Antonio La Penna, che ha compiuto quest’anno gli ottant’anni, pubblica su invito di Gino Tellini e nella collana di Biblioteca di Letteratura da lui diretta per la Società Editrice Fiorentina un’ampia raccolta di Aforismi e Autoschediasmi. L’origine e storia di tali annotazioni viene descritta dall’autore nella Prefazione, dove se ne ricorda la lontana pratica insieme alle occasioni che ne hanno consentito una parziale pubblicazione su varie riviste non specializzate, l’ultima delle quali «L’immaginazione» di Lecce.
Mi pare che il titolo presenti una descrizione di prima approssimazione del contenuto del libro – gli “autoschediasmi”, come recita il vocabolario Treccani, designano «ciò che si costruisce estemporaneamente; improvvisazione; discorso improvvisato» e richiamano il «parlare improvvisato», mentre per gli “aforismi”, la cui lunga tradizione filosofica è ben nota, l’autore sottolinea, in chiusura della sua Prefazione che «Un aforisma non è, e non vuol essere, un dogma».
La sobrietà dello stile è riconoscibile anche nell’assenza di ogni forma di auto-esaltazione e nel silenzio steso dall’autore sul proprio lavoro universitario e sulla significativa “scuola” di allievi che ne è derivata. L’arco di tempo coperto – che va dal 1958 al 2004 – segue per quasi un cinquantennio vicende personali e pubbliche ampiamente rappresentative della storia culturale e politica dell’Italia attuale; la scelta raggiunge i suoi picchi nel periodo 1969-1973 – il periodo più consistente, che, nonostante l’assenza del 1972, raccoglie con 102 annotazioni circa un terzo del totale e trova nel 1973 il suo anno di punta (40 note) – e in quello 2000-2004, che raccoglie 76 note, per un totale di un quarto delle annotazioni complessive. Il primo periodo ha rappresentato un momento particolare dalla vicenda storica e culturale italiana, tra gli esiti del Sessantotto e l’inasprimento dei conflitti sociali degli anni successivi.
Nella sua Presentazione Massimo Mugnai coglie il focus della “filosofia pratica” dell’autore, definibile come un «empiriomaterialismo» (p. X), secondo una designazione che La Penna fornisce già in un pensiero del 1969 (cfr. p. 67), ma che verrà più ampiamente tematizzato nella riflessione del 1978-1987, così intitolata (cfr. pp. 165-166). Si tratta di una concezione che, muovendo da una visione materialista priva di ogni sbocco ottimistico – «L’uomo è tutto materia sin dalle origini e non si libererà mai dalla materia: non c’è redenzione» (p. 160) – intende integrarla con una forma di neokantismo, nella «tendenza [insieme soggettiva e oggettiva] a unificare il campo della conoscenza su base materialistica attraverso il progresso delle scienze» (p. 166). L’esito morale di tale visione della conoscenza appare come la ricerca di «una ragione più valida» (p. 140) rispetto a quella della civiltà moderna, si configura come un “razionalismo laico” espresso nella «negazione di ogni trascendenza, negazione di ogni ascetismo, limitazione della conoscenza nei confini dell’esperienza, attaccamento ad una morale che non annulli l’utilità, il piacere, ecc.» (p. 67). Una filosofia del limite, dunque, insieme gnoseologico e morale, che trova un esito pratico in una forma raffinata di edonismo, ben sintetizzato in un pensiero del 1971 (Sono forse un estetizzante?), nel quale viene proposta una gradazione dei piaceri della vita: «fra questi piaceri il più profondo e il meno effimero è quello dato dall’arte, a cui è in qualche modo affine quello suscitato dagli spettacoli naturali; vengono poi quelli dati dall’amore e dall’amicizia» (pp. 102-103). Se si tratta tuttavia di un edonismo che deve fare i conti con la morale dello Streben, «malattia inguaribile contratta in giovinezza» (pp. 170-171), ma che non trascende mai un limpido e conseguente ateismo, se non nella dimensione, anch’essa risolutamente materialistica, dell’eros (in chiusura dell’Appendice I, datata fine 1999 e dedicata a Sei riflessioni sull’eros, l’autore scrive: «L’eros nella sua integrità è una delle pochissime esperienze che possono tentare un ateo a forme di panteismo o di misticismo», p. 289). Una più compiuta presentazione dell’empiriomaterialismo è raccolta nell’Appendice II del 28 luglio 1985 dal titolo Piani inclinati (Considerazioni elementari di un empiriomaterialista), che ricava dal progresso delle scienze l’indicazione metodologica, efficace se pure incompleta, che «l’unica idea valida per l’unificazione del sapere è il divenire della materia» (p. 292); nella tensione all’unificazione del sapere risiede il senso profondo del metodo materialista, che si contrappone a una specializzazione che può condurre a «un piano inclinato, che può portare all’agnosticismo sprezzante o anche più in là, fino al misticismo religioso» (p. 292), ma che costituisce la condizione dell’oggi e va integrata e contrastata, e non ottusamente trascurata.
Ma seguiamo ora alcune espressioni concrete della “filosofia pratica” di La Penna, nel loro svolgersi in modo non lineare nell’arco lungo di annotazioni scritte anche alla luce di aspetti rilevanti della vita civile e sociale dell’Italia dell’ultimo cinquantennio.
Inizio dalle due note successive del 1966 relative alla “crisi dello storicismo” e al “logoramento dell’umanesimo”, che avviano la riflessione su temi cari e ripetuti. Non si tratta soltanto di rimarcare l’usura dello storicismo idealistico ed hegeliano, propugnatore di una visione della totalità che è, «come la divinità, un a priori teologico» (p. 24), ma anche di quello marxista, in quanto anch’esso sviluppa una concezione a priori, ancorché materialista, del processo dialettico, risultato di un paradossale handicap derivato dalla trasposizione nel marxismo della dialettica hegeliana, apportatrice di «buone lenti», ma insieme di «paraocchi» (p. 251); «le forme del divenire – avverte La Penna nel suo empirismo – non sono fissabili a priori e vanno ricavate anch’esse dall’esperienza» (p. 25). Tale critica senza ritorno dello storicismo non comporta una disaffezione nei riguardi della storicità, nella direzione di quella tendenza che negli anni successivi sarà individuata come “strutturale”: La Penna segnalerà i limiti di una visione dello strutturalismo come metodo guida per l’intera conoscenza della realtà in una nota del 1971, illuminante per perspicuità metodologica (cfr. pp. 92-95). Si tratta piuttosto del contrario: dissolvendo le incrostazioni di apriorismo presenti in ogni storicismo viene liberata la forza cognitiva della storia e delle scienze storiche, forza cognitiva alla quale La Penna rimarrà sempre fedele. E, con lo storicismo, va abbandonato anche il mito umanistico, nella cui vaghezza si ritrovano le più svariate filosofie, negando tutte proprio quella radice naturale dell’umano che spiazza ogni definizione assiologica e ancora una volta a priori di “uomo”.
Un altro Leitmotiv mi pare si possa individuare nell’ambivalenza del rapporto proposto nei riguardi della filosofia. La filosofia (e in essa è compreso il marxismo) è sì anch’essa, come la religione, un «oppio degli intellettuali» (p. 104) – come recita il titolo di un pensiero del 1971 –, una forma di illusione nella sua costruzione di valori assoluti e di “idoli”, ma c’è anche «una filosofia seria [per l’appunto l’empiriomaterialismo], che spazza le illusioni religiose, che tiene l’uomo saldamente ancorato alla natura e ne fissa i limiti gnoseologici e morali» (ivi). Certo tale filosofia è minoritaria – aggiunge La Penna nel pensiero Sulla morte della filosofia –, ma ciò non significa dar valore alle prediche sulla morte della filosofia, che, se si realizzasse, comporterebbe anche l’estinzione di quello spirito critico, di quella «salutare funzione negativa» che consente di evitare il diffuso «qualunquismo intellettuale» (p. 106), quel «qualunque vivere» immerso in una «sorta di semicoscienza o di torpore» (p. 217). Tornando sull’argomento nel 2002 e nel 2003 La Penna pare far prevalere la visione negativa di una filosofia che si muove in sintonia con la religione celando nel mistero alcune verità elementari, quali l’esistenza di una radice anatomico-fisiologica del pensiero e la totale improponibilità di una visione provvidenziale della natura e della storia, di una qualche teodicea. E tale torsione negativa vale – negli stessi anni (2001) – anche nei confronti dell’Illuminismo, di un «illuminismo d’altri tempi», il cui limite viene riconosciuto nella figura sicuramente singolare e rilevante di Giulio Preti, che tuttavia «aveva una sconfinata fiducia nel pensiero razionale» (p. 227). A essa si unisce un riesame del discrimine tra le filosofie, infine individuato «tra le filosofie che offrono queste garanzie [«rassicurare illusoriamente l’uomo»], e le filosofie che non le offrono, abbandonando l’uomo alle sue forze precarie e al suo avvenire incerto» (p. 249); soltanto se manterrà aperta la dimensione dell’incertezza umana la filosofia avrà assolto al suo compito, insieme critico e materialistico.
L’ambivalenza nei confronti della filosofia coinvolge più specificamente il marxismo, orientamento al quale La Penna si è avvicinato in forme sempre meno convinte: anche in questo caso, dinanzi a un marxismo inficiato di storicismo e di hegelismo, l’autore rivendica la possibilità di aprire il marxismo alle «grandi conquiste delle scienze del Novecento» (p. 117), allo stesso modo in cui Engels lo aprì al darwinismo. In questo quadro assume un rilievo particolare il riconoscimento dell’apporto antimetafisico che le scienze moderne possono fornire a un rinnovato materialismo, non fossilizzato su una statica e generica concezione della materia; la «ripresa del pensiero materialista» (p. 123) auspicata in una nota del 1973 consiste proprio nella sua rivitalizzazione alla luce degli sviluppi scientifici odierni, specie in quegli ambiti biologici e umani nei quali gli apporti scientifici hanno una più diretta ricaduta sulla concezione dei rapporti storici e sociali.
La bella evocazione del paradosso di Achille e della tartaruga, illuminato da una pagina di Nietzsche, sembra suggellare la vivacità delle annotazioni del libro e la loro irrisolta complessità: «l’adolescente che sente germinare e svilupparsi in sé mille interessi» (p. 135) e che è ridotto all’impotenza dalla «ricchezza di problemi» è metafora dell’autore stesso.
Una versione più ampia della presente recensione è stata pubblicata sul fascicolo 239/2005 della rivista «Italia contemporanea». |