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Emilio Garroni, Doriano Fasoli, Il mestiere di capire. Saggio-conversazione , Edizioni Associate, 2005
di Anselmo Aportone

“Scegliendo la forma dialogica, questo libro introduce al pensiero del filosofo Emilio Garroni, attraverso una ricognizione dei temi centrali del suo percorso intellettuale” (dalla quarta di copertina) e se questo è, in estrema sintesi, il suo contenuto, può ben essere definito, come nel sottotitolo, un saggio-conversazione. L’impresa, possiamo dirlo subito, è felicemente riuscita. Seguendo in modo agile il filo conduttore della cronologia delle pubblicazioni, Doriano Fasoli invita Emilio Garroni a ripercorrere le tappe della sua biografia intellettuale e i risultati della sua ricerca filosofica e questi espone le sue idee in maniera chiara e sintetica, senza indulgere in tecnicismi e senza cedere alla tentazione dell’esaustività, ma anche senza scendere a compromessi rispetto alla precisione e alla serietà necessarie alla comprensione filosofica.
Prima di aggiungere qualche considerazione sul contenuto del ‘saggio’ è opportuno dare rilievo al fatto che si tratta anche di una vera ‘conversazione’, certo preparata – come doveva essere – dall’intervistatore e da lui indirizzata, sia nel ritmo dell’alternarsi dei temi più strettamente teorici con quelli più ‘leggeri’ e personali, con qualche sollecitazione sull’attualità, sia attraverso una maggiore interazione dialogica a proposito delle questioni più vicine ai suoi interessi principali, la letteratura e la psicoanalisi, ma che resta comunque il resoconto di un colloquio reale e non una semplice intervista o esposizione preordinata in forma di dialogo. E questo è un valore aggiunto della pubblicazione, qualcosa di cui essere grati a Fasoli, non solo e non principalmente in termini di leggibilità, quanto perché rappresenta, per quanto è possibile, aspetti della personalità di Emilio Garroni. Chi ha avuto il privilegio di conoscerlo e frequentarlo riconoscerà in questo dialogo e ritroverà nel ricordo la sua grande disponibilità e liberalità, quella franca apertura mai disgiunta dal pensare e discutere criticamente o, per usare le sue parole, dal “dover-essere del senso, come la nostra aspirazione doverosa, etica, di giungere a una sensatezza rischiosa e seria, non mai garantita, ma sempre perseguita” (43).
Un tale impegno etico e teoretico al tempo stesso conferisce la tonalità di fondo che caretterizza e unisce i molti ambiti degli interessi e dell’attività di Emilio Garroni, nonché l’ampio spettro dei temi toccati nella conversazione: la filosofia come sforzo di comprensione della possibilità dell’esperienza e delle teorie; l’estetica come filosofia tout court, e cioè riflessione critica sull’esperienza in genere, e non come filosofia speciale dell’arte; la costitutiva paradossalità della conditio humana, tesa tra l’esigenza di presupporre una totalità, cui corrisponde un bisogno di compiutezza, e i limiti di un’esperienza comunque parziale e discorsiva, quindi sensata e insieme ‘insensata’, esposta al rischio del non senso; il già ricordato dovere di perseguire il senso, che è un dover essere, ma anche il modo di essere-fondamento delle condizioni di possibilità dell’esperienza sulle quali riflette la filosofia; il paradosso della filosofia, che parla di una totalità in cui è inclusa essa stessa, cioè di quello che non è dicibile senza residui; l’interpretazione di Kant; la musica come “linguaggio del puro dicibile indicibile”; l’arte in senso estetico moderno, la perdita di esemplarità delle sue manifestazioni e l’esibizione paradossale del non senso in alcune di queste come pretesa di senso, visto che la rappresentazione esemplare e in qualche modo ‘narrativa’ rischia ormai di scadere nell’intrattenimento. Quest’ultima problematica è stata approfondita da Garroni anche in veste di scrittore e interprete di testi letterari, come opportunamente messo in risalto dalle domande di Fasoli, ma sarebbe stato altrettanto pertinente sollecitarlo ad esprimersi anche sul suo forte e costante interesse per le arti visive, presente invece in questa pubblicazione soltanto attraverso la riproduzione di alcuni dei suoi dipinti. Stimolanti sono anche le pagine che si soffermano sulla ‘storia delle idee’, ad esempio quelle sui rapporti tra filosofia e psicoanalisi e sul diffondersi di quest’ultima nella cultura italiana, o quelle sulla vicenda della semiotica, di cui Garroni è stato figura di spicco e critico deciso, efficacemente tratteggiata nelle suoi vicende essenziali: la reazione all’estetica filosofica post-crociana, la ricerca dei codici particolari, la trasformazione attuale verso la teoria dell’interpretazione, presa d’atto del fatto che né il linguaggio verbale, né tanto meno i fenomeni culturali sono completamente riconducibili a codici, se non localmente nella forma del quasi-codice di un quasi-sistema.
Questi e altri temi rimandano naturalmente alle opere pubblicate e a discussioni approfondite delle medesime. In questa sede vorremmo soltanto ricordare in modo un poco più ampio la concezione dell’estetica di Emilio Garroni, che ha saputo cogliere, interpretare e rielaborare con originalità le acquisizioni fondamentali della riflessione estetica del XVIII secolo. Questa pur sviluppando la concezione moderna dell’arte e delle arti non determina né una specifica classe di oggetti distinta da quella degli oggetti dell’esperienza comune e della conoscenza scientifica (cf. pp. 37-42) né, di conseguenza, una disciplina specifica per studiare tali oggetti, per la semplice ma illuminante ragione che non si sanno né si possono definire le caratteristiche comuni e fondamentali di tale ipotetico campo di oggetti. Convinzione ribadita più volte da Garroni e senz’altro avvalorata dalla dinamica delle arti: “Penso anzi che ciò che si chiama ‘arte’ non sia un oggetto epistemico omogeneo, né sia sempre esistito tale e quale. Per di più ho insinuato più volte che non è certo che, da qualche decennio, sia ancora lecito parlarne senza precisazioni rilevanti. Il suo futuro è incertissimo. E questa non è affatto una lamentazione” (Immagine, Linguaggio Figura, Laterza, Roma-Bari 2005, p. 115).
Per esprimersi brevemente: “la bellezza non si può predicare degli oggetti. Ma, in Kant, il problema estetico si innesta su un problema epistemologico: e in entrambi è in gioco […] la questione di uno specifico principio soggettivo del Giudizio [Urteilskraft che poi Garroni, per risolvere la possibile ambiguità della prima versione italiana della Kritik der Urteilskraft a cura di A. Gargiulo, tradurrà ‘facoltà di giudizio’]. La sua soluzione consiste dunque nell’operare una distinzione a livello formale (di condizioni), così da trovare esperienza estetica e conoscenza (ciò che di fatto chiamiamo ‘esperienza estetica’ e ‘conoscenza’) congiunte in concreto e distinguibili, a questo livello, solo in quanto sono distinguibili in rapporto ai principi cui si richiamano ed, eventualmente, solo in quanto tali principi svolgono un ruolo più o meno dominante” (E. Garroni, Estetica ed epistemologia, Roma 1976, pp. 89-90, rist. Unicopli, Milano 1998). La dimensione estetica in questa prospettiva non è dunque l’Altro della conoscenza o di qualsiasi altra cosa, e non può quindi nemmeno svolgere alcuna funzione sostitutiva, con buona pace di chi spera di trovare scorciatoie estetiche per risolvere i problemi della modernità.
Questa concezione viene richiamata e talvolta anche esplicitata in alcuni passi di questo volumetto, in cui Garroni può esprimersi con più leggerezza che nei suoi saggi e usa il linguaggio più ‘semplice’ dei suoi testi più recenti (cf. p. 8): “via via i miei interessi si sono indirizzati verso l’estetica, ma forse per la ragione opposta a quella prevedibile, soprattutto da quando cominciai a capire che non si trattava ancora di ciò che passa ancora troppo spesso per estetica: cioè una filosofia dell’arte. Che è espressione quasi priva di senso. È semplicemente filosofia, che ha, o piuttosto ha avuto, come referente privilegiato la cosiddetta ‘arte’, attraverso la quale è volta a capire qualcosa dell’esperienza in genere, cioè di qualsiasi esperienza. È come se l’opera d’arte ci mettesse sotto gli occhi, in qualcosa di determinato, l’esperienza nella sua stessa possibilità soggettiva” (p. 17).
Naturalmente con ciò non si afferma che non possa esistere “una disciplina speciale dedicata all’esame di certi oggetti”, che comunemente chiamiamo opere d’arte, ma che l’estetica “è solo in margine” una disciplina simile, mentre “è invece essenzialmente uso critico del pensiero, che ha nell’arte, in ciò che da non molto tempo chiamiamo ‘arte’, non un oggetto epistemico, ma un referente privilegiato”.  “È un guardare-attraverso nel guardare, non un semplice guardare a meno di un taciuto guardare-attraverso” (cit. dalle pp. 37-38) e proprio per questo, pur non potendo essere una filosofia dell’arte (nel senso appunto che l’estetica, come la filosofia in genere, non è propriamente un teorizzare su qualcosa, v. p. 4), l’estetica è un uso del pensiero, un modo di riflettere in grado di illuminare e di comprendere l’esperienza estetica e quella conoscitiva, l’arte e l’altro dall’arte in quanto si presuppongono reciprocamente. Infatti “in un’opera d’arte […] la forma contiene qualcosa che non è senz’altro forma visibile, leggibile, ascoltabile, osservabile. Solo che questo non-osservabile dell’opera è indotto dal suo stesso osservabile nella mente dell’osservatore. […] Se una siepe reale, essendo solo traguardata, quasi si annulla percettivamente nell’infinito che può suggerire per contrasto [cosicchè il guardare-attraverso, che pure accompagna sempre il guardare, resta non tematizzato e la percezione dell’oggetto emerge lasciando in ombra il proprio orizzonte e le sue stesse condizioni di possibilità], la siepe leopardiana, attraverso cui l’infinito viene evocato, resta come figura dell’opera. Qui, per così dire, noi non ‘traguardiamo’ la figura, ma la ‘guardiamo[–attraverso]’, e in questo modo essa ci rimanda al di là di se stessa. È dunque questa permanenza della figura che fa sì che l’opera d’arte possa suggerire proprio con la sua forma positiva e presente qualcosa di negativo e assente oltre la stessa forma. Diciamo aforisticamente che ogni opera d’arte riuscita è una siepe leopardiana” (Immagine cit., p. 111).
E se qui abbiamo tratto dall’ultimo saggio di Garroni una spiegazione della formula usata nella conversazione è di nuovo quest’ultima a rendere esplicito un suo corollario importante per l’estetica ‘applicata’ e non: “un capolavoro può essere colto appieno solo dopo un lavoro di interpretazione non formalistico, non volto a coglierlo come tale e basta”. Se, infatti, l’estetica non può essere in prima istanza una filosofia speciale del bello e tuttavia si occupa tematicamente di opere d’arte li considera “come referente esemplare, non come oggetto epistemico” e deve occuparsi “nello stesso tempo del rapporto tra oggetti dell’esperienza sensibile da una parte e dall’altra di significati e concetti, cioè di percezione, di rappresentazione, di epistemologia, di semantica, anzi della possibilità stessa di una filosofia” (p. 65). Come la dimensione estetica non è mai assente dall’esperienza più comune e l’uso dei principi conoscitivi non è mai disgiunto da un principio sog­gettivamente ma universalmente necessario della facoltà del giudizio, così, viceversa, non si danno una dimensione estetica e un principio estetico per se stessi. Questo rende possibile l’uso cognitivo dell’intelletto, sottraendo il pensiero a un infinito regredire verso regole che disciplinino l’applicazione delle regole, per cui si può dire senz’altro che si tratta di un fondamentale principio conoscitivo, che – seguendo Kant – chiamiamo estetico perché questa parola indica il solo territorio in cui la sua applicazione è costitutiva per degli oggetti e non soltanto regolativa per la conoscenza degli stessi (cf. sopra la cit. da Estetica ed epistemologia). Di converso:“se il così e così è in grado di rinviare a qualcosa che eccede il così e così, l’opera non costituisce mai un mondo in sé chiuso (neppure, appunto, nel caso della ‘forma chiusa’ [che alla lettera non si dà mai, nemmeno nell’arte più ‘tradizionale’]) e deve essere quindi compresa nella sua relazione intima con la percezione delle cose del mondo e con l’esperienza nella sua variabilità e interpretabilità” (Immagine cit., p. 113). Come spiegava già il libro del 1976 (v. pp. 93 sgg.) la bellezza, l’esperienza estetica, l’arte sono tali nel senso corrente di questi termini in quanto contemporaneamente sono anche anticipazione, riscontro, totalizzazione e abbreviazione della conoscenza vera e propria.
È degno di nota che Emilio Garroni, che ha amato e praticato le arti e insegnato estetica per decenni sia diventato fautore di un’estetica come pensiero critico, che con modestia e ambizione al tempo stesso ripropone una filosofia consapevolmente illuministica o, potremmo dire, profondamente kantiana, che “cerca di capire il teorizzare e tutto il resto”, anche se “conoscitivamente è nulla” e come tale pure si sa (p. 4). Avviandoci a conclusione è difficile non evocare Kant, cui Garroni ha dedicato studi importanti, perché nulla è più kantiano dello sforzo di distinguere i principi dell’esperienza per ritrovarli congiunti negli oggetti e negli eventi che la realizzano, per comprenderli e riconoscerli come parti di una totalità che soggettivamente è sempre presupposta e tuttavia non è mai data, almeno non materialmente, ma solo formalmente – come condizione di senso – nell’apertura perenne della ragione e della sensibilità al mondo. Questo è dato, sì, anche nella sua totalità, ma solo ‘esteticamente’, come ciò in cui siamo e agiamo e non nel modo, determinato, ma sempre parziale e limitato, del possesso di qualcosa che è altro da noi, appunto come qualcosa che non è mai esplicitabile fino in fondo come conoscenza: come anticipazione, riscontro, totalizzazione e abbreviazione di un’esperienza mai conclusa, ma sempre ulteriormente determinabile. Garroni ha rinnovato la lezione kantiana cercando la via stretta della comprensione, che pur non potendo evitare l’oscillazione tra “il significato del paradosso e il senso che gli corrisponde” (p. 36) evita almeno l’‘intellettualizzazione della sensibilità’ (compresa la mitizzazione dell’estetica e dell’arte) e la ‘sensibilizzazione dell’intelletto’ (inclusa la riduzione dei suoi principi a forme ‘cosali’ oggettive e statiche) e quindi mette al riparo dalla tentazione di risolvere una volta per tutte, attraverso una presunta totalizzazione estetizzante o logicizzante, la suddetta oscillazione tra il paradosso fondante delle condizioni dell’esperienza date a priori come compito da realizzare e la determinatezza del senso e dei significati. A tutto ciò che rientra in tale orizzonte problematico e ad altro ancora rimanda il concetto di estetica di Emilio Garroni.
La conversazione con Fasoli si prefigge soltanto una rapida e agevole ricognizione del suo pensiero, ci sembra quindi consono mettere al posto della conclusione l’augurio che questa pubblicazione possa contribuire a farne conoscere l’equilibrio e la ricchezza, a comprenderlo nei suoi propri termini e nella sua libertà rispetto alle consuetudini e agli steccati delle discipline, affinché continui a suscitare pensieri e discussioni.

PUBBLICATO IL : 24-07-2006
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