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Rossana Rossanda, La ragazza del secolo scorso , Einaudi, 2005
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di Francesco Saverio Trincia |
Appartiene alla storia della cultura comunista e più in generale progressista del nostro paese negli anni sessanta e settanta il vero e proprio culto, la profonda fascinazione intellettuale che molti di noi – militanti del PCI con lo spirito anzi, meglio, con l’atteggiamento antropologico che Rossana Rossanda incarna nelle parole delle sue incatalogabili, letterariamente impareggiabili, pagine autobiografiche, facendolo vivere piuttosto che soltanto descriverlo e raccontarlo dall’esterno – provavano nei confronti della tecnica teatrale della estraniazione che Bertold Brecht imponeva agli attori dei suoi drammi. Non potrà, credo, essere dimenticata da coloro che partecipavano con mente attenta, con attenzione che voleva essere lucida, con spirito razionale si direbbe, piuttosto che con la fede in una appartenenza storica necessaria, la sensazione che la Vita di Galileo Galilei offriva a chi seguiva la performance teatrale di Tino Buazzelli, facendosi accompagnare dalla coscienza che erano in scena al tempo stesso una storia di repressione della libertà del pensiero e della ricerca scientifica, e un modo molto specifico di raccontarla. Brecht ci diceva di uno sguardo trasversale gettato sulle vicende rappresentate, di una vicinanza e di una ‘internità’ emotive rivolte al rischio mortale corso dai valori che si volevano invulnerabili e che si vedevano ridotti a strame nella vicenda di Galilei. Queste vicende, proprio in virtù del coinvolgimento della mente e del cuore di tutti, proprio per il fatto di concernere una sfida alla universalità del valore della libertà, richiedevano niente affatto paradossalmente un rapporto basato su una distanza controllata. Senza questo modo del mettere in scena, senza questa distanza, la storia stessa sarebbe stata diversa da come Brecht voleva che fosse, avrebbe avuto un altro senso: sarebbe stata solo una storia, sarebbe stata un resoconto nobile ed umanisticamente animato, ma non avrebbe trasmesso una certa idea della vicenda umana accompagnata o contrastata dalla ragione morale e politica. La recitazione brechtiana, capivamo, era stata concepita come lo strumento per spezzare radicalmente una identificazione con il tema rappresentato che era tanto più sentita come ovvia, come spontanea, come accoglibile in pieno abbandono estetico ed ideologico, quanto più l’universalità del dramma rappresentato sembrava non lasciare altra scelta. Brecht ci insegnava che il coinvolgimento trasversale nelle passioni che ci portano a difendere l’humanitas messa in pericolo, ossia lo star dentro le cose che accadono (per l’attore: lo stare dentro le parti che mette in scena), è tanto più vero e più autentico, quanto più esso è al tempo stesso uno stare fuori, un comportarsi come “spettatori non partecipi” (l’espressione, si ricorderà, è dell’Edmund Husserl che entra indirettamente nella cultura settentrionale della comunista Rossanda al posto di Benedetto Croce, mentore di altri comunisti italiani). Brecht aveva capito che la freddezza oggettivante dello spettatore non partecipe (e dell’attore che si estranea da sé nell’atto stesso in cui si cala in una parte) assegnava alla partecipazione, alla lotta , alla scelta morale e politica non un di meno ma un di più di forza. Aveva capito che quest’ultima non nasceva solo dal fatto che la partecipazione alla lotta fosse costantemente controllata da una ragione che offriva ad ogni individuo chiamato alla battaglia politica e sociale, lo scarto, la differenza da sé cui era affidata la possibilità di correggersi, di capire gli altri e di non accettare l’eventualità di opprimere i propri stessi compagni di lotta. Al centro era, naturalmente, la questione del comunismo, dell’essere comunisti. Lo era per Brecht, lo era per i suoi spettatori occidentali. Per questi ultimi non era in gioco soltanto, dunque, una “uscita di sicurezza”. C’era, più al fondo, l’intuizione filosofica andidealistica e antistoricistica (che il lui prendeva l’aspetto della scelta culturale, letteraria, artistica espressionistica) che appartenere ad un programma, ad un progetto, ad un partito si deve, certo, ma senza sostanzializzare ciò in cui si fa confluire la forza, l’intelligenza, la sempre modificabile e revocabile scelta individuale. C’era l’intuizione, che conduceva molti a militare a difesa della libertà sotto le bandiere del PCI, che tutto si riconduce all’atto costituente di una coscienza, per la quale sono e restano quel che chiamiamo storia, progetto, programma, partito. C’era la convinzione (che avrebbe mostrato presto di poter entrare in attrito con lo strumento scelto per le proprie lotte di libertà) che il soggetto che ciascuno di noi è, è sempre doppio, che uno dei lati della sua duplicità accanto a quello che opera nel mondo, è quello che osserva disinteressatamente, e, osservando, offre al primo lo sfondo di senso più autentico. Sapevamo bene, intuivamo, leggevamo che il teatro di Bertold Brecht era un teatro politico.
Proprio per questo motivo , assimilavamo – quelli di noi che comunisti allora come la Rossanda, e non più comunisti in seguito, a differenza della Rossanda (ma questa differenza è, nell’essenziale, irrilevante), leggono oggi la storia della vita di questa comunista e vi si ritrovano e persino vi si identificano, non forse nonostante ma in virtù della differenza di quel modo della militanza e delle sue scelte rispetto al proprio, assimilavamo un modo diverso del fare politica, persino una nozione diversa della politica. Era, il nostro, un modo di prendere posizione nel comunismo, salvaguardando il valore della libertà che ci aveva avvicinato ad esso e per la quale ritenevamo, entro il comunismo, di combattere. Si conoscevano, è ben vero, le poesie di Bertold Brecht inneggianti al partito che ha sempre ragione, che è l’anima più intima di ciascuno di noi. Ma, sarà la distanza dei tempi, sembra di poter dire oggi, che quella immagine del partito comunista – a cui corrispondevano già nella realtà e da tempo lacrime, sangue, violenze, sofferenze inflitte ai “compagni” nell’orrore dello stalinismo, per quanto diversi fossero i gradi di questo orrore da partito a partito – appariva carica di fascino letterario, sembrava solo letterariamente valida. In ciò, naturalmente, si nascondevano delle ingenuità, e anche molto gravi. Ma certo, il Brecht che ha influito sull’essere comunisti di molti di noi è stato l’altro, quello che usava la parola “estraniazione” nel senso teatrale dello sguardo laterale sulle cose cui pure si partecipa, piuttosto che nel senso dialettico cui ci indirizzavano i Manoscritti marxiani del 1844, che ci dicevano di una estraniazione sociale, di un fenomeno negativo di spoliazione, cui il comunismo avrebbe messo fine. La trasversalità che lascia libero il soggetto pur coinvolto apriva la via della composizione tra istanza politica e morale. Questa stessa trasversalità è la chiave in cui Rossanda ha raccontato la sua storia. Identificare questa chiave e farla propria, significa entrare in sintonia con questo libro tanto lontano e pure tanto vicino a molti, forse a tutti i ragazzi italiani “del secolo scorso”.
Molto di più e certo in maniera incomparabilmente più intensa che in scritti di altri, Rossanda mette in scena il comunismo italiano e il rapporto di tanti esseri umani con esso. Più che altrove, qui il comunismo italiano è ‘sfidato’ lateralmente e tanto più radicalmente messo in discussione nel suo senso, prima ancora che nei suoi risultati. Non è in alcun modo liquidato, né respinto né rinnegato. Ma mai come qui, esso appare lontano, psicologicamente estraneo anche se intellettualmente e moralmente difeso, rivendicato, persino riproposto. Non sono certo che nelle pagine della Rossanda Bertold Brecht sia mai ricordato, o forse anche lo è come indice della vivacità della cultura milanese e della sua diversità da quella romana. E’ certo, tuttavia, almeno per chi scrive, che brechtiana è la lezione che viene da queste pagine, che in esse parla una Rossanda estraniata, trasversale, partecipe e ormai lontana, coinvolta in una storia che è intimamente sua, ma che le è divenuto possibile di oggettivare, parlandone come se non fosse più del tutto sua. Perciò vi si legge, vi si intravede, un modo della politica diverso, e al tempo stesso un diverso essere comunisti in Italia, rispetto a quello che molti hanno vissuto. Soprattutto: un modo di essere comunisti che conduce alla fine di quella militanza e all’uscita da quella appartenenza, senza che uscita, fine, chiusura dell’appartenenza equivalgano in nessun modo alla cancellazione di un valore, di un senso, di una scelta, che restano per un aspetto almeno, irriducibili alla storia che pure li ha partoriti, alimentati, contenuti. Rossana Rossanda vive o meglio rivive il comunismo che è stata la sua vita, mettendolo in scena nel suo libro, facendone l’oggetto di una rappresentazione letteraria che ne rappresenta la più originale interpretazione. Rivive il suo comunismo e lo fa rivivere a chi lo ha vissuto, esattamente nel modo in cui Buazzelli interpretava il Galilei di Brecht. Getta su di esso uno sguardo controllatamene distante, volutamente estraniato. L’attore (l’attrice, che lei stessa è ) non si perde in quella storia. Essa non la fagocita. Il suo esito negativo non annulla nella sua fine il soggetto che ha scelto di esservi con tutta la sua vita, per tutta la sua vita. Perciò questa storia è soggettivamente sua. Perciò questa storia non è narrata con il tono caldo e commosso di una autobiografia, né con la falsa ed impossibile neutralità storiografica di chi vuole testimoniare di eventi e di passioni, e anche di molti, moltissimi errori, che hanno segnato la storia di una militante del PCI, dal fascismo, alla Resistenza, al dopoguerra della modernizzazione, all’oggi della fine del comunismo. Non le appartiene soprattutto lo stile di chi vuole prendere le distanze senza dirlo, una delle forme peggiori dell’abbandono della fede comunista, espressione di un trasformismo interiore che ha sempre evitato di indagare e di spiegare il senso di una fine. Lo stile di Rossanda, spezzato, antiletterario, difficile, talvolta apparentemente sciatto, veloce, sempre paratattico, sistematicamente antistorico costituisce un unicum nel panorama non molto affollato della riflessione dei comunisti e sul loro (nella maggioranza dei casi, passato) comunismo. Questo stile freddo, laico e razionalistico piuttosto che illuminista, essenzialmente disincantato nonostante le passioni -uno stile che si avrebbe voglia di definire filosofico poiché vi si sente la traccia delle “teorie della ragione” e della “relazione” che hanno contrassegnato la vita della filosofia milanese tra Antonio Banfi e Enzo Paci – autorizza Rossanda a vedere negli errori, nelle incomprensioni, nei ritardi, nell’arrivare sempre o spesso post festum rispetto alle cose soprattutto sociali e al loro svolgimento, il filo rosso che accompagnava la vita di una militante attenta, la anormale normalità di una vita di impegno comunista, avvicinantesi sempre più ai vertici decidenti. E’ difficile non cogliere in queste pagine la radicalità esistenzialistica con cui il sartriano Roquentin racconta della sua “nausea”. Sartriana ed esistenzialistica è la inutile passione che impedisce in queste pagine allo svolgimento storico di personificarsi in un qualcosa come “la storia” e quindi di essere catturabile in una teoria della storia, in uno sforzo di previsione coronato da successo. Esso infatti, la storia, gli eventi, quel che via via veniva accadendo sulla scena nazionale e internazionale (un esempio per tutti: le rivelazioni di Kruscev, oggetto inizialmente di burocratico e politico occultamento da parte dei vertici del PCI), appare agli occhi di Rossanda fornito di una sua vita, sopravanzante sempre e comunque la volontà della politica di catturalo, di dominarlo, di piegarlo ad un progetto.
Perciò, il tono di questo potente libro, è di dolente, spesso triste, ma non per questo rinunciataria denuncia della ‘impotenza’ della politica, dei limiti che hanno stretto e costretto il grande progetto della trasformazione in senso comunista di una società liberaldemocratica. Il grigio, inteso non come colore del compromesso, né bianco né nero, ma come il non colore della sfumatura , della difficoltà di indicare i confini netti di quel che era e di quel non era, o che si riteneva che non fosse giusto fare o opportuno non fare, è la tonalità di colore di questo libro. E’ il grigio della nebbia milanese alla cui natura sembra di poter attribuire una capacità di salvezza senza fratture nette, senza scomuniche o autoscomuniche, senza cambiamenti di campo alla ricerca di una autenticità che, in chi il campo lo ha cambiato, è mancata fin dall’inizio. Non si vorrebbe essere retorici di fronte all’espressione letteraria dell’antiretorica, come è il caso de La ragazza del secolo scorso. Ma è forse profondamente vero che il sapersi guardare e raccontare dalla distanza partecipata di un secolo, come vuole fare con se stessa Rossanda per indicare la continuità e la rottura del suo tempo individuale di vita pubblica, offre a noi oggi – a chi è stato come a chi non è stato comunista: da questa prospettiva essenziale la differenza non conta molto, ripetiamolo – un modello di eticità incarnata di cui si avverte dolorosamente l’assenza nel panorama italiano. Può apparire paradossale per un libro che come questo è così radicalmente ‘di parte’, di una parte sola, che con fredda passione parla della storia individuale di una comunista e tutto pone nella prospettiva in cui gli eventi si mostrano allo sguardo di parte, ma circola in esso una universalità estetica e etica che raramente si è vista da ultimo nella prosa in lingua italiana. |
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