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Laura Sanò, Le ragioni del nulla. Il pensiero tragico nella filosofia italiana tra Ottocento e Novecento. , Città Aperta, 2005
di Daniele Mastrangelo

         Di fronte all’indagine storica che voglia occuparsi della filosofia italiana del Novecento diversi sono i pregiudizi lasciatici in eredità dal secolo scorso. E’ stato scritto e ossessivamente ripetuto che l’Italia filosofica visse, a causa del cosiddetto neoidealismo, in una sorta di autarchia speculativa, ignara di quanto in Europa e nel mondo progredissero gli studi. Tale fu l’egemonia che ogni critica alla dialettica, così ci è stato raccontato, era costretta a subire il giudizio sommario di un “Tribunale del Pensiero Speculativo” e immancabilmente rigettata, sotto l’accusa di irrazionalismo, nella prigione dell’oblio. Oggi l’intenzione che sembra esser diffusa fra un buon numero di studiosi è quella di poter togliere la maschera a molti di questi pregiudizi per recuperare una visione che rimetta al centro anche dell’indagine storica argomentazioni, problematiche, concetti e non formazioni di milizie filosofiche intente a combattersi al suon dei più vari “-ismi” che il linguaggio permette di costruire.

         All’origine di un testo come quello che la Sanò ha scritto ritroviamo il medesimo bisogno e per questo la ricercatrice dell’Università di Padova si è impegnata nel riproporre all’attenzione degli studiosi la vicenda intellettuale di due figure della filosofia italiana del primo Novecento, quelle di Carlo Michelstaedter e di Giuseppe Rensi, «con l’intento – così si legge nell’ Introduzione - di far emergere la ricchezza e l’originalità dei temi affrontati da questi autori, e soprattutto la connessione fra la loro ricerca e le principali linee di indagine lungo le quali si articola la filosofia europea contemporanea». Piuttosto che mirare alla discussione teoretica delle tesi sostenute dai due autori, la Sanò mette al centro del suo studio anzitutto la ricostruzione delle loro filosofie per poi tracciarne le affinità. Di Michelstaedter ritroviamo l’interrogarsi profondamente sofferto sul senso dell’esistenza, la messa in luce di una sua costitutiva aporeticità, l’anelito alla salvezza dell’individuo dalle forze reificanti della società, l’esito vissuto con pathos religioso di un confronto con la morte che si risolve nella dimensione istantanea del tempo. La studiosa mostra di conoscere per intero l’opera del filosofo goriziano affiancando al suo testo più conosciuto, La persuasione e la rettorica, che doveva essere la sua tesi di laurea e che non venne mai discussa, essendosi egli suicidato nel 1910 all’età di ventitré anni, altri scritti accomunati dalle medesime tematiche come  Il dialogo della salute, le poesie e  fonti epistolari. Per questa parte ci è sembrato che l’autrice, magari affascinata dalla prosa e dalla figura del filosofo su cui esercitava la sua indagine, abbia ecceduto nella parafrasi dei testi penalizzando la possibilità di guadagnare rispetto ad essi una posizione di distacco critico e dunque di fornirne una trattazione più teoretica.

         Lo stesso non avviene per l’altro filosofo italiano che viene indagato, il Rensi, vissuto anch’egli a metà fra l’Ottocento ed il Novecento. Figura assai più equivoca di Michelstaedter, sostenitore di una filosofia scettica e profondamente pessimista che, continuamente, come scrisse Garin, trasformava l’analisi di una situazione storica in una posizione assoluta stemperando così pure l’effetto polemico di molte sue pagine,  viene qui considerato soprattutto per la continuità dei riferimenti presenti nella sua opera a Leopardi,  Nietzsche ed Eraclito.
Questi ultimi tre pensatori rivestono infatti nel testo della Sanò una funzione decisiva: da essi non solo si ricava l’affinità speculativa fra i due filosofi italiani del “pensiero tragico” ma anche il loro rilievo europeo. Ponendo al centro dell’argomentazione un concetto di realtà dominato dal polemos eracliteo e ricongiungendo ad esso il nucleo delle filosofie di Michelstaedter e di Rensi, l’autrice si è prefissa la scopo di sottrarli allo stereotipo di “pensatori solitari”, nella misura in cui, attraverso Nietzsche, la filosofia di Eraclito influenzò allo stesso modo tanta cultura del primo Novecento europeo. In questo modo la ricerca filosofica italiana del periodo considerato dovrebbe risultare liberata dall’isolamento di cui si è ritenuto responsabile il neoidealismo italiano e, finalmente, restituita ad una attualità europea.

         A questo punto però il libro della Sanò ci sembra che non riesca a tener fede al suo assunto, non tanto per la legittimità o meno delle filiazioni fra pensatori e momenti della storia della filosofia, quanto piuttosto perché queste restano ad uno stadio di semplice allusione di temi. L’espressione che, come un filo conduttore, guida la Sanò per tutta la sua ricerca «Philosophieren ist Eraklitieren», per altro implasmabile perfino sotto la penna del miglior traduttore dalla lingua tedesca, non ci sembra sufficiente a tener insieme in quadro unitario le filosofie europee maturate dalla crisi della dialettica fintanto che non si abbandona l’ambito delle suggestioni e si passa a quello del confronto con i singoli filosofi e con le loro argomentazioni. Il rischio che altrimenti si corre è proprio quello da cui si voleva fuggire ovvero il ragionare per  scuole. Un modo questo utile magari alla denominazione burocratica di cattedre universitarie non certo alla filosofia.

         A lettura conclusa si sente rinnovato il bisogno di studi che sappiano anzitutto dirci se quella del neoidealismo italiano fu effettivamente una egemonia e da cosa dipese. Manca insomma una giusta distribuzione delle responsabilità anche perché, come la stessa Sanò sottolinea, proprio la ricerca di una alternativa alla tradizione idealistica si è concentrata «soprattutto sulla filosofia mitteleuropea fra Otto e Novecento» e «l’enfasi della “riscoperta”, in una chiave programmaticamente diversa da quella tradizionale, si è poi tradotta nell’assunzione di una prospettiva non meno unilaterale di quella che si intendeva criticare. Col risultato di rovesciare semplicemente il giudizio intorno ad alcuni autori, e soprattutto lasciando pressoché inesplorati interi quadri filosofici, quale è quello del pensiero italiano contemporaneo» (p.21).

PUBBLICATO IL : 18-11-2005
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