma della quale sembrava condividere una certa direzione in ambito gnoseologico. Proprio la teoria della conoscenza fu il tema che appassionò i lettori del Nuovo Saggio e che scatenò i suoi critici. E se famosa fu la polemica che gli oppose Vincenzo Gioberti (Degli errori filosofici di Antonio Rosmini, 1841), che proprio il punto di vista gnoseologico intendeva contestare («”Psicologista è colui che pone il primo principio dello scibile in una cosa creata … il Rosmini colloca il primo principio dello scibile in un oggetto o in una forma creata. Dunque egli è psicologista»”), meno famosa, ma non meno pericolosa doveva rivelarsi la critica che Serafino Sordi, dagli spalti neotomistici, gli mosse nelle Lettere intorno al “Nuovo Saggio sull’origine delle idee” dell’Abate Antonio Rosmini-Serbati(1843). Quella critica che, dice Krienke, fissava il punto intorno al quale tutte le successive dispute neotomistiche sulla teoria rosminiana si sarebbero incentrate, si può riassumere con le seguenti parole dello stesso Sordi: « “E’ ripugnante che la idealità sia la prima idea, perché se l’idea est simplex rei adprehensio, come ne conviene Rosmini in parecchi luoghi, ripugna che vi abbia idea, dove non vi ha oggetto appreso, res apprehensa. Dunque o questa identità, che si vuole spacciare, come la prima idea innata dell’uomo, rappresenta qualche oggetto (e oggetto di sustanza [!] per la ragione addotta pur ora) o non lo rappresenta … Nel secondo caso la contraddizione è chiara: nel primo, se non si aggiunge determinatamente quale cosa rappresenti, è lo stesso che non dir nulla”»(p. 56). La critica di Sordi era acuta e andava, secondo noi, dritta al cuore del problema. Se l’idea, diceva il neotomista, si definisce per il fatto di essere in relazione essenziale con l’oggetto di cui è idea, allora è inconcepibile e inammissibile, è contraddittoria, insomma, un’idea che come l’idea dell’essere rosminiana non ha alcun oggetto appropriato. E se Rosmini ad essa vuole tener fermo, fa suoi gli stessi presupposti del soggettivismo e dello psicologismo e finisce nelle stesse conseguenze nefaste. Krienke osserva che, «su questo sfondo di un’interpretazione estremamente aristotelica di Tommaso, quale era prevalente nella teologia dell’Ottocento, l’idea dell’essere rosminiana può soltanto far supporre che il suo autore sostenga il punto di vista dello psicologismo, ontologismo, panteismo e nichilismo, in quanto nel mondo esterno ad essa non corrisponde, come elemento aprioristico, alcuna realtà intenzionale»(p. 56).
Tuttavia, a parer nostro, non basta dire così. Quella del rapporto tra il pensiero e l’essere non era questione che riguardasse solo un modo di interpretare Tommaso, ma era la questione che, ereditata dalla tradizione platonico-aristotelica, tutta la modernità (per così dire) stava tentando di risolvere diversamente. L’impostazione data da Kant, se non andiamo errati, era che, fermo restando che il rapporto tra l’essere e il pensiero era nesso essenziale (anche se poi il pensiero aveva messo in mostra una sua peculiare natura capace, pericolosamente, di farlo andare oltre), a quel rapporto, a quel nesso era necessario guardare non più muovendo dall’essere ma dal pensiero. A questo ribaltamento Rosmini sentì di dover aderire. Ma il Roveretano non si era fermato qui. La sua idea dell’essere si segnalava come una struttura del tutto autonoma rispetto al reale che rendeva intelligibile. L’autonomia e separatezza dell’idea era tratto distintivo e peculiare della concezione rosminiana rispetto a Kant. La sintesi a priori o, meglio, la percezione intellettiva non rappresentava il problema nella sua interezza. Anzi, il nucleo più significativo di esso era proprio l’idea dell’essere concepita da Rosmini come struttura della intelligibilità e quindi della conoscenza. Ma, se la sintesi era nesso necessario di essere e di pensiero, l’idea dell’essere era invece per essenza separata dall’essere delle res conosciute e intelligibili, svincolata da quel rapporto. Aveva quindi ragione Sordi a rimarcare che il punto qualificante della dottrina rosminiana era anche il suo punto critico. Meno ragione ci sembra, invece, abbia Krienke nel voler attutire la portata di quella critica, quasi che essa fosse dovuta a una visione del problema confinata in una tradizione del tutto superata e ormai residuale.
Quello appena toccato è un punto importante su cui vale la pena insistere. La questione del rapporto tra l’essere e il pensiero non solo era ben viva nel dibattito della filosofia moderna, ma poneva interrogativi che rafforzavano i dubbi lasciati aperti dalla filosofia dei Greci. Rosmini ha il merito di averlo capito prima di altri. La critica di psicologismo che muoveva a Kant e l’affermazione dell’idea dell’essere erano due facce della stessa medaglia. A noi non sembra che egli avesse frainteso la teoria di Kant e per questo lo avrebbe accusato di psicologismo. Al contrario. Rosmini aveva ben chiaro che, se si voleva che il pensiero, l’intelletto, fosse davvero forma, se doveva essere davvero il principio d’intellegibilità, allora non poteva in alcun modo essere mescolato al suo oggetto, pena decadere ad oggetto esso stesso. Per questo rivendicava un’idea, una forma, del tutto autonoma e separata, ignorando la quale non si poteva fare a meno di scivolare nello psicologismo, ovvero nella reificazione di ciò che, al contrario, non è res, ma pura e incontaminata forma intelligibile. Questo motivo era lo stesso che stava a fondamento della sua critica a Platone: la molteplicità delle idee non è deleterea perché le idee sono molte mentre potrebbero essere una sola; ma è deleterea perché esse possono essere tali solo in quanto sono mescolate, sono còlte nel nesso con le res e, quindi, non sono il vero principio razionale, ma solo un derivato. L’idea dell’essere presentata nel Nuovo Saggio era la vera intuizione originale di Rosmini che con essa criticava e superava, o comunque credeva di farlo, il difetto della concezione kantiana la quale, per quanto rivoluzionaria fosse (e tale appariva senz’altro a Rosmini) e per quanto si fosse posta sulla giusta strada riformulando il problema del rapporto tra pensiero ed essere a partire dal primo dei termini, non era però stata conseguente fino in fondo e non era giunta a riconoscere la perfetta aseità e non mescolanza del razionale. Ma c’è di più. Molti anni più tardi, quando era vicino al termine della vita e impegnato a stendere la Teosofia, Rosmini interruppe il suo lavoro per scrivere Aristotele esposto ed esaminato e dimostrare come quello che riteneva il vizio di fondo della metafisica, e cioè appunto il non aver saputo riconoscere la vera natura della razionalità nell’idea dell’essere intesa come struttura formale in sé perfetta e svincolata dal reale, fosse ascrivibile alla riforma che Aristotele aveva compiuto della dottrina platonica delle idee e che aveva curvato l’essere ideale nel letto di Procuste della forma sostanziale e delle categorie. Il pollachós léghetai cui l’essere era stato ridotto da Aristotele era insomma, agli occhi di Rosmini, il traviamento totale del vero concetto di forma, del vero concetto di pensiero e di razionalità, cioè di quello che nella filosofia di Rosmini era stato espresso come idea dell’essere. In quel grande e importante saggio il bersaglio era precisamente il nesso di idea e cosa, che Aristotele si era sforzato in ogni modo di rinsaldare e riformulare rigettando la dottrina platonica della partecipazione e argomentando a favore della forma e della materia. E’ bene dire, allora, che la disamina dell’intelletto aristotelico che Rosmini eseguì in quella circostanza può aiutarci oggi a leggere con sguardo più profondo la stessa interpretazione che il Roveretano aveva dato di Kant e che, in maniera drasticamente succinta, si può raccogliere dicendo che, secondo lui, la questione sostanziale, per Aristotele come per Kant come per tutta la storia del pensiero filosofico, era quella di concepire l’intelligibile, l’idea, come separata dall’oggetto, perché, diversamente, lo “sdrucciolo” in cui si sarebbe incorsi avrebbe avuto come conseguenza la rovina del pensiero.
Dunque, per tornare al nostro ragionamento, la critica di Sordi aveva centrato il bersaglio e non era soltanto (come pure era) espressione di un atteggiamento ultraconservatore che gravava pesantemente nei rapporti tra filosofia e teologia e nell’ambito della filosofia stessa.
Il fatto che l’idea dell’essere fosse la questione centrale della filosofia rosminiana e, più in particolare, che lo fosse proprio per il carattere di forma a se stante e svincolata essenzialmente dal contenuto, trova riprova nella “seconda fase” della Wirkungsgeschichte di questa filosofia. Spaventa, Jaja e Gentile vengono presentati da Krienke come gli esponenti di una lettura che impresse un segno profondo. In modi diversi, ma collimanti, essi indicarono in Rosmini il pensatore che, pur con un tratto originale, fece da tramite affinché la filosofia trascendentale fosse davvero conosciuta e compresa in Italia. Spaventa, dice Krienke, vide nella percezione intellettiva l’analogo della sintesi a priori di Kant; la sua interpretazione procedeva «riducendo la gnoseologia rosminiana all’accezione kantiana del giudizio, escludendone la dimensione ontologica». Per questo ai suoi occhi il Nuovo Saggio doveva essere riconosciuto come assolutamente centrale nel pensiero del Roveretano e si doveva invece ritenere «la dimensione ontologica e teorico-fondante delle “forme” di idealità e realtà del Nuovo Saggio un residuo del pensiero metafisico classico di Rosmini, che questi non era riuscito a lasciarsi completamente alle spalle»(p. 63). Spaventa non capì che «l’intenzione di un pensatore si presenta in modo completamente differente, se si parte dall’assunto ch’egli non sia riuscito a superare certi “tradizionalismi” ontologici, invece di presumere che egli si sia confrontato intenzionalmente nell’ottica dell’epoca moderna con la dimensione ontologico-metafisica, come paradigma classico della conoscenza umana»(pp. 63-64). A Jaja invece che, secondo Krienke, mise al centro della sua indagine la Teosofia e il Saggio storico-critico sulle Categorie e la Dialettica, va il merito «di aver individuato in Rosmini quella dimensione ontologica come dimensione fondante della gnoseologia, che in seguito sarebbe stata a lungo dimenticata»(p. 67). Però il penchant idealistico-hegeliano di Jaja avrebbe ostacolato, sempre a parere dell’Autore, la corretta comprensione della filosofia di Rosmini: «Il rovescio della medaglia della interpretazione idealistico-hegeliana della Teosofia … sta nel fatto che nemmeno gli hegeliani potevano individuare il significato ontologico delle forme dell’essere in Rosmini, in quanto, secondo l’accezione hegeliana di “ontologia”, proprio la dimensione ontologica di Rosmini non compare in modo evidente. A Jaja quindi, come agli altri esponenti dell’idealismo italiano, le “forme” rosminiane potevano apparire soltanto come distruzione primordiale ed esclusione di qualsiasi possibilità di un’unità dell’essere, con conseguente rifiuto tout court della ontologia rosminiana»(pp. 68-69). Insomma, l’essere di Rosmini non avrebbe mai avuto la compatta identità dell’Assoluto hegeliano, motivo per cui gli hegeliani lo avrebbero sempre rifiutato.
Questo tema scottante era contenuto nell’interpretazione gentiliana, anzi ne costituiva forse il nucleo teoretico più riposto. Ma Krienke lo sfiora appena e non riesce a rilevarlo in maniera adeguata. Egli mette in risalto l’aspetto più appariscente e senz’altro corrispondente a vero della lettura di Gentile, cioè quella ripresa e approfondimento di Spaventa che portò il filosofo siciliano a vedere il principio della conoscenza di Rosmini senz’altro coincidente con la sintesi a priori di Kant. Dice Krienke a tal proposito: «Il progresso di Gentile nell’interpretazione di Rosmini consiste … nell’aver riconosciuto l’elemento sistematico, in base a cui realizzare un tale confronto, nell’ “unità sintetica originaria” di Kant e nella “percezione intellettiva” di Rosmini». Diversamente da Spaventa –secondo Krienke- Gentile rifiuterebbe di intendere la sintesi rosminiana nel senso di “applicazione di una categoria alla sensazione”, cioè come “una faccenda tutta meccanica”, «“poiché il Rosmini pone esplicitamente quell’unità originaria dello spirito (nel sentimento fondamentale) che servirebbe, secondo l’efficace espressione dello stesso Spaventa, da ponte di passo tra il senso e l’intelletto; quel ponte di passo che egli non vede né in Kant né in Rosmini”»(p. 71). «Pur senza poter entrare nel merito dell’attualismo di Gentile, è evidente –commenta Krienke- che qui si completa teoricamente l’unione dell’oggettività rosminiana e della soggettività kantiana». Aggiunge che, così facendo, Gentile infranse un paradigma, quello di Spaventa, Fiorentino e Jaja che avevano eccessivamente schiacciato Rosmini su Kant e Hegel: «In altre parole, per Rosmini egli attribuisce importanza a tutti gli argomenti in cui questi reagisce a Kant e Hegel in modo critico, per fondare così il proprium del suo (neo)idealismo italiano non sulla ricezione, bensì sul confronto critico e la presa di distanza. Per Gentile non conta se e in quale modo Rosmini si sia confrontato, in termini ricettivi, con Kant e Hegel, bensì in quali modi li abbia trasformati concretamente e abbia quindi esercitato un impatto sull’idealismo italiano»(pp. 71-72). Insomma Gentile raccolse di Rosmini non il tratto per cui la sua teoria poteva coincidere con quella idealistica, bensì quello per cui essa abbia reagito e, pensando originalmente, abbia per questo esercitato l’ «impatto» di cui parla Krienke. Dunque è vero che Gentile non riduce Rosmini a Kant o a Hegel. Ma in forza di che possiamo dire così? In forza di che lo sostiene Krienke? Quali sono i concetti che Rosmini ha messo a fuoco che possono dirsi costituiti da una parte nel nesso con l’idealismo e dall’altra al di là e al di fuori di questo nesso?
Se sfogliamo Rosmini e Gioberti non facciamo fatica a osservare che nelle ultime pagine del primo capitolo della Parte Seconda, dopo aver analizzato a lungo la dottrina rosminiana e aver mostrato, come dice bene Krienke, che l’unità originaria dello spirito presente in essa non era diversa da quella concepita da Kant, Gentile aveva sentito, però, il bisogno di tornare a ragionare sull’idea dell’essere, su quella forma oggettiva che cozzava terribilmente contro la trascrizione idealistica della dottrina rosminiana. Non temeva, Gentile, di dichiarare che questa idea «è il cardine di tutto il rosminianesimo, è pure il centro cui convergono quasi tutte le questioni»(Gentile G., Rosmini e Gioberti. Saggio storico sulla filosofia italiana del Risorgimento, Firenze 1955, p. 193). Di questa idea, così contrastante con quella della sintesi o percezione intellettiva, doveva darsi pure una ragione. Gentile la indicò confusamente. Non avendo riflettuto che la filosofia di Kant toglieva spazio a ogni dubbio scettico, Rosmini, secondo Gentile, aveva avvertito la necessità di legittimare la presenza di un essere puramente opposto al soggetto ed era finito, così, nel cul de sac della contraddizione: l’idea dell’essere configurava una opposizione con relazione immediata degli opposti, «una opposizione pura, che, per rimanere davvero pura, non potrebbe concepirsi se non come identità; laddove l’identità, come necessaria identità, proverebbe che l’opposizione non è possibile, almeno come pura opposizione»(op. cit., p. 195). A prescindere dal fatto che la spiegazione di Gentile fosse davvero convincente, non sfugge al lettore attento che il problema rappresentato dall’idea dell’essere era scandito, e cioè pensato, da Gentile come quello dell’identità e dell’opposizione, come quello, cioè, che sarà così originalmente svolto dal suo attualismo. Identità e opposizione che, mentre non gli faceva difficoltà concepire come un tutt’uno spirituale quando parlava di sintesi o di unità originaria dello spirito, gli era difficile, invece, ammettere come nesso unico quando la ragionava alla luce dell’idea dell’essere rosminiana. Questo snodo teorico era lo stesso che più tardi avrebbe affrontato nella Riforma della dialettica hegeliana a proposito della deduzione delle categorie (cf. op.cit., p. 176 in nota) e aveva a che fare con l’identità della sintesi. Era presente, insomma, in queste pagine di analisi della filosofia rosminiana la questione intorno a cui prenderà corpo l’attualismo e che scaturiva da una profonda scansione della sintesi come identità degli opposti. In questa scansione se da una parte a Gentile risultava chiaro che non si poteva ammettere nessun oggetto al di fuori della relazione con il pensiero, dall’altra l’identità della sintesi apparendogli come identità non poteva non apparirgli come del tutto a se stante, separata e imperturbabile proprio come l’idea rosminiana. Insomma, senza poterci inoltrare di più nelle questioni gentiliane, è necessario segnalare come l’interpretazione che Gentile diede di Rosmini, e alla quale il filosofo siciliano non mancò mai di riconoscere importanza nello sviluppo del suo pensiero, abbia molto a che fare con l’originale e peculiare tratto che questo pensiero assunse. Krienke lo afferma pure, ma senza dire come e perché questo ebbe luogo, e induce infine il lettore a pensare che Gentile, al pari degli idealisti che lo avevano preceduto, avesse in certo senso “saccheggiato” Rosmini a suo uso e consumo. Al contrario, quando si indaghi più da vicino, ci si accorge che per Gentile il valore di Rosmini non era tanto quello di essere stato il tramite della filosofia trascendentale, quanto di esserne stato il ripensamento critico, di aver formulato una nuova e originale filosofia, molto affine a quella di Kant, da questa comunque ben distinta, dove una questione assai scottante, con la quale il filosofo dell’attualismo si sarebbe misurato con tutte le sue forze. Reclamava la sua importanza.
Se così stanno le cose, allora forse si dovrebbe dire che Rosmini rappresentava per Gentile una fonte che non ha semplicemente a che fare con la filosofia tedesca, ma ha a che fare con quanto nei concetti di questa restava di irrisolto rispetto alla metafisica e ai problemi che essa aveva posto. Il rapporto Gentile-Rosmini risulta, se considerato in questa luce, emblematico della complessità della filosofia come tale e della sua storia, esempio di come il pensiero concettuale sia davvero insuscettibile delle definizioni di “antico” o “moderno” e di come esso possa essere egualmente vivo e ricco, coincidente e diversamente espresso, in pensatori che ne fecero il fulcro della loro dottrina. L’interesse di Rosmini per il problema della conoscenza è surclassato dalla enorme sensibilità che egli ebbe per la questione dell’universale, dell’uno e dei molti, dell’essere e della sua natura choristós. Tutt’altro che distante da questo universo filosofico era Gentile, che trovò quindi nel Roveretano una fonte nel senso più  ampio, un plateau che sarebbe stato una delle basi d’appoggio per la riflessione che ne avrebbe fatta seguire. E, ancora una volta, se così stanno le cose, anche l’osservazione mossa da Krienke riguardo al «sorprendente parallelismo» tra l’interpretazione neoidealista di Rosmini e quella neotomista va riconsiderata. La «interazione storica di clericalismo e laicismo, di neotomismo e idealismo»(p. 77), di cui egli parla, facendo valere anche per Rosmini un topos caratteristico del rapporto tra modernismo, neotomismo e neoidealismo, non è argomento calzante. Non basta rilevare che le parole di Gentile, secondo il quale « “rosminianesimo significa … idealismo in filosofia, romanticismo in letteratura, liberalismo in politica”»(p. 71), erano assonanti con quelle di “Civiltà Cattolica” che nel 1881, sotto la firma di De Lucchi, sentenziava: « il Rosminianismo è Liberalismo in politica, Giansenismo in morale, Panteismo in filosofia”»(p. 76). Il ritmo della battuta gentiliana e quello della battuta neotomista sono, è vero, simili; ma non lo è niente affatto il concetto. Infatti, se per personaggi come Cornoldi o Liberatore l’idealismo di cui tacciavano la filosofia di Rosmini era quel soggettivismo relativistico che costituiva la posizione filosofica esattamente agli antipodi della loro stessa dottrina, per Gentile, come si è detto, la nota più interessante della dottrina rosminiana finì per identificarsi con l’idea dell’essere la quale, subito aggredita da Gentile per la sua contraddittorietà rispetto alla sintesi, riuscì da sola nella stessa impresa occorsa agli eroi dell’Eneide, che “Graecia capta …”, ovvero catturò e involse nelle sue spire quel critico scrupoloso. Sicché il seme rosminiano che mise radici nel pensiero di Gentile non fu quello della sintesi, o non fu solo questo, ma fu quello dell’idea dell’essere e del problema che essa rappresentava e che era intrinseco alla filosofia idealistica. Perciò dobbiamo riconoscere che c’era idealismo e idealismo e il fatto che Rosmini fosse accusato dagli uni e dagli altri di essere troppo o troppo poco idealista, non implicava che i critici di entrambe le sponde intendessero l’idealismo rosminiano, troppo o troppo poco che fosse, nello stesso modo.
«Con il tramonto del neoidealismo –continua Krienke la sua disamina- Rosmini alla metà del Novecento ha perso necessariamente anche la sua legittimazione nella filosofia ed è finito nell’oblìo. In campo teologico dapprima, con la lunga azione del neotomismo e la condanna mantenuta in vigore fino al 2001, al suo pensiero non si è concessa alcuna possibilità di riabilitazione. La seconda fase si è conclusa in pratica con l’emarginazione di Rosmini dalla cultura europea»(p. 80). La “terza fase” della Wirkungsgeschichte del Roveretano viene presentata da Krienke con qualche imprecisione. Da una parte se ne retrodata l’inizio, facendolo coincidere con il dibattito sul “vero Rosmini” o “Rosmini vero” e affermando che questo confronto scaturì dal di dentro delle file neoidealiste. Dall’altra la si fa coincidere con una nuova e diversa impostazione degli studi, che darà molta importanza all’esegesi e alla rilettura di tutte le opere rosminiane. Che il dibattito sul “vero Rosmini” o “Rosmini vero” fosse scaturito dal di dentro dell’idealismo non corrisponde ai fatti. Fu Carlo Caviglione, rosminiano convinto, a suscitarlo e portarlo avanti e il giudizio formulato da Krienke secondo il quale i protagonisti della discussione Varisco, Martinetti, Capone-Braga, De Sarlo, Carabellese, Moretti-Costanzi, pur sentendo il dovere di «mediare maggiormente le loro posizioni nella scia del neoidealismo con gli elementi “oggettivi del pensiero rosminiano … in ultima analisi, … continuavano a subordinare e classificare Rosmini, secondo la maniera neoidealistica, alla categorializzazione della storia della filosofia, orientata secondo il loro punto di vista filosofico. Soprattutto ex post si evidenzia che il loro metodo si rifaceva molto più strettamente al neoidealismo, di quanto non presentasse già caratteristiche determinanti del successivo “rinascimento rosminiano”»(p. 87); questo giudizio, dicevamo, rischia di essere sommario e di accomunare personalità e filosofie tra loro non poco diverse. Soprattutto occorre dire che considerare così la cosa, mettere sotto l’egida del neoidealismo un confronto voluto e sostenuto anzitutto da Caviglione, ha come conseguenza di oscurare il ruolo e la presenza dei rosminiani: questi, se è vero che erano stati messi a margine della Chiesa, è altrettanto vero che non mancarono mai di far sentire la loro voce in campo filosofico, anche quando questa voce fosse stata esile o poco ascoltata.

 

A parte questo dibattito, però, non c’è dubbio che la “terza fase” risulti caratterizzata dalla sterzata impressa dagli studi di Michele Federico Sciacca. Alla fine degli anni Trenta Sciacca scriveva che aver ritenuto il Nuovo Saggio il testo centrale del pensiero rosminiano era stata una scelta unilaterale e che era invece necessaria una valutazione complessiva dell’opera di Rosmini con particolare riguardo per la Teosofia e per il Saggio storico-critico. Dando a questi testi il loro giusto valore ci si sarebbe resi conto che il problema che Rosmini aveva a cuore non era quello della conoscenza ma quello della metafisica. Rosmini, affermava Sciacca, « “ha visto, per primo, contro lo gnoseologismo della filosofia moderna, che altro è il problema dell’ ‘oggettività del pensare’ o dell’ ‘intelligibilità’ o del ‘principio della oggettività’, e altro quello del ‘conoscere oggettivo’: il primo è ontologico-metafisico ed è il fondamento dell’altro. Dissolvere la metafisica nella gnoseologia, come ha fatto l’idealismo di Fichte e Gentile, è perdere il senso metafisico del principio dell’autocoscienza e con ciò sacrificare le più profonde ed invincibili esigenze dello spirito umano”»(p. 88). Oltre a Sciacca, anche Augusto Del Noce tentò ugualmente di strappare il filosofo roveretano dalla forte caratterizzazione idealistica e di delinearne il profilo come quello di un pensatore che si contrapponeva al pensiero moderno. Però si deve proprio a Sciacca la spinta allo studio dell’ opera omnia di Rosmini e la grande fioritura che ne seguì costituisce il fatto più rilevante di questa “terza fase”. Maria Teresa Antonelli, Adelaide Raschini, Pietro Prini sono solo alcuni dei nomi di studiosi insigni che si sentirono esortati a rintracciare negli scritti di Rosmini soprattutto la valenza metafisica. Lo spostamento dell’asse d’interesse ebbe come conseguenza, tra l’altro, l’accostamento del Roveretano a Hegel più che a Kant o, come avvenne nel caso di Prini, addirittura si finì per ritenerlo «neoscolastico» ante litteram. « “In realtà, l’unica vera concessione del Rosmini alle richieste della ‘filosofia critica’ –come del resto a tutta quanta l’impostazione gnoseologica moderna- è stata l’affermazione del primato metodologico della gnoseologia … tutte le tesi del Nuovo Saggio sono riconducibili nell’ambito generale di un oggettivismo classico, e dunque ‘dogmatico’ o ‘precritico’, secondo Kant e i kantiani. Il carattere ‘formale’ dell’Idea dell’essere –che è stato il punto di contraddizione degli interpreti di Rosmini- è ormai certo che può essere assunto soltanto in una accezione platonico-agostiniana piuttosto che kantiana”»(pp. 91-92). Tuttavia, commenta Krienke raccogliendo le fila dell’analisi svolta di questa fase, «gli autori si rendono conto che Rosmini è quasi completamente scomparso dal dibattito filosofico … L’indubitata dissoluzione dell’influsso filosofico-culturale di Rosmini che egli esercitava nella “seconda fase” si potrebbe considerare, nella dinamica interpretativa della “terza fase”, la conseguenza inevitabile dell’esigenza di liberare Rosmini dal paradigma del “Kant italiano” –cambiamento che richiedeva necessariamente un lavoro di base, in cui dapprima sarebbe mancata la certezza della sua importanza nell’ambito della filosofia moderna e che determinava un continuo ritrarsi dal confronto filosofico stesso. Se nella “seconda fase” egli era ancora il punto di riferimento dei grandi filosofi italiani, nella “terza fase” vi erano sempre meno pensatori che avrebbero potuto prendere ancora in considerazione la sua posizione. Di conseguenza il ‘recupero’, giustificato, degli aspetti classico-ontologici del suo pensiero faceva apparire Rosmini un ontologista rivolto al passato, da cui non aspettarsi più spunti per il dibattito filosofico»(pp. 100-1). Insomma, una volta conclusasi la fertile epoca del neoidealismo, anche la fortuna di Rosmini sembrò tramontare. Sganciato da quei dibattiti, non restava del suo pensiero che l’elemento classico-ontologico, come lo chiama Krienke, e il Roveretano rischiava di essere rubricato a oggetto d’interesse archeologico.
Questa notazione, però, porta al pettine un nodo: è giusto misurare l’attualità del pensiero di Rosmini sulla base delle sue fonti e dei suoi riferimenti teorici o non bisognerebbe piuttosto studiare la presenza e persistenza degli elementi importanti della sua filosofia nei pensatori che, appartenenti o meno alla sfera d’influenza idealistica, hanno proseguito a ragionare intorno a quei temi, filosofi ai quali a tutt’oggi non si è ancora mai guardato in questo senso? Studiare più ampiamente e scandagliare più approfonditamente la storia filosofica dell’ultimo secolo e cercare Rosmini non solo là dove esplicitamente è messo a tema, ma anche dove è utilizzato e dove il suo pensiero è arrivato apportando un contributo significativo, questo, crediamo, sia il compito che deve affrontare chi di Rosmini voglia comprendere la vitalità e l’importanza. E allora parlare di “quarta fase” così come ne parla Krienke non può non risultare molto riduttivo. Partire dalla Nota del Sant’Uffizio che svincola la filosofia di Rosmini dall’accusa di essere idealistica e, quindi, accantona la posizione neotomista; affiancare questo evento alla fine del neoidealismo e concludere che questa nuova situazione è quella che consente oggi di guardare a Rosmini in modo anch’esso nuovo e diverso, significa fare appello, per la comprensione di quella filosofia, a fatti importanti ma estrinseci, a qualcosa che con le vicende di Rosmini e del suo pensiero ha avuto molto a che fare, ma che non è propriamente la materia filosofica della quale è necessario comprendere il significato e il valore propriamente concettuale. «Rosmini –dice Krienke- è riuscito a stabilire un «collegamento fra pensiero tradizionale e pensiero moderno in modo non-idealistico, non-ontologistico e non-soggettivistico»(p. 107). Ma allora si tratta di accertare che cosa si debba intendere per «collegamento», e se di «collegamento» si tratti, e questa è cosa che non si può stabilire a partire da quella Nota o dalla constatazione della fine del neoidealismo. E quando Krienke conclude, riproponendo il confronto tra Rosmini e l’idealismo tedesco, con una dichiarazione d’intenti: «In superficie la critica di Rosmini nei confronti di Kant e degli idealisti è netta e dura. Eppure, a volte nel suo modo di pensare è più vicino a loro proprio nei passaggi, in cui maggiormente li critica. Dall’altro lato, spesso si dimostrano ingannevoli proprio quei parallelismi di contenuto o quei concetti identici, che sembrano evidenti, in quanto con essi Rosmini intende qualcosa di completamente differente, rispetto a quanto essi suggeriscono nell’orizzonte della comprensione kantiano-idealistico. E’ questa la problematica per cui trovare equilibrio … la definizione concettuale di questo equilibrio è ancora da realizzare»(pp. 107-8); ci sentiamo di dire che il proposito che egli manifesta avrebbe maggiori possibilità di realizzarsi, se prima si verificasse il presupposto da cui si prendono le mosse: ha tentato davvero Rosmini «il superamento del solco … fra la moderna filosofia del soggetto e l’atteggiamento della teologia, che continua ad aggrapparsi ad un’accezione ontologico-scolastica della metafisica»(p. 104), ha considerato davvero il pensiero antico e quello moderno incisi da una differenza profonda, o non ha invece concepito il pensiero filosofico come attraversato da una sola demarcazione, quella della verità e della falsità, non suscettibile di differenza alcune, non distinguibile nel tempo e nello spazio? La “modernità” era per Rosmini un valore o un disvalore o invece il suo concetto del vero eclissava del tutto questa differenza? Se così fosse, non si dovrebbero cercare punti d’incontro o di divergenza tra antico e moderno, ma ciò che per Rosmini è vero per il pensiero e ciò che esso rifiuta come inaccettabile.

PUBBLICATO IL : 31-12-2010
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