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Paul Gilbert, La terra e l’istante. Filosofi italiani e neopaganesimo , Rubbettino, 2005
di Andrea Bellocci

Il volume La terra e l’istante. Filosofi italiani e neopaganesimo, curato da Paul Gilbert, prende spunto e intende rispondere alla “sfida” lanciata da Salvatore Natoli, ovvero alla proposta, avanzata da questi nel suo libro I nuovi pagani (il Saggiatore, Milano 1995), di «una lettura del cristianesimo come momento storico di grandissima importanza per l’ Occidente, ma oggi superato» (cfr. La terra e l’istante, cit., p. 6); un’analoga intenzionalità ermeneutica “riduttrice” nei confronti del cristianesimo è rinvenuta da Gilbert (e dagli studiosi che per l’occasione si sono raccolti attorno a lui) in filosofi come Severino, Vattimo, Galimberti, Cacciari, i quali dunque, pur nell’evidente diversità che ne specifica i rispettivi profili e percorsi di ricerca, sono accomunabili sotto l’etichetta di filosofi “neopagani”.
Severino, com’è noto, si propone un ritorno alla posizione fondamentale di Parmenide: «l’essere è, mentre il non essere non è» (fr. 6), ritorno da intendersi però al tempo stesso come un oltrepassamento della fondamentale ambiguità in cui lo stesso Parmenide è rimasto “irretito”: il filosofo di Abdera ha infatti concepito l’ “incontraddittorietà” dell’essere, con i suoi attributi di immutabilità, necessità, indivisibilità ed eternità, in contrapposizione al mondo degli enti di cui si fa esperienza, sancendo in tal modo una separazione definitiva ed inconciliabile tra i due ambiti dell’essere, quello dell’ “evidenza logica” e quello dell’ “evidenza fenomenologia” (cfr. Pavel Rabernik, Severino e la “contraddizione”, in La terra e l’istante, cit.). Parmenide è dunque, secondo Severino, «il primo responsabile del tramonto dell’essere» (ivi, p. 32), colui che, stabilendo la “fatale” distinzione senza rendersi conto che “tutte le cose” e non solo il puro e semplice essere sono eterne, ha già compiuto il primo passo lungo il “sentiero della notte” e della follia del nichilismo; «le conseguenze di un tale passo dovevano essere immense» (cfr. Simone D’Agostino, Oltrepassare Parmenide. L’etica di Emanuele Severino, in La terra e l’istante, cit., p. 18): esso ha aperto all’uomo e al suo “fare” (poieîn), non casualmente concepito dai greci come potere di generazione e corruzione delle cose, passaggio dall’essere al non essere (e viceversa), la possibilità di ergersi a «principio per eccellenza dell’azione, cioè del produrre e del distruggere» (ibid.); le cose, relegate ora nel loro fondamentale isolamento, dal nulla provengono e al nulla sono destinate: è in tal modo che si rende massimamente percepibile quella fede occidentale nel divenire, quell’ontologia fondamentale che ha schiuso le porte al mondo inteso come ambito del “dominabile” e al lavorìo della tecnica, che altro non è se non l’ultima e compiuta forma di nichilismo. Severino interpreta dunque l’êthos (non éthos, fa notare D’Agostino, nel senso di “usi e costumi” o “consuetudini”, ma êthos inteso nel suo senso etimologico ed essenziale come modo di “dimorare” dell’uomo nell’essere) che sorregge e guida l’intero corso della storia occidentale come “nichilismo”, ovvero come un unico, immenso e folle tributo che la metafisica ha reso al niente: «la metafisica è l’essenziale persuasione che l’ente, in quanto ente, è niente. Ma insieme, e in modo altrettanto essenziale, è l’occultamento di questa persuasione, mediante la proclamazione dell’opposizione dell’ente e del niente […] il mondo è il luogo dove si crede di toccare con mano l’uscire e il ritornare degli enti nel niente […] in questo pensiero si manifesta, nel modo più radicale, l’essenza del nichilismo» (cfr. Emanuele Severino, Essenza del nichilismo, Adelphi, Milano 1972, p. 304). L’impietosa e radicale analisi severiniana sembra ricalcare da vicino la posizione di Heidegger: per entrambi la storia occidentale si configura come inarrestabile processo nichilistico di oblio dell’essere; ed è la metafisica a mettere capo alla tecnica come dominio totale dell’ente. Tuttavia, anche Heidegger, nell’interpretazione di Severino, rimane un “metafisico”, e come tale si è lasciato sfuggire anch’egli l’essenza autentica del nichilismo: «infatti, Heidegger, con la tesi della differenza tra essere ed ente, si situa, al pari di Nietzsche, nell’idea che l’ente è ni-ente. L’orizzonte heideggeriano rimane classico: si tratta anche qui di fondare il mondo; il mondo costituisce infatti un problema a causa della sua ni-entità» (cfr. P. Gilbert, Nietzsche e Heidegger. Fonti di nichilismo, in La terra e l’istante, cit., pp. 141-142). In quest’ottica, radicale e priva di sfumature, il cristianesimo non solo non rappresenta un’alternativa, ma si inscrive a pieno titolo nella volontà di potenza che caratterizza la tecnica: «il nichilismo è il cuore comune che batte nell’ateo e in Dio» (cfr. E. Severino, Pensieri sul cristianesimo, Rizzoli, Milano 1995, p. 285). Ogni volontà che vuole imporre al mondo un senso vuole infatti rendere la realtà disponibile e manipolabile secondo i suoi capricci; non avendo poi nessuna fondazione che rimandi al di là di sé, e che dunque possa “giustificarla”, essa, in ogni sua forma, è definibile come “fede”: da questo punto di vista la fede della tecnica nel progresso e nella trasformazione tecnologica della società non si differenzia da quella del cristianesimo in Dio e nella salvezza dell’anima. Entrambe sono fedi basate sulla volontà, dunque, intrinsecamente violente. D’altronde, il Dio cristiano viene interpretato da Severino come «un padrone che trattiene presso di sé l’eternità schiacciando così ogni altro ente che, in quanto creato, non può che essere caduco e non può che ridursi a niente […] la sua visione di Dio ricalca il Dio demiurgo: il Dio cristiano non è altro che il dio greco cui si aggiunge il carattere creativo, ma ciò non toglie che esso rimanga un demiurgo, assimilabile ad un tecnico che produce» (cfr. Gianmarco Stancato, Il cristianesimo tra nichilismo e ontologia, in La terra e l’istante, cit., p. 222).
La fede nichilistica nel divenire e la congiunta svalutazione del mondo, intimamente connesse nel pensiero di Severino, sono al centro dell’interesse di Salvatore Natoli: il nichilismo, infatti, «nasce dalla persuasione che ciò che è deperibile perciò stesso non è apprezzabile e tutto quel che finisce non merita di essere vissuto» (cfr. S. Natoli, I Nuovi pagani, cit., p. 83); di qui la svalutazione di una realtà percepita appunto come “precaria” e il tentativo di inverarla attraverso l’invenzione di “forme”, prima tra tutte quella di un essere vero, stabile e trascendente in cui placare il dolore e il terrore dell’esistenza. Natoli non segue tuttavia Severino nell’interpretazione del cristianesimo come “mero momento” nell’inarrestabile storia dell’oblio dell’essere: bisogna invece porre la massima attenzione, proprio ai fini di una messa a fuoco e di un’attiva presa di distanza, all’essenziale novità apportata dal cristianesimo, la quale, tuttavia, è stata a sua volta inghiottita dal riemergere moderno del paganesimo greco. Natoli si sofferma sulle “visibili” e note differenze tra grecità e cristianesimo, caratterizzandone le rispettive interpretazioni dell’esistenza: Dioniso (e con lui l’intero “tragico greco”) dà il proprio assenso all’ “aporia dell’esistenza”, dice sì all’accaduto, lottando contro la “cattiva sorte”; il cristiano si sa invece come “dipendente”, interpreta il dolore come pena da espiare, lottando contro il “peccato”: in breve, e qui Natoli ricalca da vicino l’interpretazione di Severino, l’esistenza è destituita di qualunque valore intrinseco, è anzi in sé stessa fondamentalmente un “male”. Lo stesso atto creativo, proprio in quanto tale, sanziona questo stato di cose, ovvero la fondamentale nullità dell’esistenza: «ora, se il male sarà vinto dal redentore “altro”, il tecnico o Dio, la vita presente non ha alcun valore, è nulla. Ritroviamo qui il nichilismo denunciato da Severino» (cfr. P. Gilbert, Nietzsche e Heidegger. Fonti del nichilismo, in La terra e l’istante, cit., p. 154). Sennonché il modello di salvezza “inoculato” dal cristianesimo viene secolarizzato e tradotto nell’idea di “progresso”: «prima è dunque tradita la terra, concepita come antagonista alla salvezza dell’uomo, rimessa alla trascendenza, poi anche Dio è negato, perché l’uomo, impaziente nei confronti di una salvezza che non arriva, ne diventa promotore esclusivo, attraverso un processo di secolarizzazione e una “necrosi” di Dio» (cfr. Michele Cataluddi, Salvatore Natoli e la finitudine, in La terra e l’istante, cit., p. 96). Anche la tecnica, tuttavia, analogamente al cristianesimo, perverte la finitudine, “involgendola” in un vero e proprio “delirio di onnipotenza”, incapace di accettare il “limite” che, come tale, inerisce alla finitudine. Se è vero che ai greci non si torna, tuttavia «li si sceglie» (cfr. S. Natoli, I Nuovi pagani, cit., p. 16); il tragico greco è ormai tramontato, eppure «nell’alveo della cristianità non si permane […] l’uomo deve riprendersi la terra dopo secoli di abbandono» (ivi, p. 75). Da ultimo, se “bene” è accettare la finitudine e viverla nel suo limite “strutturale”, e “male” rinunciare ad essa, Natoli si fa promotore di un “etica della finitudine” che, pur nella consapevolezza di non poter tornare sic et simpliciter ai greci, si nutra però della medesima consapevolezza di poter e dover amare “questa terra con tutto il suo dolore”; a tal fine è necessario riappropriarsi di quell’istante “terrestre” la cui fugacità non dovrà più essere deprezzata per volgersi a nuovi, fittizi retro-mondi, ma essere intensamente vissuta come tale; proprio nell’istante che svanisce è da cogliere la pienezza dell’esistenza: «se intenderemo adeguatamente questo, dopo aver superato il nichilismo saremo nelle condizioni per accedere a un’etica superiore» (S. Natoli, op. cit., p. 97).
Il senso riconosciuto da Gianni Vattimo al nichilismo si muove in una direzione diametralmente opposta a quella di Severino: esso non solo non è un “errore”, ma la storia stessa dell’essere che va verso il suo “progressivo indebolimento”. Con l’annuncio nietzschiano della morte del Dio metafisico sono cadute infatti quelle strutture metafisiche “forti” di permanenza, stabilità e conclusività che da sempre hanno caratterizzato il “fondamento”: «La fine della metafisica non significa tuttavia la fine del pensiero, ma il passaggio ad un nuovo cominciamento […] la nostra epoca, in cui l’oblio dell’essere è arrivato al suo culmine, è anche quella in cui l’uomo corre maggiore pericolo. Ma, […] con Hölderlin: “dove c’è il pericolo, là cresce anche ciò che salva”» (cfr. G. Vattimo, Essere, storia e linguaggio in Heidegger, Marietti, Genova 1963, p. 47). L’indebolimento dell’essere, il compiersi di un vero e proprio “svuotamento ontologico” in cui consiste il “nichilismo compiuto” va infatti vissuto come possibilità di aperture nuove e inaspettate, addirittura esso viene a configurarsi come l’unica chance positiva: occorre abituarsi a “convivere con il niente”, esperendo l’attuale situazione di privazione come paradossale “fonte di salvezza”. Vattimo interpreta il tema heideggeriano dell’ “oblio dell’essere” secondo una Verwindung, una ripresa-distorsione che si attua su Heidegger stesso: vi è infatti secondo Vattimo una lettura di “destra” del filosofo tedesco, che intende oltrepassare la metafisica in vista di un “ritorno dell’essere” in una sorta di ontologia negativa, mistica e apofatica, e una di “sinistra”, che radicalizza Heidegger stesso, interpretando la storia dell’essere come storia di un “interminabile indebolimento”, di un “lungo addio”. In quest’ottica il cristianesimo non solo non si dissolve, ma viene ritrovato come quel momento che anzi ha preparato questo stesso destino. Addirittura «l’incarnazione, e cioè l’abbassamento di Dio al livello dell’uomo […] andrà interpretata come segno che il Dio non violento e non assoluto dell’epoca post-metafisica ha come suo tratto distintivo quella stessa vocazione all’indebolimento di cui parla la filosofia di ispirazione heideggeriana»  (G. Vattimo, Credere di credere, Garzanti, Milano 1998, p. 31). «Diversamente da Severino, che respinge il cristianesimo perché nichilista, Vattimo lo accetta proprio in quanto nichilista» (G. Stancato, Il cristianesimo tra nichilismo e ontologia, in La terra e l’istante, cit., p. 219). Se dunque il cristianesimo è “la verità dell’occidente”, la “secolarizzazione è la verità del cristianesimo”: essa non solo non andrà concepita nei termini di un  abbandono o di una negazione del cristianesimo, ma come una “deriva” inscritta positivamente nel destino della kenosis, rappresentandone davvero l’essenza e il “destino ultimo” (cfr. G. Vattimo, Oltre l’interpretazione, Laterza, Bari 1994, p. 63). In tal modo l’ermeneutica proposta da Vattimo non solo si accosta al cristianesimo, ma si auto-riconosce come frutto della secolarizzazione in forma di proseguimento, ripresa e interpretazione del dogma dell’incarnazione di Dio; addirittura, essa è quello che è, ovvero «filosofia non metafisica dal carattere essenzialmente interpretativo della verità, e perciò ontologia nichilistica- solo in quanto erede del mito cristiano dell’incarnazione di Dio» (ivi, p. 68).
Se Severino opera una netta, irrimediabile contrapposizione tra fede e ragione, e Vattimo fluidifica i termini della ormai “logora” contrapposizione in un rinnovato dialogo, Umberto Galimberti, sulla scia di Jaspers, ricorre alla distinzione tra fede filosofica e fede religiosa: questa, a differenza della fede filosofica, sempre “in attesa”, cosciente della propria problematicità, assolutizza la “cifra”, conferendole un’autorità assoluta e chiudendosi in una pretesa esclusivistica che non tarda a diventare essa stessa mera “volontà di potenza”.
Massimo Cacciari, il quale indubbiamente presenta una posizione di pensiero più complessa e “sfumata”, afferma che «è impossibile riflettere sulla storia-destino del pensiero europeo senza interrogare quella differenza che rende inseparabili filosofia e teologia […] al di là di ogni astratta conciliazione, così come di ogni astratta separazione, filosofia e teologia si riguardano essenzialmente» (M. Cacciari, “Filosofia e Teologia”, in P. Rossi (a cura di), La filosofia, 2, La filosofia e le scienze, Utet, Torino 1995, p. 365). La fede non è concepita da Cacciari come esperienza semplicemente devozionale, irrazionale e inspiegabile, ovvero mera superstizione, ma come infirma: è al suo stesso interno che si attua una drammatica lotta tra credere e non credere: «il credente è colui che è perseguitato dal “non” della propria stessa fede» (M. Cacciari, Dell’inizio, Adelphi, Milano 1990, p. 578). Gesù stesso, sottolinea Cacciari sulla scia dell’ultimo Schelling, è colui che «avrebbe potuto resistere nella sua signoria indipendentemente da Dio, e gelosamente mantenersi nella libertà di dire di no al padre, mantenendo con ciò la lacerazione tra Dio e il mondo» (ivi, pp. 205-206); è dunque il reale, drammatico carattere agonico di tale decisione che va assunto in tutta la sua radicalità: «è la passione stessa del Figlio ad aprire le due possibilità, quella di credere e quella di non credere, e per questo la fede può comprendere in sé anche ciò che essa non è. Così infatti la Chiesa si fonda su Pietro, cioè su colui che dubita, non su Giovanni, cioè colui che ha visto la parousìa: ma Giovanni e Pietro non sono separati, sono entrambi della Chiesa» (G. Stancato, Il cristianesimo tra nichilismo e ontologia, in La terra e l’istante, cit., p.  222). Cacciari si rivolge ancora all’ultimo Schelling, che, in direzione contraria al Dio manifesto di Hegel, ha per primo teorizzato il problema di Dio prima della creazione, imbattendosi nel problema dell’abisso della libertà originaria. Per Cacciari è inoltre «necessario distinguere Dio in quanto origine creativa dall’Inizio, perché se l’Inizio viene a coincidere con l’atto creativo che decide una volta per tutte, avremmo di nuovo solo un dipanarsi dialettico in cui tutto si ritrova. Si tratta fondamentalmente di pensare Dio non come l’Inizio, ma come “nell’Inizio”. L’Inizio sarebbe allora essenzialmente compreso come “agonicità” nella quale si ritrovano tutte le possibilità e lo stesso impossibile, cioè come compossibilità […] l’agonicità dell’Inizio fonda l’antinomicità di Dio stesso, che nello stesso tempo è e non è ciò che possiamo dire di Lui» (ivi, pp. 229-230). Si fa visibile come in quest’ottica il Dio della fede cristiana non sia idea, ente determinabile, o Fondamento «“su cui stare”, ma l’abisso che “toglie” tutti i fondamenti» (M. Cacciari, Filosofia e teologia, cit., p. 385).
Bisogna rilevare immediatamente l’estrema serietà di Paul Gilbert e degli studiosi raccolti attorno a lui nella modalità di approccio con gli itinerari teoretici dei vari filosofi presi in esame, itinerari peraltro tuttora in fieri; nonché lo sforzo, talvolta davvero scrupoloso, nell’individuare, dei vari, le rispettive ascendenze storiche e i modelli teorici “portanti”. Non può non sorgere, tuttavia, una qualche perplessità circa l’utilizzo stesso della parola-chiave neopaganesimo, applicata a pensatori che difficilmente possono essere inseriti a pieno titolo in una categoria “accomunante” percorsi di ricerca davvero troppo originali e diversi tra loro. Non si vede cosa abbiano a che spartire, per fare un esempio, un pensiero come quello di Severino rispetto a quello di Cacciari. Lo stesso Gilbert rileva in nota (cfr. La terra e l’istante, cit., p. 152) la “superficialità” di informazione e conoscenza storica circa la tradizione cristiana rinvenibile in Severino, Galimberti, Vattimo rispetto a quella, ben più “potente” e “robusta”, di Cacciari e Natoli. Eppure, se questo è vero, non è un particolare di poco conto: talvolta, per ripetere l’esempio, d’altronde emblematico, di Cacciari, il dialogo con la tradizione cristiana è davvero complesso e radicale; né lo stesso pensiero di Vattimo risulta, come si è potuto notare, in alcun modo comprensibile senza la tradizione cristiana della quale lo stesso, sia pur in forma del tutto inedita e originale, si riconosce “erede” e “continuatore”.
La stessa parola neopaganesimo, oltre all’inevitabile sospetto “ideologico” (che il suo utilizzo sia “positivo”, come in Natoli, o “negativo”, come in Gilbert, non importa) che porta seco, diventa un’ “etichetta”, e, come tale, risulta davvero fuorviante e “stonata” rispetto a ben più complessi e non facilmente definibili e/o liquidabili itinerari di ricerca.

PUBBLICATO IL : 24-07-2006
@ SCRIVI A Andrea Bellocci