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Enrico Berti, E. Berti, Nuovi studi aristotelici I-II , Morcelliana, 2004
di Francesco Verde
Questi testi raccolgono alcuni dei più importanti contributi aristotelici di Enrico Berti di non facile reperibilità perché sparsi in varie riviste e raccolte, quasi sempre non più edite. I due volumi, inoltre, costituiscono la prima e la seconda tappa di un progetto ben più ampio che consta di quattro volumi dedicati, per l’appunto, a riunire i contributi di Berti, il quale ha voluto intitolare questa serie, recentemente pubblicata, Nuovi studi aristotelici, per distinguerla dai suoi precedenti Studi aristotelici (Japadre, L’Aquila 1975), ormai quasi irreperibili.
Per riprendere il titolo di una celebre pubblicazione dello stesso Berti (Le ragioni di Aristotele, Laterza, Roma-Bari 1989), l’A. ha voluto dividere sistematicamente i suoi saggi nelle varie “scienze” di cui lo Stagirita si è occupato, mettendo in luce come la “ragione” di Aristotele si declini sempre al plurale, ovvero in ambiti scientifici diversi che procedono iuxta propria principia; per questo motivo il primo volume (2004) è dedicato all’epistemologia, la logica e la dialettica, il secondo (2005) alla fisica, l’antropologia e la metafisica mentre il terzo (di prossima pubblicazione) alla filosofia pratica. L’ultimo volume, anch’esso di prossima pubblicazione, esula dai vari settori scientifici in cui si declina la ragione aristotelica per dedicarsi all’influenza dello Stagirita nei secoli, tematica di cui Berti si è già occupato in riferimento al Novecento (Aristotele nel Novecento, Laterza, Roma-Bari 1992).
Gli scritti (ri)proposti nei quattro volumi seguono l’ordine cronologico della loro pubblicazione o della loro effettiva composizione e dimostrano, inoltre, come il pensiero e la ricerca storiografica di Berti abbiano assommato in sé una vera e propria evoluzione, a partire dai primi saggi fino a quelli più recenti, evidente soprattutto nei contributi inerenti alla fisica.

Il primo volume è scandito in tre parti, la prima dedicata a dei saggi meramente introduttivi, la seconda all’epistemologia, la terza alla logica ed alla dialettica; chiudono il volume due interessanti appendici che si occupano, rispettivamente, la prima, di un excursus storico-filosofico sulla dialettica antica - contestualizzando le sue origini nell’orizzonte storico-politico della polis -, la seconda su Platone, in particolare per ciò che riguarda la dialettica del Parmenide.
Nella prima parte, dopo aver fatto il punto sugli studi aristotelici in Italia (Lo stato attuale degli studi aristotelici in Italia, pp. 11-30), non tralasciando la determinante influenza dell’Aristoteles (1923) di W. Jaeger, con la sua affascinante ipotesi storico-genetica (tuttora fortemente accreditata) del pensiero aristotelico, l’A., nel secondo studio, rileva alcune “strategie di appropriazione” dei filosofi antichi, in particolare Platone ed Aristotele (Strategie di interpretazione dei filosofi antichi. Platone e Aristotele, pp. 31-51), ovvero il tentativo più o meno esplicito/lecito di (sovra)interpretare e dunque di appropriarsi di alcune tematiche proprie del pensiero antico al fine di “corroborare” posizioni filosofiche odierne. Berti pensa in particolare all’opera di Heidegger che non lesina di attuare vere e proprie forzature di alcuni passi aristotelici (ad esempio quelli presenti in Metaph. Q 10), distruggendo l’unità del pensiero aristotelico nonché decontestualizzando espressioni e tematiche che sono interpretate sulla base di schemi concettuali contemporanei. Secondo Berti non è affatto corretto, storiograficamente, aggiungerei, “leggere gli antichi a partire da una problematica attuale”(p. 50) ma “l’inserimento di un filosofo antico nel dibattito filosofico odierno sarà tanto più utile ed interessante, quanto più correttamente il suo pensiero sarà stato individuato, compreso e ricostruito nella sua genuina effettività storica”(p. 51). Naturalmente Berti critica anche la posizione della “svolta” heideggeriana (Introduzione alla metafisica, 1935), secondo la quale Aristotele avrebbe ridotto l’essere all’ousia (esplicita, secondo l’A., sarebbe l’influenza di Brentano su Heidegger), contro la quale evoca l’interessante critica di Beierwaltes per cui se Heidegger avesse conosciuto il neoplatonismo, non avrebbe sostenuto che la metafisica occidentale fosse stata solo “oblio dell’Essere” e sua sostituzione con l’ente. Da Heidegger partono, poi, vari filoni interpretativi e dunque di appropriazione del pensiero aristotelico, come l’ermeneutica di Gadamer e la “riabilitazione della filosofia pratica” avvenuta in Germania, nel corso degli anni ’60 e ’70 del Novecento, cui ha contribuito anche la scuola di J. Ritter che rivaluta la funzione dell’ethos pensato da Aristotele, particolarmente in riferimento alla hegeliana Sittlichkeit; alcune correnti del pensiero angloamericano (A. MacIntyre, B. Williams) hanno usufruito del richiamo all’etica aristotelica per criticare polemicamente l’etica moderna. Da ultimo Berti evidenzia altre due appropriazioni, come quella (consapevole) di P. Feyerabend, che usa la fisica aristotelica per criticare l’intera scienza moderna, e quella (inconsapevole) propria dell’“etica discorsiva” (K.-O. Apel, J. Habermas), in cui Berti nota la ripresa della celeberrima confutazione del principio di contraddizione e la distinzione, sempre aristotelica, fra praxis e poiesis.     
La seconda parte del volume dedicata all’epistemologia, si apre con un saggio (Pensiero ed esperienza in Aristotele, pp. 55-63) che indaga come, mentre la filosofia di Platone si definisce in base ad un rigido dualismo fra pensiero ed esperienza, per Aristotele il pensiero sia strettamente connesso all’esperienza senza soluzione di continuità; l’universale, che è appunto l’oggetto del pensiero, è già contenuto non tanto nell’esperienza ma addirittura nella percezione sensibile che viene mantenuta nell’anima sotto forma di ricordo: “nella percezione è già contenuto il principio della scienza, cioè l’intelletto” (p. 57), cosa che è ovviamente messa in relazione con la distinzione fra l’intelletto passivo (pathetikos), che possiede esclusivamente la possibilità/capacità (dynamis) di cogliere le forme, e quello attivo (poietikos), che, essendo o un altro intelletto oppure una “disposizione” dell’unico intelletto, ha la facoltà “attuale” (energeia) di procedere all’effettiva intellezione delle forme stesse. Come è noto l’esperienza si costituisce come unificazione/connessione di molti ricordi che solo in potenza contengono l’universale, il pensiero che poi si declinerà a seconda del tipo di cause (“più o meno “prime”, come sottolinea l’A. a p. 61) cui esso perverrà (si ricorda che per lo Stagirita la filosofia stricto sensu è scienza dell’essere e attività di ricerca delle cause, per l’appunto, “prime” e dei principi che lo definiscono); se questo è vero, l’unica vera e conforme unificazione è quella data dall’insieme delle categorie poste in relazione ad un termine unico (pros hen), la sostanza. Pertanto, sebbene il pensiero (sotto la cui denominazione d’obbligo è il riferimento al Pensiero di pensiero, il primo motore immobile), l’universale, conferisca unità all’esperienza, questo tipo di unità non sacrifica affatto la varietà e la differenza della molteplicità che, invece, rimane intatta: la filosofia è, in definitiva, “tensione” fra molteplicità ed unità.
Il secondo contributo si occupa dell’immaginazione (Immaginazione e verità. L’eredità di Aristotele, pp. 65-76), della sua interpretazione (Nussbaum) e fortuna (Marcuse) a partire da De an. III 3, 427 b 14-15 in cui Aristotele sostiene che “l’immaginazione è diversa sia dalla sensazione sia dal pensiero”; l’immaginazione ha un ruolo intermedio fra la sensazione e il pensiero (Berti, rimandando alla filosofia di Vico per la quale il senso, la fantasia, ovvero l’immaginazione, e la ragione sono le tre età che scandiscono la storia dell’umanità, sottolinea la fortuna storiografica dell’espressione aristotelica presente anche in Kant e in Hegel) e grazie ad essa ognuno può rappresentarsi un qualcosa che è stato già percepito, seppure tale oggetto non venga effettivamente percepito hic et nunc: per questo motivo l’immaginazione è esposta al rischio del vero e del falso. Mentre l’intelletto è sempre nel vero quando coglie un oggetto e, ugualmente, la sensazione non può errare quando si rivolge ad un oggetto che percepisce, l’immaginazione può essere anche falsa quando, ad esempio, ha come oggetto le visioni oniriche che sono altre dalla realtà.
Quindi, nonostante l’immaginazione sia esposta tanto alla falsità quanto alla verità, essa procede oltre la sensazione (che comunque deve presupporre necessariamente) perché, mentre questa deve attenersi a quanto percepisce, può produrre, prescindendo dal senso, anche immagini attraverso la fantasia: pertanto l’immaginazione è al principio sia del giudizio vero che di quello falso e dunque non ha solo un valore conoscitivo ma anche pratico perché è connessa al desiderio (orexis) che si definisce mediante la repulsione o l’attrazione che un qualunque oggetto esercita su di noi: perché un oggetto eserciti su di noi attrazione o repulsione, è necessario che lo immaginiamo, pertanto ogni nostra decisione che consegue all’attrazione o alla repulsione esercitata da un oggetto, dipende dall’immaginazione.
Dopo un contributo sugli “indivisibili” (Réconsidérations sur l’intellection des «indivisibles» selon Aristote, “De anima III 6”,pp. 78-87) in cui l’A. connette l’idea aristotelica di dialettica come scienza dei principi (a partire dai Topici) alla discussione dialogica fra interlocutori in merito alla definizione di qualunque oggetto di ricerca, chiudono la seconda parte del primo volume due studi inerenti alla relazione fra l’analisi matematico-geometrica di matrice euclidea e l’analitica aristotelica (L’analisi geometrica della tradizione euclidea e l’analitica di Aristotele, pp. 89-111; Aristotele e l’analisi matematica greca, pp. 113-124). Berti parte dalla definizione di analisi e sintesi contenuta in un’appendice al libro XIII degli Elementi di Euclide (opera tramandataci in due redazioni, quella curata da Teone di Alessandria nel IV secolo d.C. ed una più antica) la quale è quasi certo che non risalga ad Euclide ma ad Eudosso di Cnido o al matematico, contemporaneo di Platone, Teeteto oppure al commento agli Elementi di Erone di Alessandria, vissuto nel I secolo d.C.; comunque, al di là delle questioni filologiche, la definizione euclidea descrive l’analisi come il passaggio da ciò che è cercato, che viene ammesso come vero, fino a ciò che è ammesso come vero mentre la sintesi come il passaggio da ciò che è ammesso a ciò che è cercato: la questione si complica ulteriormente quando si ritrovano le definizioni di analisi sia come “via all’in giù” che come “via all’in su” in Pappo di Alessandria (IV secolo d.C.), autore che ebbe un’enorme fortuna in Galilei, Descartes e in altri scienziati moderni.
Già Aristotele, prima di Pappo e di tutti gli altri, si era dedicato alle definizioni di analisi e sintesi, come risulta da An. post. I 12, 78 a 6-12, da cui si prospetta la seguente argomentazione: secondo lo Stagirita da premesse vere (V) non può che dedursi una conclusione vera (V), mentre è possibile che si deduca da una premessa falsa (F) o una conclusione vera (V) oppure una conclusione falsa (F), quindi l’unica deduzione impossibile è quella che preveda da una premessa vera una conclusione falsa. Naturalmente, qualora non fosse possibile dedurre da una premessa falsa (F) una conclusione vera (V) o falsa (F) - come invece prospetta Aristotele - le uniche deduzioni possibili sarebbero quelle per cui da una premessa vera (V) conseguirebbe una vera (V) e da una falsa (F) una falsa (F).
Se le uniche deduzioni possibili fossero queste, in tal caso ci sarebbe “convertibilità” fra le premesse e le conclusioni, cioè come da una premessa vera (o falsa) si dedurrebbe una conclusione vera (o falsa), così da una conclusione vera (o falsa) si dedurrebbe una premessa vera (o falsa). Quindi risulta chiaro come solo in caso di convertibilità l’analisi, come dice Aristotele, non solo sarebbe facile ma sarebbe una “via all’in giù”, perché dalla conclusione (o dalla premessa) non si potrebbe che dedurre necessariamente la premessa (o la conclusione). Nel caso in cui non si dia convertibilità fra premessa e conclusione, allora l’analisi sarebbe non solo difficile ma una “via all’in su”, in quanto “non si sa se gli antecedenti a cui si risale siano, oltre che necessari, anche sufficienti per dimostrare il conseguente” (p. 104).
Come è naturale le condizioni necessarie di convertibilità si realizzano soprattutto nelle matematiche per le quali da determinate premesse non possono che dedursi determinate conclusioni, o viceversa; nella natura (e nell’arte), invece, non esiste affatto alcuna convertibilità ma solo una “necessità ipotetica” in quanto non è detto che se esiste il fine (telos), ci siano anche i mezzi necessari e sufficienti per raggiungerlo (ammesso che la casa sia il fine e i mattoni i mezzi, è ovvio che se c’è la casa ci sono i mattoni ma non altrettanto che se ci sono i mattoni ci sia pure la casa). Lo stesso discorso è valido anche per l’agire pratico, in particolare per la “deliberazione” (boulesis) che ricerca i mezzi necessari per un ben definito fine; insomma, secondo Aristotele l’analisi è un procedimento che avviene solo in caso di convertibilità e dunque è un metodo davvero affidabile solo dove si danno connessioni necessarie e “convertibili”, cosa che esula tanto dalla natura/arte quanto dall’agire umano cioè dall’etica.  
La terza parte del volume, dedicata alla logica e alla dialettica, si apre con un saggio che affronta il tema della contraddizione (Contraddizione dialettica e ontologia aristotelica, pp. 127-138) di cui si è occupato un seminario diretto dallo stesso Berti, svoltosi presso l’Università di Padova nell’A.A. 1975/1976; dopo aver considerato la nozione di “contraddizione reale” o “immanente” in Marx (che Berti, sulla scia di Colletti, identifica con la contraddizione dialettica hegeliana), l’A. sostiene che il principio di contraddizione contro cui si scaglia la critica di Hegel non  è affatto il principio logico definito da Aristotele ma quello che in età moderna è stato formulato da Leibniz, Wolff, Baumgarten e Kant (che, tra l’altro, nella Critica della ragione pura -Anal. trasc., Lib. II, Cap. II, Sez. I- rimprovera allo Stagirita di aver introdotto nella definizione del principio di contraddizione un elemento sintetico, il tempo), che si identifica, in definitiva, con il principio di identità, per cui quicquid est,est;quicquid non est,non est.
La critica hegeliana al principio di contraddizione si svolge a partire dal fatto che la verità non può che essere la contraddizione (dialettica) cioè che qualunque ente è identico a se stesso e identico ad altro, che qualunque cosa è identica a se stessa e diversa da se stessa. Secondo Aristotele il principio di contraddizione “dice che è impossibile che ad uno stesso soggetto appartenga (hyparchein) e non appartenga lo stesso predicato contemporaneamente e sotto lo stesso riguardo”(p. 136); quindi è assolutamente possibile che un oggetto sia identico a sé e contemporaneamente possieda una determinazione diversa da sé (infatti non vi è, aristotelicamente, alcuna contraddizione nel dire che l’“uomo” sia “uomo” e nello stesso tempo “bianco” cioè non uomo) ma è impossibile, secondo la formulazione dello Stagirita, che sussista identità fra il soggetto e il predicato: il principio di contraddizione esclude solo tale identità (d’altronde è probabile che Aristotele si fondi sul Sofista di Platone per cui la copula non afferma solo l’“identità”, come invece credevano i Megarici per i quali erano validi i soli giudizi identici, ma anche la “diversità”). Se questo è vero, allora il vero bersaglio polemico di Hegel non è la formulazione aristotelica ma il principio di identità, così come è stato definito dalla tradizione scotistica, prima, e da quella moderna, poi (Wolff, Leibniz, Kant).
Sempre dedicato alla dialettica aristotelica è l’interessante studio Storiografia filosofica e dialettica in Aristotele. A proposito dell’interpretazione di R. Mondolfo (pp. 139-157) in cui Berti, a partire dall’articolo Veritas filia temporis in Aristotele (1925) che ricalca l’ipotesi evolutiva dell’Aristoteles di Jaeger (che probabilmente Mondolfo non aveva avuto occasione di leggere), ripercorre l’interpretazione di Mondolfo sul cosiddetto “storicismo” di Aristotele; in sostanza Mondolfo, influenzato dal neoidealismo di Gentile nonché dallo storicismo crociano, accosta Aristotele ad Hegel, parallelo che non solo verrà ripercorso da Croce ma sarà un vero e proprio topos della cultura filosofica italiana. Come è noto Mondolfo attribuisce al pensiero antico tutti quei concetti che, invece, il neoidealismo di stampo storicista aveva attribuito al cristianesimo, come, ad esempio, la scoperta dei concetti di infinito, di cultura, progresso, lavoro, ecc.; ma nonostante l’accostamento suddetto, Mondolfo non manca di scorgere delle profonde differenze tra la storiografia aristotelica e quella hegeliana: mentre per Aristotele “il processo storico, il progresso, lo svolgimento dialettico, riguardano solo il “lato soggettivo”della verità, cioè la conoscenza che di essa hanno gli uomini, mentre il suo “lato oggettivo”, cioè la struttura effettiva della realtà è eterna ed immutabile”, per Hegel “invece i due lati,come è noto, coincidono, o meglio lo sviluppo dialettico è proprio della stessa verità oggettiva” (p. 142). Nel seguito dell’articolo del 1925 Mondolfo, anche se non del tutto esplicitamente, propone una nuova interpretazione della dialettica aristotelica; se aveva accostato la dialettica hegeliana, scandita dal passaggio triadico che procede grazie alla negazione, a quella aristotelica, ora chiarisce come, in realtà, sia presente un’ulteriore tipologia di dialettica, quella socratico-platonica che si fonda su due (o più) opinioni contraddittorie delle quali la confutazione di una è la via privilegiata della dimostrazione dell’altra. Da questo punto di vista, l’A. dà ragione a Mondolfo che, giustamente, ha riconosciuto ad Aristotele la consapevolezza della “storicità” della filosofia, del progresso verso la verità grazie al contributo di molti filosofi, ma gli dà torto quando sostiene che per lo Stagirita - sulla scorta ciceroniana di Tusculanae 3,28,69 - il proprio sistema filosofico sarebbe stato, hegelianamente, il perfetto atto conclusivo di ogni tipo di ricerca speculativa: secondo Berti ciò sarebbe stato facilmente evitabile per chi, al posto di una dialettica di tipo hegeliano, avesse riscontrato come presupposto della storiografia aristotelica una dialettica “dialogica” di tipo socratico-platonico, dunque “peirastica” e “diairetica” (come l’A. esplicita nel saggio Aristote e la méthode dialectique du Parménide de Platon – pp. 159-173 – dove collega la dialettica aristotelica con quella del Parmenide platonico, sulla scia di M. Guéroult che sostiene l’origine platonica del metodo dialettico aristotelico differente, comunque, da quello platonico per via del carattere espressamente storico non presente in Platone). D’altronde Berti ricorda come già H. Cherniss (1935) aveva chiarito come la dialettica aristotelica fosse davvero “dialogica”, ovvero lo Stagirita “usa le teorie dei suoi predecessori come se questi fossero degli interlocutori nei dibattiti artificiali da lui costruiti al fine di far prevalere la propria filosofia” (p. 179); naturalmente, ricorda l’A., non bisogna accusare la dialettica aristotelica di possedere un mero valore probabile in quanto mentre il sillogismo dimostrativo muove da premesse vere, quello dialettico da premesse semplicemente endoxa. Berti osserva che gli endoxa in realtà non sono affatto delle opinioni meramente probabili ma le opinioni dei più, della maggior parte o dei più sapienti (questione ripresa in relazione alla retorica nel saggio Il procedimento logico-formale e l’argomentazione retorica, pp. 227-234).
Per questa ragione la storiografia dialettica di Aristotele non è meno scientifica di quella platonica (in particolare il riferimento è al Parmenide) o di quella, se pure sia mai esistita, di Zenone di Elea. Le accuse di “hegelismo” (e più spesso quelle di inattendibilità storiografica), più o meno velato, hanno come presupposto il celebre primo libro della Metafisica, dove lo Stagirita passa in rassegna le posizioni filosofiche a lui precedenti, “rendendo” Talete il primo filosofo: è chiaro che Talete è il primo filosofo non tanto perché Aristotele abbia imposto una specifica definizione di filosofia, la scienza, per l’appunto, che ricerca le cause e i principi, “il che sarebbe stato un’evidente forzatura, ma in quanto interpretò come principio materiale l’acqua di cui aveva parlato Talete, attribuendogli in tal modo una qualche concezione della fu/sij come principio” (p. 196); ciò è ben comprensibile nell’ottica dell’A., secondo la quale “la storia della filosofia non può far meno di un criterio con cui individuare che cosa è filosofia”(p. 198).
Chiude la sezione di studi dedicati alla dialettica un importante contributo che mira ad individuare la Differenza tra la dialettica socratica e quella platonica secondo Aristotele, Metaph. M 4 (pp. 201-214); nel passo tratto dalla Metafisica lo Stagirita sostiene che Socrate cercava l’essenza (to ti estin) per mezzo del dedurre (syllogizein), attribuendogli l’invenzione dei ragionamenti induttivi e la definizione universale; ma a Socrate, nell’interpretazione aristotelica, mancava un certo “vigore dialettico” (dialektike ischys) che, invece, ebbe Platone. Infatti, mentre Socrate cercava l’essenza ma non riusciva a trovarla (ecco la ragione per cui la dialettica socratica è “peirastica”), Platone fu in grado di dedurre la verità anche prescindendo dall’essenza, grazie al suo vigore dialettico che gli permetteva di considerare le conseguenze di due o più opinioni opposte, riuscendo ad individuare quando tali opinioni siano contraddittorie (aristotelicamente le proposizioni contraddittorie ammettono esclusivamente che o l’una o l’altra sia vera oppure falsa): non è, dunque, un caso che nel pensiero occidentale questa tipologia di dialettica abbia avuto un enorme successo, basti, infatti, pensare alle antinomie kantiane che, mutatis mutandis, si fondano sul valore della dialettica di Zenone di Elea. 
La terza parte del volume prosegue con una serie di saggi dedicati ancora alla dialettica e alla concezione aristotelica di argomentazione logica; uno studio degno di nota è quello dedicato a Significato,denotazione ed essenza in Aristotele (pp. 215-225), dove l’A., prendendo le mosse dalla nota distinzione introdotta da G. Frege (1892) fra “senso” (Sinn) e  “significato” (Bedeutung), invita a non considerare le essenze aristoteliche come delle entità metafisiche (somiglianti alle idee platoniche) quasi ipostatizzate, ma come dei semplici significati appartenenti ad ogni termine che usiamo nel linguaggio umano, senza i quali non vi sarebbe alcuna possibilità di comunicazione né con gli altri né con se stessi: d’altronde l’essenza non è altro che la risposta alla domanda «che cos’è».
Il tema dialettico è affrontato in un altro studio (Does Aristotle’s Conception of Dialectic Develop?, pp. 235-264) in cui Berti esamina la possibilità di un’evoluzione della dialettica nelle opere aristoteliche; dopo un’attenta analisi, l’A. esplicita come sia nelle opere giovanili che in quelle mature, lo Stagirita mantiene la stessa concezione di dialettica che può avere tanto un “uso pubblico” quanto “scientifico”: mentre la dialettica platonica resta al livello della semplice discussione critica riguardo alle differenti opinioni (“dialettica peirastica”, ovvero la dialettica nel suo “uso pubblico”), quella aristotelica, ovvero la “filosofia prima”, riesce a conoscere il vero, in questo senso essa è “cognitiva” (gnoristike) ovvero “scientifica”. Infatti esattamente a L’uso “scientifico” della dialettica in Aristotele (pp. 265-282) è dedicato lo studio successivo che, rimarcando la nota distinzione tra la dialettica come peirastike  e la filosofia (prima; si ricorda che per lo Stagirita filosofia = episteme) come dialettica gnoristike di Metaph. G2 (questione che ritorna in Philosophie,dialectique et sophistique dans Metaph. G2, pp. 283-297), descrive il fondamento della dialettica di Aristotele che si costruisce, appunto, sugli endoxa che, nella maggior parte, sono veri perché indicanti le opinioni dei più, dei sapienti, quindi hanno un valore epistemologico elevato (basti pensare che un sillogismo è “logico”, ovvero dialettico, anche se muove da premesse false ma “endossali” da cui si deducono autentiche confutazioni delle posizioni esaminate, come si dice in Il valore epistemologico degli e)/ndoca secondo Aristotele, pp. 317-332); naturalmente lo stesso procedimento che muove dagli endoxa può senz’altro “essere applicato anche nella ricerca dei principi delle scienze, per vedere, tra due tesi opposte ed ugualmente candidate al titolo di principi, cioè di premesse vere, quale è vera, quale è falsa”(p. 280) ma l’importante è tener ferma la netta distinzione fra dialettica e filosofia: entrambe usufruiscono (sofisticamente) della facoltà di discutere però “la dialettica la usa per domandare e per confutare, la filosofia per rispondere e per dimostrare” (p. 332).
La terza sezione si chiude con un contributo inerente a L’argomentazione in Aristotele (pp. 299-316) nel quale l’A. descrive in maniera assai dettagliata le varie tipologie di argomentazione pensate da Aristotele, da quella deduttiva (il sillogismo, che fa dello Stagirita l’inventore della logica simbolica, costruita con le lettere dell’alfabeto), a quella scientifica (il sillogismo scientifico o dimostrazione che produce conoscenza, partendo da premesse vere), da quella dialettica (la confutazione che muove da premesse “endossali”) a quella retorica (ovvero l’ “entimema”, un sillogismo usato in contesti giuridici e dunque deliberativi, che muove da premesse “verosimili” - ex eikoton - le quali, a differenza di quelle endossali, non vengono verificate mediante continue domande prima della sentenza finale), non tralasciando, poi, le argomentazioni non deduttive (induzione, esempio e abduzione).
Il volume, come già ricordato in precedenza, termina con due appendici, la prima, dedicata alla dialettica antica, in buona sostanza, pre-platonica, la seconda a quella specificamente platonica.
La prima appendice inizia con un interessantissimo studio (L’antica dialettica greca come espressione della libertà di pensiero e di parola, pp. 335-351) mirante a contestualizzare la dialettica antica nella specifica forma politica e democratica che era la polis ateniese; già Hegel sosteneva che la filosofia fosse nata in Grecia perché solo lì si era realizzata la libertà di pensiero, condicio sine qua non di ogni indagine speculativa: d’altronde tanto l’ isegoria, l’uguale diritto di parola nelle pubbliche assemblee, quanto la parresia, la facoltà di dire qualunque cosa si voglia, sono i termini-chiave che costituiscono la base della forma democratica ateniese (sebbene l’A. ricordi che Atene fu l’unica città greca a perseguitare i filosofi, come nel caso di Anassagora, Protagora, Diagora, Socrate, Aristotele, Teofrasto, Stilpone di Megara e Teodoro di Cirene, tutti accusati di empietà, elemento dannoso per l’integrità della religione ateniese e dunque per lo stato), come già sottolineava M. I. Finley (1972), paragonando la democrazia antica a quella moderna. Ma Berti mette anche in luce come questa libertà di parola, in relazione alla dialettica, sia, comunque, non un diritto del singolo individuo/cittadino “alla realizzazione piena della sua personalità, bensì solo come contributo dell’individuo alla realizzazione di un bene comune , di carattere politico o scientifico” (p. 351): il valore della persona umana intesa come singolarità/individualità avverrà solo con il cristianesimo.
Gli ultimi due contributi della prima appendice affrontano sempre il tema della dialettica in riferimento ai due grandi precorritori della dialettica platonica e aristotelica: Zenone di Elea e Gorgia.
Gorgia (Gorgia e la dialettica antica, pp. 371-383), stando alle testimonianze di Platone ed Aristotele, insegnava una retorica di tipo dialettico che, sulla scia di Kerferd (1981), non è affatto eristica ma è“la capacità di argomentare in direzioni opposte […] ovvero di confutare” ;pertanto come si arguisce tanto dal trattato Sul non essere quanto dai due encomi tramandatici, l’Elogio di Elena e la Difesa di Palamede, “la tecnica attribuita a Gorgia coincide dunque con ciò che Platone chiamava “antilogica” ed Aristotele “dialettica”, e non è né l’eristica, né la filosofia vera e propria” (p. 374). 
Sulla base di Sesto Empirico (M VII 6-7) che riferisce che Aristotele avrebbe annoverato Zenone di Elea come l’iniziatore della dialettica, l’A. (Zenone di Elea inventore della dialettica?, pp. 353-370) mette in luce come la dialettica inventata da Zenone, che “tenta di dimostrare che le stesse cose sono insieme possibili ed impossibili” (p. 358) come dice Isocrate, non sia altro che la medesima dialettica aristotelica ma in una forma ancora del tutto primitiva; anche Platone attribuisce a Zenone, il “Palamede eleatico” del Fedro,non tanto la scoperta della techne del contraddittorio, la capacità di argomentare a favore di tesi opposte, ma l’invenzione della “dimostrazione per assurdo”, l’assunzione di un’ipotesi opposta a quella che si vuole suffragare, deducendone conseguenze contraddittorie al fine di mostrarne l’intrinseca impossibilità. A questo proposito, Hegel sosterrà non solo che “le antinomie di Kant non vanno oltre quanto aveva già veduto Zenone” ma che “non v’è proposizione d’Eraclito ch’io non abbia accolta nella mia “Logica” (p. 370), volendo sostenere che solo con Eraclito - e non tanto con Zenone - che avviene la scoperta del movimento stesso della realtà, la contraddizione oggettiva.
La seconda appendice si apre con un saggio che affronta la questione della dialettica platonica in relazione al Parmenide (Conseguenze inaccettabili e conseguenze accettabili delle ipotesi del “Parmenide”, pp. 387-405), in cui Berti tratta del particolarissimo statuto ontologico dell’Uno/Molti; l’Uno/Molti passa, infatti, dal simile al dissimile, dall’uguale al disuguale, grazie alla geniale dimensione dell’ “istante” che esiste, pur non essendo “un tempo”, in modo tale da eliminare ogni ombra di contraddittorietà dall’Uno perché “non c’è nessun tempo in cui l’Uno sia contemporaneamente cose opposte o non sia nessuna delle due” (p. 399).
Nel 1931 J. Stenzel e nel 1953 R. Robinson sostennero l’esistenza di un’evoluzione della dialettica in Platone, interpretazione nei confronti della quale l’A. (Si può parlare di un’evoluzione della dialettica platonica?, pp. 407-416) ribadisce l’identità tra dialettica diairetica e dialettica confutatoria (di origine socratica); infatti, la diairesis è il metodo conoscitivo che, procedendo mediante la divisione dicotomica, permette di discernere ciò che è vero da ciò che è falso, “mantenendo” il vero ed eliminando il falso: dunque, è chiaro che un processo di eliminazione, come quello diairetico, non può fare a meno dell’elenchos, la confutazione, cosa che risulta ancora più chiaramente dalla Lettera VII  per cui solo “se si confuta in confutazioni benevole, facendo uso senza ostilità di domande e risposte, brillano la comprensione e l’intelligenza intorno a ciascuna cosa”  (334 b, p. 416).  
Il volume termina esaminando L’idea del bene in relazione alla dialettica (pp. 417-426) soprattutto in riferimento alla Repubblica dove, secondo Berti, Platone non ha mai creduto in una dialettica assolutamente perfetta e completamente esaustiva che possa descrivere definitivamente l’idea del bene: la dialettica platonica resta, socraticamente, si potrebbe dire in compagnia di M. Vegetti, una continua tensione metodologica alla ricerca, un inesausto percorso discorsivo e confutatorio che procede con l’umana consapevolezza che una dialettica perfetta e definitiva resta solo un concetto limite, oltre ogni sapere assoluto e dunque divino.

Come già ricordato, il secondo volume dei Nuovi studi aristotelici è diviso in tre parti, di cui la prima è dedicata alla fisica, la seconda all’antropologia e la terza, più cospicua, alla metafisica; il testo si conclude con un’appendice su Platone, in particolare sulle cosiddette “dottrine non scritte”.
La prima parte si apre con uno studio che si occupa de La critica di Aristotele alla teoria atomistica del vuoto (pp. 15-32) in cui l’A tenta un confronto fra la teoria atomistica e quella aristotelica, mettendo in luce come la teoria atomistica del vuoto somigli alla teoria spaziale di Galilei e Newton, mentre l’horror vacui aristotelico abbia una certa comunanza con la teoria del “campo” di Einstein; dunque per Aristotele il vuoto non esiste perché lo spazio è pur sempre il luogo (topos, un termine proprio del lessico degli atomisti) occupato da un corpo; d’altronde il concetto di vuoto è contraddittorio in quanto in esso un corpo in movimento non saprebbe dove/come muoversi, non esistendo alcuna distinzione fra alto e basso o fra un luogo ed un altro; inoltre seppure si ammettesse l’esistenza del vuoto, secondo lo Stagirita non si spiegherebbe il moto dei proiettili, infatti questi si muovono grazie al fenomeno, già platonico, della “antiperistasi”: è appunto l’aria a spingere il proiettile e, subito dopo, si riunisce dietro a questo per continuarlo a spingere (come è noto il moto, escludendo il Primo Motore immobile,  per Aristotele avviene per contatto, teoria questa che venne confutata prima da Ockham e in seguito dall’occamista Buridano con la nozione di impetus). Di conseguenza, se esistesse il vuoto non esisterebbe l’aria e dunque non si spiegherebbe il moto dei proiettili. Berti, poi, ricorda come Epicuro fosse a conoscenza di tali questioni, infatti, attribuendo il lucreziano pondus ad ogni atomo dimostra di tener conto dell’obiezione aristotelica secondo la quale i corpi nel vuoto non potrebbero muoversi: questo potrebbe significare che il filosofo di Samo conoscesse dettagliatamente la Fisicadi Aristotele.
Un breve ma interessante contributo viene dedicato ad Aristotele e la moderna “teoria molecolare dell’evoluzione” (pp. 33-38) in cui Berti sottolinea da un lato come già lo Stagirita conoscesse una teoria della selezione naturale (nota allo stesso Darwin) dall’altro come la fissità della specie non sia affatto l’espressione del caso, ma la prova di un ordine immutabile che regola le specie, invitandole teleologicamente alla propria conservazione.   
Il volume prosegue con un innovativo ed importantissimo saggio sulla questione de La finalità in Aristotele (pp. 39-67) che rivela l’intensità con cui l’A., nel corso degli anni, ha studiato e (ri)considerato il libro XII della Metafisica, cui è stato dedicato ad Oxford nel 1966 il “Symposium Aristotelicum”. Varie e molteplici sono state le interpretazioni della finalità in Aristotele, a partire, per esempio, da quella di Le Blond che rendeva la finalità una categoria essenzialmente metodologica (come il “giudizio riflettente” della Critica del giudizio kantiana) a quella più efficace e degna di menzione di Wieland che parla di una “teleologia non teologica”. Come è noto Aristotele ritiene che la causa finale sia una delle quattro cause, della quale si occupa nel II libro della Fisica ma reputa anche che esista realmente una causa finale nella natura, cosa che deduce dall’arte che a volte completa ed altre imita la natura stessa; il problema maggiormente scottante è comprendere se la finalità che il filosofo ascrive alla fu/sij assomigli al tentativo del Timeo platonico di considerare l’universo fisico come un’opera divina (cosa che Aristotele ritiene un “parlare a vuoto”e un “dire metafore poetiche” - p. 52). Come già ribadito nel corso del primo volume, il finalismo della natura non esclude, comunque, una “necessità ipotetica” che regola i mezzi per l’attuazione del fine, una volta che questo sia dato; inoltre, se esiste un principio teleologico intrinseco alla natura, esisterà anche una finalità nelle biologia: risulta, difatti, sorprendente come lo Stagirita in De part. an. IV 12,694 b 13-14 (ma già nel Protreptico) precorra le teorie di Lamarck sostenendo che “la natura produce gli organi in relazione alla funzione, non la funzione in relazione agli organi”(p. 56). Di conseguenza il concetto di finalità si declina in diverse modalità: infatti, come Berti ripete, esiste una finalità della natura che non esclude quella ipotetica, una finalità nella biologia e una finalità cosmica (ammesso che esista) che chiama (teo)teleologicamente in causa il Motore immobile, come intelligenza ordinatrice, nell’interpretazione tomistica; ma la questione è, per l'appunto, capire se effettivamente, posto il Motore immobile come causa finale e perfettissima, tutta la realtà naturale tenda ad esso. La soluzione sta nel fatto che nell’“universo c’è sicuramente un ordine, il quale risulta non dal fatto che tutte le cose tendano ad uno stesso fine, ma dal fatto che ciascuna cosa tenda al suo proprio fine” (p. 66); questo vuol dire che l’ordine della natura o del cosmo è data dalla “finalità interna”, ovvero dal fatto che ogni ente tende a realizzare attualmente il suo proprio fine: insomma, parafrasando il chiaro esempio di Aristotele, è evidente che il generale sia la causa dell’ordine delle schiere dell’esercito ma questo non tende affatto al generale ma alla vittoria o alla salvezza di ciascuno. Fuor di metafora, il Primo motore è causa dell’ordine del cosmo solo nel senso che muove ordinatamente i cieli ma non perché tutta la natura tende ad esso; sarebbe assurdo spiegare la causa della nascita di un fiore, sostenendo che esso tende al Primo motore, sebbene sia necessario ammettere che il fiore nasca grazie alle favorevoli condizioni meteorologiche e all’alternarsi delle stagioni determinate dal moto dei cieli e dunque dal Primo motore: “insomma in Aristotele c’è una connessione fra teleologia e teologia, ma non nel senso che tutte le cose abbiano per fine Dio, o che Dio abbia assegnato un fine a tutte le cose, bensì nel senso che, tendendo ciascuna cosa al suo proprio fine, si realizza un ordine complessivo, il quale non si reggerebbe se non ci fosse un primo motore immobile che, muovendo come fine il primo cielo e trasmettendo in tal modo il movimento attraverso i cieli fino alla terra, tiene insieme, per così dire, l’intero universo” (p. 67).
Tale lettura della finalità aristotelica rappresenta anche la conferma della correttezza storiografica di Enrico Berti che, pur dichiarandosi “credente, cristiano e cattolico” (p. 12), non trasforma la filosofia aristotelica in una sorta di teologia razionale, così come hanno fatto i filosofi musulmani prima e quelli cristiani dopo.
Il saggio seguente tematizza, poi, La nascita della “fisica” in Aristotele (pp. 69-80) in cui l’A., pur sapendo che l’universo a sfere concentriche sia un invenzione platonica che lo Stagirita perfeziona con l’aiuto dei platonici Eudosso e Callippo, mette in luce come solo con Aristotele la fisica divenga una scienza iuxta propria principia e dunque una scienza possibile: a differenza di Platone, lo Stagirita attribuisce alla natura il rango di autentica realtà, sebbene la fisica non si identifichi con la filosofia in generale che è piuttosto la “filosofia prima”. L’attualità della fisica aristotelica è stata rivalutata inoltre dal Nobel per la chimica Ilya Prigogine, che ha considerato come, sulla base del secondo principio della termodinamica  e dunque dell’entropia, nei fenomeni fisici vi sia una tendenza cronologica irreversibile, in modo tale che risulti necessario“applicare i modelli terrestri […]ai fenomeni celesti, che è appunto la tendenza propria della fisica aristotelica”(p. 79).
I successivi due contributi, concludendo la prima parte del volume, indagano il concetto di tempo in Aristotele (Il tempo in Aristotele,pp. 81-93; Tempo ed eternità, pp. 95-113); il tempo è la percezione che l’anima ha del prima e del poi, prima e poi che sono concepiti dall’anima come “adesso”, anche se diversi fra loro; l’ anima, cioè, percepisce ciò che è anteriore e posteriore e, quasi, attua una husserliana “riduzione fenomenologica all’immanenza”, ovvero riduce/riconduce a sé il prima e il poi facendo sì che siano due “adesso”, seppure fra loro diversi.Da ciò Aristotele deduce che se il movimento è una grandezza e se il tempo è in relazione al movimento, ogni grandezza ha un valore quantitativo, ovvero ad ogni grandezza è predicabile il più o il meno, e, nel caso del tempo, esso può durare di più o di meno. Ma il più e il meno sono discernibili esclusivamente in base al numero - ritorna evidentemente un motivo platonico - quindi il tempo è numero, come esplicita la celebre definizione aristotelica in Phys. IV, 11 219 b 1-2, “il numero del movimento secondo l’anteriore e il posteriore”(p. 85). Subito dopo Aristotele afferma che il numero si dice in due modi, cioè come ciò che è numerato (il tempo misurato dall’anima) e come ciò per mezzo di cui si numera (l’anima che misura il tempo).Il tempo, proprio come il movimento, è sempre diverso perché è costituito da momenti che sono reciprocamente diversi - d’altronde il prima è diverso dal poi - ma è anche lo stesso, in quanto ogni momento, ogni dimensione anteriore o posteriore, è vissuta, grazie all’anima, come “adesso”, come un qualcosa attualmente presente. L’adesso, come il tempo, è identico e diverso: è identico perché ogni adesso è vissuto “soggettivamente” proprio come adesso, ovvero come un presente attuale che si percepisce, ma è diverso perché ogni adesso si colloca “oggettivamente” in dimensioni temporali diverse, per così dire,  in “date” diverse.
La seconda parte è dedicata all’antropologia e si apre con un saggio che indaga la differenza fra l’intelligenza artificiale e il pensiero (Il pensiero come forma di vita. A proposito dell’“intelligenza artificiale”,pp. 117-132); l’A. confuta, sulla base di Aristotele, che si possa parlare di “cervelli elettronici” o di “macchine pensanti” in riferimento ai moderni strumenti informatici: infatti secondo lo Stagirita “per i viventi l’essere è il vivere” (p. 120), di conseguenze sottraendo al vivente la vita esso perde completamente la sua essenza. Questo significa che anche il pensiero è una forma di vita che, per definizione, non può essere ascritta a nessuna strumentazione artificiale, come quelle informatiche. Di simili questioni si occupa anche lo studio seguente (“Per i viventi l’essere è il vivere” Aristotele, De anima 415 b 13, pp. 133-141) in cui Berti mette in luce come, secondo il filosofo, non solo l’essere di ogni vivente sia il vivere, l’“atto” della vita, ma anche come il pensare rappresenti il tipo migliore di vita per l’uomo; d’altronde Aristotele ritiene che il pensiero sia l’essenza stessa di Dio, il primo motore immobile che vive (“autoteleologicamente” si potrebbe aggiungere) di vita ottima ed eccellente come Pensiero di pensiero; diviene chiaro, dunque, come, a differenza di Platone che rimandava la perfezione a predicati universali, quali l’uno o il bene, lo Stagirita pone come oggetto della sua filosofia un’ontologia che “è fondamentalmente un’ontologia della vita, anzi un’ontologia del pensiero” (p. 141)che bada più all’ente che all’essere.
Il terzo e il quarto saggio rappresentano, invece, lo sviluppo dialogico di una querelle sorta fra N. M. Ford e l’A. (Quando esiste l’uomo in potenza? La tesi di Aristotele, pp. 143-150; La generazione dell’uomo secondo Aristotele, pp. 151-156); mentre Ford, seguendo Tommaso, sostiene che l’embrione umano possieda solo l’anima nutritiva, che solo al raggiungimento del quarantesimo giorno del suo sviluppo acquisti l’anima sensitiva (e dunque appartiene al genere animale) e che esso sia uomo in potenza solo dopo aver ricevuto “dal di fuori” l’anima razionale, Berti oppone la tesi secondo la quale già l’embrione, che ha ricevuto l’anima dal seme paterno, è in potenza uomo; risulta poi interessante l’acuta distinzione fra ciò che è “potenziale” e ciò che è “possibile”: mentre potenziale è ciò che, per virtù propria, diventa qualcosa a meno che non sorgano eventuali ostacoli, possibile è ciò che può diventare qualcosa. In questa sede, pertanto, “l’embrione è un uomo potenziale, mentre i gameti maschile e femminile, prima di unirsi, sono solo un uomo possibile” (p. 149).
La seconda parte si chiude, infine, con un contributo che si occupa di Soggetto, anima e identità personale in Aristotele (pp. 157-168) nel quale Berti affronta le tre definizioni suddette; il soggetto, dal punto di vista stricto sensu aristotelico, non rappresenta affatto il sostrato (u(pokei/menon), “ciò che sta prima” (p. 157), così come Heidegger scriveva in L’epoca dell’immagine del mondo (seppure l’A. sottolinei che u(pokei/menon significhi “ciò che sta sotto”). L’enorme fortuna che da Aristotele in poi ha avuto il termine “soggetto” risulta davvero indiscutibile soprattutto a partire dalla prefazione alla Fenomenologia dello Spirito (“[…] tutto dipende dall’intendere e dall’esprimere il vero non come “sostanza”, ma altrettanto decisamente come “soggetto” - p. 158), nonostante che, sostiene Berti, Hegel, quando pensa al soggetto, stia pensando non alla sostanza aristotelica ma a quella di Spinoza (Deus sive natura), la totalità del reale: proprio questo viene concepito, nella filosofia di Hegel, come soggetto (p. 158) ed esattamente contro questa trasformazione dell’originaria nozione aristotelica di soggetto, dunque in polemica anti-hegeliana, si opporranno le Tesi provvisorie per una riforma della filosofia di L. Feuerbach. 
Come si vede, il soggetto moderno (da Hegel in poi) non ha nulla a che fare con la teorizzazione del soggetto da parte di Aristotele: il soggetto, secondo lo Stagirita, è anche l’uomo in quanto è il soggetto/sostrato di ogni tipo di movimento, tanto fisico quanto psichico, che Platone attribuiva all’anima. “L’esempio famoso è infatti quello dell’uomo non musico, cioè ignorante, che diventa musico, cioè colto, dove i termini “uomo” e  “musico”, cioè rispettivamente il soggetto e il predicato della proposizione “uomo è musico”, risultano essere il sostrato, cioè la materia, e la forma, vale a dire i principi-elementi del divenire”(p. 160). L’anima è, invece, sostanza, nel senso delle “sostanze prime” del libro Z della Metafisica, le “cause dell’essere” dei composti, “cioè la causa per cui essi sono ciò che sono”(p. 162); l’anima, dunque, è il principio della sostanzialità/vitalità dell’individuo, per questo, tale nozione aristotelica non è né sostanzialistica (Platone, Descartes), in quanto non rappresenta una sostanza sé stante, né funzionalistica (Ryle), per cui l’anima si risolverebbe nell’insieme delle sue funzioni comportamentali. Collegato alla nozione di anima come principio individuale, è il concetto di identità personale che Berti fa risalire, in modo assai significativo, alla teoria aristotelica dell’amicizia: “l’amico è un altro se stesso”(p. 167), ossia esiste, nell’amicizia virtuosa, un’identità tra il rapporto verso se stessi e verso l’amico, sebbene, secondo l’A., non vi sia mai la reale identificazione fra se stessi e l’amico, al fine di salvaguardare una minima identità propria, espressa dal termine e(auto/j.    
La terza parte del volume è dedicata alla metafisica e si apre con uno studio di carattere storico sulla genesi della metafisica aristotelica (Origine et originalité de la métaphysique aristotélicienne, pp. 171-194) a partire dal Protreptico e dal Grillo, opera che il filosofo scrisse in “concorrenza” con l’Antidosis di Isocrate; l’A. pone in evidenza la basilare dottrina delle quattro cause di Metaph. A e la differenza fra la nozione aristotelica di Dio, come causa motrice delle realtà mobili, ovvero i cieli, e quella dell’ Uno-Bene platonica, oltre alle notevoli “scoperte” filosofiche che rendono innovativa ed originale la metafisica aristotelica, rispetto, ovviamente, a quella di matrice platonica.
Nel contributo seguente (La critica dello scetticismo nel IV libro della Metafisica di Aristotele, pp. 195-207) Berti ripropone la vexata quaestio sull’identificazione di chi abbia formulato le dottrine scettiche esposte e confutate dallo Stagirita in Metaph. IV; dopo aver messo in luce la relazione di rinvio tra le categorie aristoteliche e i tropi scettici, sulla scia dell’ipotesi (ormai quasi non più accreditata dai moderni studiosi di scetticismo antico) di E. Pappenheim (1881), l’A. sostiene che sia probabile rintracciare in quanti professavano le dottrine pirroniane coloro che negavano il principio di contraddizione; infatti “[…] colui che si sarebbe rifiutato di dire che una cosa è oppure non è, è qualcuno che la pensava come Pirrone, secondo il quale di ciascuna cosa bisognava dire che “è e non è”(p. 198): pertanto sarebbe complicato non pensare alla dottrina pirroniana, secondo cui tutte le cose “sono egualmente indifferenti, instabili, e non giudicabili” (p. 198) così come afferma la testimonianza di Aristocle (in Euseb. Praep. ev. XIV 18,3). Ma sorge ora un problema di carattere cronologico, infatti, come è noto, Pirrone iniziò ad insegnare solo dopo esser tornato dalla spedizione in India al seguito di Alessandro Magno, negli ultimissimi anni della vita di Aristotele; dunque risulta quasi impossibile che Aristotele si riferisca esattamente a Pirrone, ma, senz’altro, o ai suoi maestri (secondo la tradizione il megarico Brisone - o Stilpone - ed il democriteo Anassarco) o ad una corrente di pensiero che professava dottrine spiccatamente “pirroniane” prima di Pirrone. Eliminata, per ragioni testuali, l’ipotesi che si tratti del democriteo Anassarco, Berti, seppure con cautela, conferma l’ipotesi megarica; d’altronde “che i Megarici, a causa della loro derivazione dall’eleatismo, includessero nella loro dottrina una componente scettica, cioè una netta svalutazione della conoscenza sensibile, è noto”(p. 200); come si sa, i Megarici ammettevano come possibile sola la predicazione essenziale, ovverosia il giudizio di identità (Z è Z) di conseguenza ammettevano come contraddittoria ogni altra forma di predicazione che non fosse quella essenziale, ad esempio quella accidentale o attributiva (Z è Y); dunque “se i Megarici, rifiutandosi di ammettere la realtà della contraddizione, consideravano la presenza di quest’ultima nella conoscenza come una prova dell’irrealtà del mondo sensibile, gli scettici, ammettendo anch’essi la presenza della contraddizione nella conoscenza, ne traevano la conseguenza che la realtà è inconoscibile” (p. 203).     
Seguono due acutissimi studi di carattere essenzialmente storico-filologico (La fonction de Métaph. Alpha Elatton dans la philosophie d’Aristote, pp. 209-239; Note sulla tradizione dei primi due libri della Metafisica di Aristotele, pp. 241-265) sui primi due libri della Metafisica, Alpha Elatton e Alpha Meizon; secondo una parte della tradizione manoscritta Alpha Elatton non fu redatto da Aristotele ma da Pasicle di Rodi, nipote di Eudemo, il dedicatario della celebre Etica Eudemea. La questione diviene assai complicata perché, da un punto di vista meramente cronologico, Pasicle ascoltò Aristotele (ammesso che lo abbia effettivamente udito) nel secondo periodo di insegnamento dello Stagirita ad Atene nel Liceo; se questo è vero non si comprende come sia possibile che Alpha Elatton, elaborato per l’appunto da Pasicle, contenga dottrine che in quel periodo il filosofo aveva di gran lunga superato, dottrine fisiche e metafisiche più evolute rispetto a quelle contenute in Alpha Meizon: tali dottrine infatti sono quelle contenute nei libri più maturi della Metafisica, cui fa da introduzione il libro Alpha Meizon. Pertanto, ne consegue o che Pasicle si sia inventato integralmente le dottrine contenute in Alpha Elatton, elaborando questioni che ormai Aristotele aveva superato (regredendo, dunque, dall’insegnamento del maestro), cosa alquanto improbabile, oppure che la tradizione che attribuisce a Pasicle la redazione di Alpha Elatton sia dubbia ed infondata. Con estrema cautela, l’A. propone una soluzione del tutto coerente con le fonti: è probabile che Alpha Elatton sia un libro terminato dallo stesso Aristotele a Rodi e che, in seguito, sia stato congiunto alla Metafisica dai peripatetici rodiesi; dato il carattere sostanzialmente introduttivo di Alpha Elatton, questo suscitò dei dubbi di autenticità nei confronti di Alpha Meizon, la vera introduzione alla Metafisica. Andronico di Rodi, quando pubblicò sistematicamente le opere dello Stagirita, credette che Alpha Meizon fosse spurio e fosse, peraltro, da attribuire a Pasicle; solo un errore ermeneutico dello scolio al manoscritto E avrebbe causato l’attribuzione di Alpha Elatton a Pasicle: comunque, prescindendo da tali complicate vicende storico-filologiche, rimane assodata l’autenticità aristotelica tanto di Alpha Elatton quanto di Alpha Meizon.  
Dopo un ulteriore studio filologico (Les livres M et N dans la genèse et la transmission de la Métaphysique, pp. 267-288) sulla trasmissione dei libri M e N della Metafisica (in cui interessanti risultano le citazioni delle varie traduzioni del testo, come quella di Guillame de Moerbeke, prima del 1271, e quella dall’arabo in latino di Michel Scotus del 1237 c.a) l’A. espone la concezione aristotelica dell’essere e del non essere (Quelques remarques sur la conception aristotélicienne du non-être, pp. 267-307; Etre et non-être chez aristote: contraires ou contradictories?, pp. 309-317).
Secondo lo Stagirita l’essere e il non essere non sono affatto i principi delle cose ma dei predicati cui sono attribuibili una pluralità di significati, dunque non sono, aristotelicamente, dei contrari ma dei contraddittori, l’uno non esclude l’altro, difatti, se l’essere indica l’uomo, il non essere indica il non uomo. Il non essere, inoltre, può assumere, specificamente, tre diversi significati: il non essere inteso in relazione con le categorie, il non essere come “potenza” e il non essere inteso come falso. Dalla prospettiva “categoriale”, il non essere, essendo la mera negazione di un essere determinato, diviene anch’esso determinato infatti tra essere e non essere sussiste la stessa relazione che c’è fra contraddittori: questo significa che il non essere non è, eleaticamente, privazione di essere ma l’absence pure et simple de quelque chose (p. 306). La “potenza” è, per essenza, non essere proprio perché essa non è atto, è la privazione/mancanza dell’essere in atto che, però, prescindendo dalla potenza, non giungerebbe mai ad essere in atto: la “potenza” è, pertanto, la contradiction de être (p. 307).
Un ottimo studio si occupa, in seguito, de L’analogia in Aristotele. Interpretazioni e possibili sviluppi (pp. 319-332) in cui l’A. sostiene che in Aristotele sussista un vero e proprio rapporto di analogia fra il pensiero umano e quello divino, la cui differenza è la medesima che sussiste fra il “sempre” (aei) e il “talvolta” (pote); nonostante ciò non è possibile dire che il mondo partecipi di Dio, in quanto Dio non è affatto un predicato o la causa formale del mondo ma solo, insiste Berti, la sua causa motrice: Dio muove i cieli, dunque è causa efficiente del loro movimento circolare, ed è fine a se stesso nonché causa finale solo del primo cielo. Tale precisazione vuole essere una debita sottolineatura del fatto che lo Stagirita sia stato un pensatore che, prima del neoplatonismo che ha ridefinito in termini di “partecipazione” il rapporto Dio/Uno-mondo, ha radicalmente stabilito la totale trascendenza di Dio rispetto al cosmo. Nella storia della filosofia occidentale e in quella del cristianesimo, il Dio di Aristotele è stato “trasformato” nell’Esse ipsum (Agostino; Tommaso), nell’Essere stesso, concetto necessario per spiegare la creazione; l’ipotesi che Berti avanza in questo studio è quella per cui non è per nulla necessario che Dio sia Essere per creare, ovvero per “dare” l’essere, ma è semplicemente necessario che lo contenga in sé, così come il rapporto pensiero/essere/vita definiscono il Dio aristotelico; pertanto l’essenza di Dio è, in buona sostanza, il pensiero (per questo Dio vive la vita più piacevole di tutte) che contiene in sé l’essere e la vita: ovviamente il pensiero, l’intelligenza è solo il più alto dei nomi che l’uomo, analogicamente, può attribuire a Dio che, come scriveva il filosofo nel dialogo giovanile Sulla preghiera, “o è intelligenza o è qualcosa al di sopra dell’intelligenza” (p. 332).
Dopo aver trattato del celebre “ircocervo” del De interpretatione come un semplice nome che significa qualcosa ma, privato di un verbo, non è né vero né falso, il contributo seguente (Ermeneutica e metafisica in Aristotele, pp. 333-344) si occupa della polisemia o multivocità dell’essere; come è noto i “modi” dell’essere sono le categorie quindi, ammesso ciò, Berti mette in luce un punto importante: l’ermeneutica del verbo “essere” è l’ermeneutica universale. Senza alcun predicato nominale, l’essere non avrebbe alcun significato, sarebbe una vuota determinazione che, però, acquista significato grazie alle categorie, i vari predicati nominali dell’essere che, quindi, definiscono ogni tipo di significazione possibile (ermeneutica universale).
Segue, inoltre, un interessante “compendio” che descrive la “scoperta” parmenidea dell’essere sino alla concezione ontologica aristotelica (L’essere e le sue regioni da Parmenide ad Aristotele, pp. 345-363) che pone un elemento di novità rispetto all’ontologia parmenidea ed alla “logologia” di Gorgia (sintetizzabile, per l’appunto, nella polisemia dell’essere e nella predicazione): entrambi non sottolineano alcuna distinzione fra i diversi significati attribuibili all’essere o al non essere (come, invece, farà Platone nel Sofista, costituendo l’essere di cinque generi sommi quali l’essere stesso, l’identico, il diverso, il moto e la quiete); “ciò consente a Gorgia di confondere il significato copulativo con quello esistenziale”(p. 350).
Sempre all’essere è dedicato il saggio successivo, L’essere e l’uno in Metaph. B (pp. 365-379) nel quale Berti riassume mirabilmente la critica aristotelica al Sofista platonico; come è noto, Platone concepisce l’essere come un genere univoco, ovvero come ciò che è, per definizione, identico a molte specie diverse, esattamente come pensava Parmenide, cosa che, a detta dello Stagirita, impediva ogni possibile predicazione dell’essere alle proprie differenze, che non sarebbero più. Contro l’ontologia totalizzante di stampo eleatico, si schierò la corrente dei cosiddetti “pluralisti” (Leucippo, Democrito, Empedocle, Anassagora) che, al fine di “salvare i fenomeni”, attuò una vera e propria “moltiplicazione” quantitativa e qualitativa dell’essere, così come Melisso l’aveva concepito. Platone potrebbe inscriversi nella schiera di coloro che si opposero a Parmenide; difatti, commettendo il famoso “parricidio” del Sofista, ideò una particolare nozione, il diverso, che non escludesse il non essere che, appunto, si definisce “diverso” dall’essere. Di conseguenza Platone, al fine di salvare la molteplicità, ha dovuto necessariamente ammettere oltre all’essere anche il non essere, sebbene sotto la dizione di “diverso”. La critica aristotelica si instaura esattamente su questo punto: Platone, ammettendo una nozione univoca ed indifferenziata di essere, non pensa affatto che tanto la molteplicità quanto le diversità fossero interne all’essere stesso. Solo un essere (e un non essere inteso come semplice negazione delle categorie) che “si dice in molti sensi” si riconosce differenziato e dunque “declinabile” intrinsecamente: l’essere aristotelico, differenziato al suo interno, non è un genere univoco, perché, se lo fosse, “non consentirebbe l’esistenza di nulla di diverso dalla sostanza avente come sua essenza l’essere stesso”(p. 377). Pertanto con l’ammettere una nozione “genericamente” univoca di essere, Platone finisce col ricadere nella nozione parmenidea: “Parmenide non ammise il non essere, e sacrificò i molti, Platone invece lo ammise, e credette di salvare i molti”(p. 376).   
“In questo senso si può dire che il Dio dei cristiani è anche, ma non solo, il Dio di Aristotele, anzi deve necessariamente esserlo, altrimenti non sarebbe più Dio”(p. 393); con questa frase l’A. chiude, forse provocatoriamente, il seguente contributo dedicato a La teologia di Aristotele (pp. 381-393) nel quale viene messa in luce la volontà del filosofo di concepire la figura di Dio in modo assolutamente rigoroso oltre ogni tipo di antropomorfismo, di contro, quindi, alla religione greca tradizionale; il Dio aristotelico è puro spirito e, sebbene forte sia l’analogia fra il Pensiero di pensiero e l’intelletto umano, non necessita affatto dell’uomo (è significativo quanti caratteri la teologia epicurea riprenda da Aristotele), pertanto la nozione di Dio elaborato dallo Stagirita è il concetto più alto che l’uomo abbia mai elaborato, “deisticamente” si potrebbe aggiungere, senza alcun ausilio da parte di una rivelazione divina. Come è noto, in piena età moderna Pascal contrappose il “Dio dei filosofi” al “Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe”, ovvero il Dio cartesiano, autore delle leggi matematiche e fisiche che reggono il cosmo e il Dio biblico: è evidente, replica Berti, che il pascaliano “Dio dei filosofi” non ha nulla a che veder con quello aristotelico; l’A., quindi, arriva a dire che, da questo punto di vista, il Dio dei cristiani è anche il Dio aristotelico che, come il filosofo scrive nel De philosophia (opera che ritorna nel breve studio, Il Peri£ filosofi/aj di Aristotele nell’interpretazione di Untersteiner, pp. 421-425 ), “non abita in un tempio popolato di statue fatte dalle mani dell’uomo” (p. 392), espressione che sarà poi schiettamente paolina. È chiaro, dunque, che alcuni caratteri del dio aristotelico ritornino in quello cristiano (o forse sarebbe meglio dire “paolino” piuttosto che “gesuano”), anche se, in confronti del genere, va dato forse maggior risalto alle differenze piuttosto che alle analogie.
Sempre sulla teologia aristotelica si struttura il saggio successivo (La Metafisica di Aristotele:“onto-teologia”o “filosofia prima”?, pp. 395-420) che si apre con la discussione intorno all’interpretazione heideggeriana della Metafisica come “onto-teologia” a partire da Identität und Differenz (1957): la Metafisicaaristotelica sarebbe un’onto-teologia in quanto ridurrebbe, in breve, l’essere ad un ente (Dio), dimenticando la “differenza ontologica” fra essere ed ente; già nel 1929, in Kant e il problema della metafisica, Heidegger distinse l’ontologia dalla metafisica, riconducendo l’una alla metaphysica generalis, l’altra alla metaphysica specialis, nozioni tradizionali che Kant ritrovava in Baumgarten e che reinterpretava come “filosofia trascendentale” e “metafisica”: “dell’onto-teologia aristotelica, secondo Heidegger, si deve riprendere l’ontologia, sia pure in termini nuovi, e lasciar cadere la teologia”(p. 397). Un’ulteriore critica alla metafisica aristotelica viene ribadita nell’Introduzione del 1949 alla conferenza Che cos’è metafisica? (1929) dove Heidegger mette in luce come l’esito onto-teologico della metafisica aristotelica ed il conseguente “oblio dell’essere” abbiano fatto sì che il cristianesimo si “impadronisse” della filosofia greca; il che, secondo il filosofo tedesco, è un male in quanto il cristianesimo, interpretato da un punto di vista spiccatamente luterano, si potrebbe aggiungere, avrebbe perso definitivamente la sua dimensione “scandalosa” per cui la sapienza degli uomini (“quella che i Greci ricercano”, come scrive Paolo in I Cor 1 – p. 398) è solo follia e stoltezza al cospetto di Dio. Insomma la metafisica sarebbe un’onto-teologia perché concernerebbe l’essere inteso come Dio, l’ente supremo che ha per essenza l’essere stesso. Berti oppone alla visione onto-teologica heideggeriana, la visione storicamente più tradizionale, secondo la quale la metafisica è la “filosofia prima”, così come la intende lo Stagirita, la scienza che si occupa, stricto sensu, di ciò che è primo, l’ente in quanto ente, ossia la sostanza, l’essere che si declina nelle categorie e che quindi si dice in molti modi; a sua volta la sostanza si dice in quattro sensi principali, come si dice in Metaph. Z 3, 1028 b 33-36, ovvero come essenza, universale, genere e sostrato: il primo senso in cui si dice la sostanza è l’essenza, il principio, la causa della sostanza, ciò per cui la sostanza è tale, dunque l’essenza è identificabile con la forma. Come si sa il primo fra gli enti è l’atto puro, il Pensiero di pensiero che non necessita di alcuna materia o potenza: la critica ad Heidegger si incentra esattamente su questo punto. Il Dio di Aristotele senz’altro si definisce come primo fra gli enti, il primo dei motori immobili ma non è l’ipsum esse subsistens della tradizione tomistica perché non ha per essenza l’essere; se si ammette con Aristotele che l’essere si dice in molti modi, il Pensiero di pensiero sarebbe l’essenza di nulla (questione che ritornerà in Davide di Dinant che identifica Dio con la materia informe) perché l’Atto puro, potendo pensare solo se stesso, è puro pensiero, la forma più alta di essere, vita ed attività.
Dopo uno studio sulla necessaria immobilità del primo motore, dovuta all’assenza di potenzialità e dunque di materia (Unmoved mover(s) as efficient cause(s) in Metaph. XII 6, pp. 427-451), la parte terza si chiude con altri quattro contributi sulla teologia aristotelica; il primo dei quali (La causalità del Motore immobile secondo Aristotele, pp. 453-468) non fa che ribadire, contro una lunga tradizione, che la causalità del primo motore sia di tipo efficiente, rispetto al moto del primo cielo: è verosimile in tale sede la presenza di una critica a Platone che teorizza le idee come enti immobili ma del tutto insufficienti a spiegare il movimento del cielo. Ma il Motore immobile è anche il bene supremo e quindi l’oggetto più desiderabile non dall’uomo, per via dell’impraticabilità, ma per se stesso (anche se non si esclude che la conoscenza del primo motore possa appartenere al fine dell’uomo): questo spiega come il Pensiero di pensiero sia simultaneamente causa efficiente rispetto al moto dei cieli e causa finale rispetto a se stesso. L’innovativa concezione della causalità del primo motore rende vuota la tradizionale nozione secondo la quale il primo cielo si muove circolarmente per tentare una imitazione, per quanto possibile perfetta, dell’immobilità del Motore immobile; come Berti ricorda, l’interpretazione tradizionale sulla causalità finale del primo motore nasce da Teofrasto che, succeduto ad Aristotele nella direzione del Liceo, scrisse anch’egli una Metafisica in cui, tra gli argomenti trattati si interrogava sulla nozione di “desiderio”. Il punto è che Teofrasto non usa il termine aristotelico o)/recij, ma e)/fesij, ovvero il termine usato dai Platonici per indicare il desiderio di imitazione dei numeri nei confronti dell’Uno: “l’interpretazione tradizionale, dunque, si rivela essere un’interpretazione platonizzante del testo di Aristotele, cioè un’interpretazione mirante a conciliare Aristotele con Platone” (p. 467), cosa assai frequente nel medio-platonismo (cfr. Plutarco e l’autore del Didaskalikòs che mettono in risalto il desiderio imitativo dei cieli per Dio).
Lo studio seguente (Il libro Lambda della Metafisica di Aristotele tra fisica e metafisica, pp. 471-487) si concentra su un dibattito molto particolare svoltosi in seguito all’ipotesi genetica di Jaeger, secondo la quale il libro Lambda della Metafisica sarebbe un trattato a sè stante ed anteriore all’opera, una sorta di Ur-metaphysik professata durante la permanenza di Aristotele ad Asso; la lettura del libro Lambda ha dato anche adito ad interpretazioni di carattere prettamente fisico, come quelle sostenute da Frede: il testo del libro conterrebbe, oltre alla teologia di Aristotele, una ricerca sui principi delle sostanze che evidenzierebbe il carattere più fisico che metafisico del testo in questione. È chiaro che la questione impone un serio approfondimento che miri, diacronicamente, a stabilire una cronologia aristotelica in relazione alla distinzione fra fisica e metafisica; per questo motivo Berti cita la cronologia proposta da Donini, per cui esisterebbero tre periodi, ovverosia tre fasi di sviluppo del pensiero aristotelico in questione: il periodo accademico (1), in cui non vi sarebbe da parte del filosofo alcuna distinzione fra fisica e metafisica (Protreptico, Topici, Metaph. a e L), il periodo immediatamente successivo all’Accademia platonica (2), durante il quale la metafisica si costituirebbe indipendente rispetto alla fisica, scienza delle sostanze sensibili (Phys. I-II, De caelo, De part. an. I-II), ed, infine, il periodo più tardo (3), in cui la metafisica diverrebbe scienza “universale” (Metaph. G, E, Z). Conseguentemente, la peculiarità del libro Lambda sta nell’assommare in sé tanto la fisica quanto la metafisica: il cielo, la sostanza sensibile eterna, è una sostanza la cui dimostrazione è imprescindibile dalla fisica, ma, a sua volta, l’esistenza del cielo è imprescindibile dalla dimostrazione non fisica e dunque metafisica della sostanza immobile: “dunque la fisica dimostra l’esistenza di una sostanza non fisica, perciò è una fisica che è insieme metafisica” (p. 485).
La terza ed ultima parte del volume si chiude, infine, con un breve saggio su Il dibattito odierno sulla cosiddetta “teologia” di Aristotele (pp. 489-500) dove l’A., ribadendo la tipologia della causalità del motore immobile (contra la tradizionale causalità finale del primo motore, a partire dall’interpretazione di Alessandro di Afrodisia), mette in luce le varie posizioni sulla questione (Schwegler, Zeller, Ross) oltre a ricordare la comune posizione di P. Natorp e R. Bodéüs (con i quali l’A. concorda) che attribuiscono alla teologia aristotelica un significato puramente mitologico: la teologia professata dallo Stagirita è, sostanzialmente, tradizionale e fa degli dei olimpici dei viventi immortali, in estrema coerenza, dunque, con il contesto politeistico greco.
Il volume, come precedentemente ricordato, si chiude con un’appendice dedicata a Platone, contenente tre studi, di cui i primi due si occupano delle “dottrine non scritte” testimoniate da Aristotele, mentre l’ultimo indaga la tradizione accademica sul mito del Demiurgo presente nel Timeo.
Il primo interessante saggio (Le dottrine platoniche non scritte “intorno al bene” nelle testimonianze di Aristotele, pp. 503-538) è un’approfondita ricerca sulla veridicità delle cosiddette “dottrine non scritte” di Platone, verso le quali l’A. non mostra alcuna diffidenza, in quanto fortemente/coerentemente testimoniate da Aristotele, allievo di Platone per circa venti anni. La principale testimonianza su tali dottrine è quella derivante dai frammenti dell’aristotelico De bono che dovrebbe contenere la relazione che Platone tenne, stando a Temistio, al Pireo sul bene; di tale “conferenza” abbiamo testimonianza anche da Aristosseno, discepolo dello Stagirita, secondo il quale “Aristotele era sempre solito raccontare che la maggior parte di coloro che avevano ascoltato la conferenza di Platone “Sul bene” avevano provato tale impressione [cioè quella di chi si inganna sull’argomento in discussione]” (p. 503): pertanto Aristotele sembrerebbe rappresentare una fidata e preziosa testimonianza sulla veridicità di tali dottrine (tardo)platoniche. Le “dottrine non scritte” sono state (e sono) al centro di viva controversia fra gli studiosi; basti in questa sede citare i tre “partiti” che disputano in questa “polemica”: coloro che ritengono che tali dottrine rappresentino solo un carattere tardo-platonico (Stenzel, M. Gentile, de Vogel, Wilpert, Ross), coloro che sostengono non solo l’origine antica di tali dottrine ma anche la loro assoluta preminenza sui dialoghi platonici (la cosiddetta Scuola di Tubinga di cui mi limito solo a citare Krämer, Kaiser e Slezák) ed, infine, quelli che negano il carattere platonico delle “dottrine non scritte”, attribuendole alla prima tradizione accademica (Cherniss, Isnardi Parente, Brisson). Le dottrine in questione, in sintesi, prevedono una doppia riduzione o, forse, un’unica riduzione in due fasi distinte; la prima fase è quella della riduzione di ogni realtà sensibile alle idee, cause formali di ogni cosa, mentre la seconda consiste nel ridurre le idee a due principi quali l’Uno e il grande/piccolo, ossia la Diade indefinita: l’Uno rappresenta la causa formale delle idee, mentre la Diade indefinita la loro causa materiale. Risulta chiaro che la novità delle “dottrine non scritte” consiste in una “numerizzazione” delle idee: le idee sono causa di unità ed ordine rispetto alle molteplici realtà sensibili, pertanto, se i numeri sono per eccellenza espressioni di unità ed ordine, l’identificazione fra idee e numeri risulta di semplice comprensione. I numeri cui le idee sono ricondotte (prima fase) sono, pitagoricamente, i primi dieci; è chiaro che il numero delle idee sia di gran lunga superiore ai primi dieci numeri, dunque è probabile, sottolinea l’A., che la prima decade sia il modello delle idee (Robin), il loro genere (de Vogel) o loro caratteristiche generali (Ross). Se, quindi, la prima fase corrisponde alla riduzione delle idee ai numeri, la seconda è la riduzione delle idee/numeri ai principi: l’Uno/Bene, inteso come causa formale, e la Diade indefinita, matrice dei numeri in quanto concede loro la possibilità di essere divisi per due e di essere doppi, non andando, però, oltre il dieci. Dopo il secondo contributo (Il Filebo e le “dottrine non scritte” di Platone, pp. 539-551) che ricerca una possibile connessione fra il Filebo e le “dottrine non scritte”, specialmente alla questione dell’Uno-Bene, l’ultimo studio (L’oggetto dell’ei)kw£j mu/qoj nel Timeo di Platone, pp. 553-567) si occupa del mito platonico del Demiurgo nel Timeo.Come è noto la tradizione ha letto sempre in modo letterale e non allegorico il mito platonico sulla genesi del mondo a tal punto che il Timeo è stato una ragione di connessione fra pensiero pagano e cristiano e un costante punto di riferimento che ha reso accettabile la filosofia platonica all’ebraismo (Filone), al cristianesimo (Agostino) e all’Islam (Avicenna). All’interno dell’Accademia, già poco dopo la morte del fondatore, si sviluppò una querelle sul valore letterale o allegorico del mito cosmogonico del Timeo: a favore di una lettura allegorica ma anche “pedagogica” (sulla base di De caelo I 10, 279 b 32-280 a 2) si schierarono entrambi i successori alla direzione dell’Accademia, Senocrate e Speusippo, mentre Aristotele ritenne che Platone ammettesse effettivamente la genesi del mondo. Evidentemente, secondo il Timeo, la genesi del cosmo prevede non solo la formulazione di un principio di causalità, in base al quale tutto ciò che si genera si genera in virtù di una causa, ma anche di un principio di ordine o di intelligenza: il Demiurgo, guardando alle idee geometriche come modelli, plasmò un cosmo bello, regolare, ordinato ed armonico. Di conseguenza se è necessaria una causa per la generazione del cosmo, risulterà anche necessario postulare un tempo prima della genesi cosmica, cosa che Platone nega del tutto, sostenendo che il tempo viene costituito solo in un secondo momento: questa è l’unica obiezione nei confronti dell’interpretazione letterale, sebbene, suggerisce Berti sulla scorta di Vlastos, non ci sia affatto bisogno, nella genesi del mondo, di un tempo “immagine mobile dell’eternità”, ma solamente di una “semplice successione […]del tutto priva di numero, cioè di misura, di regolarità” (p. 563). Aristotele, vivente Platone, già all’interno dell’Accademia (ambiente, dunque, non strettamente dogmatico ma aperto al libero confronto filosofico), mostrò le sue obiezioni nei confronti del Timeo nel dialogo perduto De philosophia, i cui frammenti più utili per la questione sono stati conservati da Filone; nel frammento 19 c Aristotele argomenta contro la corruttibilità del mondo, affermando che se Dio volesse distruggere il mondo dopo averlo plasmato, ciò comporterebbe una meta/noia, un cambiamento di idee indegno di Dio. Il medesimo argomento è decisivo anche contro la generazione cosmica, come testimonia Cicerone che conosceva talmente tanto il De philosophia da citarlo con estrema precisione: “il mondo non ha mai avuto origine, perché non vi sarebbe potuta essere alcuna intrapresa di un’opera così splendida mediante una decisione nuova”(“novo consilio inito”- p. 565). Pertanto già all’interno dell’Accademia si scontrarono le due posizioni sul mito cosmogonico, l’una allegorizzante e pedagogica, l’altra letterale; ciò che comunque rimane indiscusso è che Aristotele aveva compreso il punto debole del mito platonico, ossia la necessità di postulare un mutamento di idee (meta/noia) in Dio: per questo Senocrate e Speusippo tentarono di introdurre una diversa ermeneutica del mito. La logica di Aristotele, in fin dei conti, è riuscita non solo a scovare una difficoltà interna al mito platonico, ma anche ad identificare la maggiore incoerenza di qualunque altra dottrina, più o meno fideistica, che pensi la cosmogonia in termini di creazione e di “inizio”.                         

PUBBLICATO IL : 09-10-2006
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