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Ernesto De Martino, Scritti filosofici , Il Mulino, 2005
di Francesco Saverio Trincia

     Per la cura di Roberto Pastina, vengono pubblicati dall’Istituto Italiano per gli studi Storici, nella collana dei Testi storici, filosofici e letterari, gli Scritti filosofici di Ernesto De Martino (Il Mulino, Bologna 2005). Si tratta di un corpus di testi composti tra 1962 e il 1964, redatto da De Martino come preparazione all’opera sulla fine del mondo. Ne La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, a cura di Clara Gallini, Torino 1977 fu pubblicata una parte rilevante di tali testi, ma solo in misura ridotta, nell’Epilogo, di quelli di argomento filosofico. Sono questi scritti, ove rifluiscono i temi presenti nel Mondo magico del 1948 a vedere ora la luce . Viene così offerta agli studiosi del pensiero demartiniano il completamento di una fonte testuale manoscritta rimasta parziale, e più in generale alla riflessione sulla speculazione novecentesca in Europa un volume di filosofia capace di sottoporsi al vaglio di una lettura mirante a sondare la sua resistenza all’analisi critica. Il già imponente lavoro di lettura concettuale del pensiero demartiniano compiuto da Gennaro Sasso in Ernesto De Martino tra religione e filosofia (Napoli 2001) può in questo modo essere proseguito. Un pensatore già importante viene collocato con il rilievo che gli spetta nella vicenda della filosofia italiana contemporanea. Oltre al rapporto con Benedetto Croce , assolutamente privilegiato e preminente, e perciò già oggetto di studio, ne ricava sicuro vantaggio la riflessione critica sulla filosofia di Enzo Paci, secondo tra gli interlocutori filosofici di De Martino. In questi scritti, come osserva Pastina,  De Martino «si impegnò in una profonda riflessione teoretica» che prese ad oggetto la filosofia del Novecento da Benedetto Croce, ad Edmund Husserl,  a Karl Jaspers, a Martin Heidegger, a Jean-Paul Sartre. E’ certamente vero che  il confronto filosofico serrato  serviva a De Martino a  ridefinire «l’assetto concettuale del suo pensiero», a mettere a punto le sue «originalissime categorie interpretative» e dunque a dare fondamento alla  agognata «riforma  dell’antropologia». Ma proprio questa circostanza dovrebbe mettere sull’avviso il lettore circa il fatto che  un certo squilibrio si produce nella lettura, nel commento e nella riflessione più o meno assimilativa, più o meno critica sulle grandi opere della filosofia contemporanea,  tra  quei testi in cui lo sforzo di De Martino si concentra sulla messa a punto delle nozioni di «ethos del trascendimento» e di  «valorizzazione» della vita infinitamente spinta dal suo costitutivo dover essere verso un trascendimento che non si deposita in una trascendenza religiosa, da  lato, e dall’altro, quei testi in cui la lettura della Crisi delle scienze europee di Edmund Husserl, appena pubblicata nella traduzione di Enrico Filippini, appare dominata dal desiderio dell’ acquisizione di nozioni fenomenologiche filtrate da un approccio molto ‘italiano’ alla fenomenologia. Un approccio in cui è avvertibile la familiarità con le posizioni di Enzo Paci, e del quale si deve segnalare la tonalità esplicitamente e volutamente “umanistica” e la duplice sponda idealistica e marxistico-prassista cui essa si appoggia.

     Cercheremo di verificare attraverso un duplice sondaggio se questa ipotesi di lettura degli scritti filosofici di De Martino è accettabile e suffragata dall’analisi dei testi. Lo studioso della fenomenologia husserliana potrebbe tuttavia già fin da ora osservare che la lettura demartiniana di Husserl appare singolarmente , anche se comprensibilmente, marginale rispetto alle interpretazioni del padre della fenomenologia sviluppatesi nell’ultimo mezzo secolo. V’è da chiedersi, ma non lo faremo in questa sede, se, anche al di là del confronto con altre letture e utilizzazioni di Husserl, quella di De Martino non soffra in un certo senso della sua italianità – almeno per quel che concerne  la capacità di un dialogo diretto (non mediato dall’approccio di Enzo Paci, per esempio) con il capostipite della fenomenologia. Non può non essere evidenziato che De Martino elenca con precisione le opere principali di Husserl (cfr. Scritti filosofici, cit., pp. 53-55), ma finisce poi per confrontarsi essenzialmente con la  Crisi delle scienze europee, cui  affianca qualche riferimento a La filosofia come scienza rigorosa . Entro questo orizzonte  di lettura,  l’interpretazione di Husserl data da Enzo Paci in Tempo e verità  nella  fenomenologia di Husserl, del 1961 appare in piena evidenza come un filtro essenziale della lettura demartiniana, piuttosto che come uno dei possibili punti di vista critici. Come è stato osservato (cfr, F. S. Trincia , Idealismo e fenomenologia: Enzo Paci, l’esistenza e l’irrazionale, in  Idealismo e anti-idealismo nella filosofia italiana del Novecento, a cura di P. Di Giovanni, Milano 2005, pp. 359-360), la presenza del «bisogno di futuro» nella interpretazione paciana della Crisi trova un riscontro assai debole nella struttura del tempo husserliano. La stessa nozione di «libertà», che Paci introduce per  definire l’esigenza dell’oltre temporale sempre da raggiungersi, possiede caratteristiche metafisiche «ed è condizionata dall’ansia umanistica di fornire una interpretazione immediatamente etica» dell’opera postuma di Husserl. Si tratta di un’ansia che in Husserl stesso manca – o è presente in una forma assai indiretta, poiché il motivo ispiratore di essa è rappresentato dall’idea di una «storicità apriori» plasmata dalla nozione di una «origine» sempre riattivantesi, piuttosto che di un semplice telos da attingere. L’ «ethos del trascendimento» di De Martino costituisce la traduzione, nel suo vocabolario, della stessa ansia di valore autovalorizzantesi nel costante  trascendimento del dato antropologico ed esistenziale e anche la categoria della libertà viene declinata da De Martino all’interno della  lettura della Crisi nella chiave defeticizzante di ascendenza marxiana della quale non è agevole trovare un riscontro in Husserl.

     Un passaggio di grande interesse filosofico è costituito dall’analisi del modo in cui l’ «ethos del trascendimento» si trasforma nella «genesi del trascendenza» e nella istituzione della simbologia religiosa (cfr. Scritti filosofici, pp.12-15). Mentre più avanti l’interpretazione della Crisi sarà interamente giocata sul movimento del trascendimento che non può non rinviare ad una datità che deve essere tolta, qui De Martino coglie piuttosto quel che accade quando la crisi dell’ethos del trascendimento si rovescia in se stessa nella affermazione religiosa del compito di «valorizzazione» inteso come «essere assoluto». Qui l’aiuto che può venire dalla fenomenologia husserliana si rivela limitato ed è semmai l’esistenzialismo positivo di Nicola Abbagnano che offre una prospettiva da seguire. Il trascendimento della vita nel valore che «comporta la risoluzione dell’essere nel dover-essere-per-il-valore» si presenta per quel che è,  una sorta di raddoppiamento del dover essere che viene collocato a fondamento di quel valore ricercato dal dovere essere , il quale è esso stesso dover essere, ossia  la «trascendenza dell’essere» che De Martino vede  soppressa insieme  alla «alternativa della irraggiungibilità di questo trascendente e allo sprofondamento nel finito». In questo caso,  il riferimento esplicito essenziale ed insistito alla categoria del «valore» rende infatti difficile la sovrapposizione  della intenzionalità fenomenologica alla «inesauribilità dell’essere in quanto essere qualificato secondo valore». D’altra parte, è proprio questo schema ruotante sul valore (nei suoi tre momenti di vita che passa nella «vita che vale», di una valorizzazione che introduce altre valorizzazioni e della accessibilità dell’ «essere che vale» grazie alla valorizzazione) quel che  la fenomenologia non saprebbe spiegare.

     Il fatto che Husserl presenti l’intenzionalità nella infinita molteplicità della sue forme non autorizza affatto ad introdurre nell’atto intenzionale singolarmente determinato l’ambivalenza che De Martino vede presente nella circostanza  che la «trascendenza» si generi al tempo stesso come rischio e come «ripresa del rischio nel simbolo mitico-rituale». Abbiamo qui a che fare non con il ristabilirsi della trascendenza nell’immanenza come conseguenza della risoluzione fenomenologica  dell’ «enigma» della conoscenza. Né, in generale, abbiamo a che fare con la definizione delle strutture di una filosofia della conoscenza. E’ infatti in tutti i sensi osservabile , descrivibile, ma non spiegabile, né fondabile in base all’atto di una soggettività costituente, il fatto che  il rischio e il «tutt’altro» rispetto ad esso, ossia la sua ripresa simbolica, coincidano e nel coincidere diano vita ad una trascendenza  padroneggiata – anche se  di nuovo pensata come un «compito» espressivo della minacciosità del suo dover essere.  E’ difficile quindi tentare di fornire  un qualche fondamento argomentativo alla tesi demartiniana. E’ forse  qui, in tale suo carattere descrittivo, la sua del tutto inconsapevole e forse anche involontaria parentela  con la  fenomenologia. De Martino parla di una possibilità di «deduzione» della «genesi della trascendenza» dal principio della presentificazione in quanto «ethos del trascendimento della vita nel valore» e dal  rischio della crisi di  tale ethos. Ma questa «deduzione» è difficilmente concepibile nella sua attuazione, se non come descrizione di quel che accade sul piano  di una vicenda  antropologica. Accade,  infatti, ma non  può essere «dedotto», che nel simbolo religioso o metafisico il rischio e, insieme, la ripresa del rischio si definiscono come il «tutt’altro».

    «Nella trascendenza religiosa – come esperienza e come orizzonte – l’uomo pone fuori e sopra di sé, come compito, il non poter essere, il non poter essere che minaccia il suo dover essere: la trascendenza religiosa è il luogo in cui questo suo “non potere” muta il segno passando dalla alienzazione radicale  alla relativa riappropriazione». Chiedere a De Martino di dar conto del come la minaccia incombente del suo non potere essere il suo dover essere divenga da alienazione riappropriazione, ma restando compito; chiedergli, in particolare, perché la trascendenza religiosa assuma tale contenuto e il rischio incombente sul potere essere muti di segno in quanto posto «sopra di sé», significa candidarsi ad una risposta impossibile. Ma anche ritenere che siano qui rinvenibili le tracce di una descrizione che può spiegare l’interesse per la fenomenologia significa cadere nell’equivoco di dimenticare che la fenomenologia husserliana presuppone la riduzione dell’antropologia e non è quindi antropologia. Se questo è vero, possiamo dire di aver trovato qui  il “modo” peculiare del filosofare demartiniano e del suo confrontarsi con la filosofia husserliana: un modo che non può non lasciare l’impressione di un approccio strumentale che fa di tale filosofia il mezzo di verità che non sono le sue. Ma la fenomenologia appare qui “tradita” già nel suo essere un metodo non modificabile per quel che riguarda la natura eidetica ed essenziale, non descrittiva, dei fenomeni che essa coglie. E lo è una seconda volta nel suo divenire il luogo in cui il pensiero antropologico tenta di trovare un suo più solido linguaggio, o il suo vocabolario filosofico. La parte husserliana di questi Scritti filosofici  può essere compresa nella  peculiare maniera dell’approccio alla Crisi che vi si esprime, proprio a partire dalla prospettiva offerta dalle pagine iniziali che stiamo esaminando.
     Sembra sfuggire a De Martino che il linguaggio della sua antropologia è il linguaggio della crisi delle scienze. O, in termini ancora più chiari, che il suo modo di  descrivere la possibile crisi, il possibile rischio distruttivo del poter essere un dover essere da parte della vita, “racconta” questa crisi nel linguaggio stesso della crisi. La natura della trascendenza religiosa, la sua capacità di «reintegrazione» e il confronto tra ciò e la crisi dell’ethos del trascendimento vengono descritti come comportamenti antropologici di “persone non fenomenologicamente ridotte”. E’ con questo occhio metodologicamente smaliziato, non più ingenuo, che deve essere giudicata la tesi, pur carica di fascino, di un pensatore che si accinge ad assorbire la fenomenologia husserliana. Questo punto, si  vorrebbe qui rilevare, è almeno altrettanto importante della comprensione di quel che De Martino sostiene quando scrive che  «ciò che nella crisi dell’ethos del trascendimento si spalanca sul “tutt’altro” come nulla, nella reintegrazione religiosa si ribalta nel “tutt’altro” come essere assoluto, come orizzonte di ripresa dei compiti di valorizzazione. La vita religiosa narra di questo spalancarsi rischioso…e di questo riprendersi mediato».

     Questa osservazione non deve impedire di cogliere la profondità della definizione demartiniana della religione. Nella religione il «tutt’altro della presentificazione abdicante» vede rovesciato il suo segno. La religione non è lo strumento della reintegrazione della presentificazione, poiché è piuttosto il “luogo” in cui tale mutamento di segno si produce. La trascendenza è il modo in cui si manifesta la circostanza che il divenire «tutt’altro», a causa della crisi dell’ethos del trascendimento, «riprenda il cammino verso se stesso: lo riprende a partire  dal tutt’altro, che però ora si riplasma in orizzonte “trascendentale” con cui entrare in rapporto, cioè in orizzonte di ripresa della valorizzazione». Nella trascendenza religiosa l’alterità aperta dalla crisi della trascendenza  conduce se stessa alla opposta ed eguale alterità «ridischiudente le potenze operative». Ripetiamo: non si chieda a De Martino di dar conto di tale autosuperamento religioso della crisi. Né lo si rimproveri di aver realizzato in fondo una sostituzione del ruolo che la riduzione fenomenologica gioca nella denuncia della crisi e nella apertura di una verità diversa, con il ruolo che viene fatto giocare alla trascendenza religiosa quale rovesciamento del senso della crisi. Se ci si asterrà da tale atteggiamento, da cui pure un esame critico degli Scritti filosofici  non può esimersi, emergerà in tutto il suo interesse l’immagine della religione quale potenza metafisica della conversione, o della inversione, della direzione della vita dello spirito – il luogo in cui il dover essere fattosi  oggetto trascendente, resta  un dover essere e mette in movimento le «potenze operative».

      Risponde ad una precisa strategia di lettura mirante alla “despiritualizzazione” dell’automovimento della categoria dello «spirito» idealistico, e alla esigenza di fornire alla nozione di «valore» valorizzante costantemente la vita senza sottrarre alla operazione il «rischio» del fallimento, il fatto che l’interpretazione della operazione di matematizzazione del mondo  compiuta da Galilei, e ricostruita da Husserl nelle parte iniziale della Crisi venga  riassunta da De Martino nella formula secondo cui Galilei «astrae dai soggetti in quanto persone, in quanto vita personale, da tutto ciò che in un senso qualsiasi è spirituale, da tutte le qualità culturali che le cose hanno assunto nella prassi umana» (Scritti filosofici, cit., p.114). Lo «spirito» idealistico, esistenzializzato bensì, ma pensato nella forma di un «ethos» dell’andar oltre rischiando la catastrofe apocalittica, abbisogna di una filosofia di riferimento. La fenomenologia si offre  come utile strumento per questo scopo, ma deve essere interpretata in un certo modo: deve essenzialmente diventare una filosofia dell’esistenza, ciò che in Husserl essa non è . Acquisire coscienza della «astrazione» galileiana significa riconquistare il concreto, ossia «ricostruire le qualità culturali delle cose, … rituffarle nella prassi umana in cui stanno come traccia documentaria materiale e, al tempo stesso, come argomento di nuova prassi». L’enfasi posta da De Martino sulla convinzione che  l’impresa di Husserl nella Crisi ruoti intorno alla riconquista del concreto pensato come «prassi» dove le cose riacquistano il proprio senso culturale, compie una forzatura molto netta  della posizione husserliana. Qui, s’è detto,  è semmai il bisogno di una riattivazione dell’originario quel che alimenta la  presa d’atto – essenzialmente non polemica e tutt’altro che rinviante al recupero della prassi contro la astratta teoria matematizzante – dell’oscuramento  dell’ambito preteoretico di ogni teoria. Qui, per lo stesso motivo, manca il richiamo al recupero della dimensione «culturale» delle cose – se non nel senso del rinvio al preteoretico che difficilmente potrebbe essere tradotto nel «culturale» demartiniano .

     Concludendo il suo Funzione delle scienze e significato dell’uomo  (Milano 1963), e in particolare la terza parte dedicata a Fenomenologia e marxismo, Enzi Paci scrive  che l’analisi del capitalismo  «ci fa tornare alle cose, alla loro realtà nascosta dietro l’apparenza trasformatasi obiettivamente in realtà. La realtà non si presenta più in maschere e in forme apparenti , ma per quello che è…» (ivi, p. 455). E nell’indicare le caratteristiche di quella che chiama « philosophia perennis» osserva che  la «contraddizione categoriale» non è una legge naturalistica, «ma richiede la fondazione umana». Essa quindi «esige il movimento di negazione del categoriale astratto e quindi la critica dell’illusorio e dell’apparente». Ne consegue che la fenomenologia è essenzialmente una «prassi» , dato che «le forme fenomeniche fungono come reali» e quindi «l’analisi che  trasforma le forme apparenti che nascondono le cose stesse in apparire delle cose stesse, in fenomeni delle cose, in uno Schein che è Schein del Sein – nel che precisamente consiste l’analisi fenomenologica – non è un’analisi speculativa, ma è fin dall’inizio, e per essenza, una prassi» (ivi, p. 460). De Martino ribadisce il riferimento marxiano della nozione di prassi. Questa implica la risoluzione del mondo dei corpi «nella prassi storico-culturale che lo genera» e  inoltre  richiede di essere determinata come «progetto comunitario di utilizzazione della vita in un senso molto prossimo a quello marxiano». La curvatura assegnata da De Martino alla nozione di prassi verso la conclusione del passo che esaminiamo ne sposta il significato nella direzione della sua antropologia. La ripresa della polemica antinaturalistica di Husserl contro la riduzione dello psichico a “oggetto”, a “res” serve a delineare «la prassi valorizzante nella sua dialettica interna che comporta anonimato e presenza, domesticità e domesticazione, tradizione e iniziativa, socialità e singolarità e che inaugura sempre di nuovo l’esistere» (Scritti filosofici, cit., p.115). De Martino riporta subito dopo la nota tesi husserliana secondo cui «noi, in quanto viviamo nella coscienza desta del mondo, siamo costantemente attivi sullo sfondo di questo passivo avere-il-mondo (Welthabe) ». Ma il modo peculiare della sua lettura della nozione della passività è chiaramente segnalato dalla molteplicità eterogenea dei poli dinamici tra i quali la passività ai suoi occhi si muove costantemente superandosi. Per Husserl si tratta della passività in cui noi  siamo desti avendo tuttavia un mondo sullo sfondo. Per De Martino, ciò diventa la dialettica (molto husserliana se si prescinde proprio dalla dialettica) di anonimato e presenza, ma anche di domesticità e di domesticazione, di singolarità e socialità. In questo slargamento della dialettica della passività quest’ultima perde inesorabilmente i caratteri husserliani originari e diventa metafora della dinamica polarità della intenzionalità della coscienza, a sua volta interpretata come equivalente all’ethos del trascendimento.

     Nel citare il Paci che interviene in Omaggio a Husserl, Milano 1960, De Martino esplicita l’equazione: «Paci, Omaggio a Husserl. Perdita dell’intenzionalità come perdita dell’ethos del trascendimento. La follia come questa perdita (Husserl, Erste Philosophie et.) ». Ricorda Sartre di Che cos’è la letteratura e scrive : «Questa coscienza che “nega se stessa per non rimanere in sé prigioniera”, questo suo “oltrepassare” intenzionante che la costituisce come coscienza ha il suo fondamento trascendentale nell’ethos del trascendimento e il suo rischio nel crollo di tale ethos: rischio che comporta  nella sua modalità radicale, il non poter emergere per la valorizzazione su tutto il fronte del valorizzabile…» (Scritti filosofici, cit., pp. 148-149).

PUBBLICATO IL : 18-11-2005
@ SCRIVI A Francesco Saverio Trincia