Fabio Vander si propone in questo testo di ricostruire un «profilo della modernità italiana», alla luce del nesso fra filosofia e politica: al centro dell’analisi è la categoria di «classe politica», secondo una linea elitista che Vander giudica in definitiva estranea alla democrazia.
Le radici di questa concezione vanno ricercate secondo l’autore nelle dottrine politiche di Platone e di Aristotele, fatte convergere nell’idea della saggezza, della phronesis, come suo tratto distintivo: in tale prospettiva la difesa della medietas, del «giusto mezzo», si traduce secondo l’autore nella tesi della «classe media» come fulcro di ogni sistema politico.
Dall’antichità classica questa tesi trapassa nel dibattito teorico moderno. L’attenzione si concentra qui in particolare sulle figure di Giambattista Vico e di Vincenzo Cuoco. Quanto al primo, rigettandone la lettura gentiliana in chiave antimoderna, l’autore afferma che la critica di Vico al razionalismo si volge non alla modernità in quanto tale, ma alle «ipostatizzazioni della potenza del soggetto» (61). Ad esse Vico avrebbe contrapposto una concezione incentrata sulla finitezza e incertezza, intese come caratteri ontologici dell’ente. È da questa visione che discenderebbe in Vico l’idea che «l’unica categoria del politico» sia la prudentia civilis, intesa quale «ricerca dell’equilibrio, valutazione del possibile e del fattibile, consapevolezza (...) della intrascendibile relatività e aleatorietà del fatto politico» (68-69).
Il saggio storico sulla rivoluzione di Napoli di Vincenzo Cuoco riprende e sviluppa le intuizioni di Vico, aggiornandole alla luce della Rivoluzione francese e di quella partenopea. La riflessione si incentra sul concetto di rivoluzione passiva, espressione della scissione della minoranza rivoluzionaria dalle masse. In polemica con la prospettiva crociana di un «liberalismo senza democrazia», Vander delinea la critica di Cuoco al razionalismo illuminista e alla prospettiva del giacobinismo radicale di Vincenzo Russo, che ritiene venga sviluppata alla luce di un progetto di «democratizzazione universale» (111). Tuttavia, mettendo al centro il «talento del riformatore» innanzitutto come «attitudine alla mediazione» (116), anche la costruzione teorica di Cuoco lascerebbe trasparire la propria derivazione dall’impianto moderato classico. Del resto, sostiene Vander, la posizione espressa a ridosso della rivoluzione del ’99 lascerà ben presto il passo, con il Platone in Italia, a una riflessione complessiva sulla «rifondazione della politica» che porterà Cuoco, con una «svolta antidemocratica» (137), a far coincidere la «classe politica» con la borghesia.
Nell’appendice, seguendo un percorso che da Romagnosi, attraverso Gioberti, porta Vander a considerare l’elitismo di Gaetano Mosca, la teoria della «classe politica» viene rivelandosi, nei suoi esiti, «una apologia della borghesia e delle sue ambizioni al potere» (173). Incapace di rafforzare il regime liberale, e anzi tesa a impedirne l’evoluzione verso la democrazia, essa mostra di culminare in un fallimento epocale. Si tratta, in effetti, dell’ «esito di svariati secoli di pensiero politico nazionale, riassuntisi però particolarmente negli ultimi centocinquant’anni in una ideologia italiana che ha saputo garantirsi un interminabile ciclo egemonico a costi però altissimi per il sistema, cioè al prezzo di una democrazia che il nostro liberalismo ha tenuto inchiodata ad una eterna incompiutezza» (174). Unicamente in Gramsci, secondo Vander, e nella sua concezione dell’ «intellettuale collettivo» – vale a dire di un ceto politico che non si vuole separato dalle masse – può essere rinvenuto il tentativo di «una integrale democratizzazione» della «classe politica», che ne superi definitivamente gli strutturali limiti elitistici (184). |