Giovanni Papini è lo scrittore ben noto a tutti che ha legato il suo nome al sodalizio con Giuseppe Prezzolini, all’introduzione della filosofia pragmatista in Italia e alla ricerca spasmodica di nuove forme della letteratura e della vita spirituale indicate dalle riviste “Leonardo”, “La Voce”, “Lacerba”. Nel 1913, alla vigilia della guerra che avrebbe sconvolto i valori degli animi più sensibili, Papini aveva tracciato un quadro delle sue intense esperienze giovanili in una sorta di racconto diaristico intitolato Un uomo finito che, ancora oggi, è forse il suo scritto più conosciuto. Prima di quell’autoraffigurazione, negli anni che la precedettero, lo scrittore fiorentino aveva svolto un grande lavoro di formazione di sé e di produzione culturale. Il volume pubblicato ora con il titolo Il non finito, in evidente riferimento ma anche contrappunto rispetto a Un uomo finito, intende documentare proprio quello sforzo davvero notevole che Papini compì per “emergere” dal buio al mondo della cultura e che portò avanti con grande costanza e convincimento. A questo scopo il libro riunisce insieme da una parte il diario (1899-1902, completato così con la pubblicazione dei documenti del primo anno), dall’altra i saggi, le conferenze, gli appunti, tutti quei testi, insomma, che tra il 1898 e il 1905 Papini stesso aveva concepito per il pubblico.
Se colpisce subito la differenza di tono tra le pagine strettamente private e quelle redatte per essere lette ad altri (scarne di commenti le prime e quasi ridotte a rubricare autori e letture, cariche di pathos le seconde e ragionate a lungo), si osserva anche che sia le prime che le seconde testimoniano un interesse del giovane Papini per la filosofia tutt’altro che superficiale. Il diario ci dice che, alla ricerca del proprio profilo intellettuale, ma già convinto di doverne avere uno, Papini frequentò autori come Rousseau, Schopenhauer, Spencer, Stirner, Nietzsche, Stuart Mill, Hume e Kant, Cartesio e Comte, Brunetière, Enrico Ferri, Renan, Couturat e Ollè Laprune, Marchesini e Taine; ascoltò le lezioni di Felice Tocco, soprattutto quelle dedicate a Hume; consultò assiduamente riviste di filosofia e di psicologia; s’interessò in modo non estemporaneo del darwinismo; lesse insieme all’amico Morselli gli scritti di William James che avrebbe poi contribuito a far conoscere in Italia (i Saggi pragmatisti furono pubblicati nel 1910 con prefazione e bibliografia a cura di Giovanni Papini). L’interesse per la filosofia trapassa senza soluzione di continuità in quello per la psicologia. E’ molto pertinente, dunque, quanto afferma Casini nella sua introduzione, e cioè che Papini era coinvolto nel conflitto epocale tra filosofia e psicologia. E ciò è da intendersi non tanto per il fatto, che di per sé potrebbe non essere così tanto significativo, che Papini intervenne con un articolo (La teoria psicologica della previsione, “Archivio per l’antropologia e l’etnologia” 1902) nella controversia tra epistemologi e psicologi sul valore di previsione delle leggi scientifiche, quanto, piuttosto, perché appare chiaro dai documenti che Il non finito presenta che Papini sentiva con vivezza il problema della conoscenza e che di esso ricercava una soluzione perlustrando sia il terreno della psicologia che quello della filosofia, mostrando di intendere i due ambiti come sostanzialmente sconfinanti l’uno nell’altro, trapassanti l’uno nell’altro. Ma se la spinta a travasare i contenuti della psicologia nel campo filosofico per consentire la soluzione del problema della conoscenza era condivisa da Papini con tanti altri pensatori, altrettanto comune sarebbe stato il prendere atto della difficoltà che quel tentativo portava con sé. La cosa appare con qualche chiarezza nella conferenza scritta nel 1902 per i giovani del “Leonardo”.
Infatti, nel Discorso ai giovani del gruppo vinciano, conferenza di intento programmatico che tracciava i pochi ma essenziali punti da tener presenti per dar vita alla rivista, Papini metteva a tema anche il problema della conoscenza e dichiarava che il «postulato idealista» era uno di questi elementi imprescindibili. Ma cos’era questo postulato che rivestiva un ruolo così importante? Era il fatto di considerare «tutte le cose del mondo non come sostanze esistenti in sé e indipendenti dal soggetto ma come modificazioni del soggetto stesso, come fatti di coscienza». Detto in questi termini, il postulato restava piuttosto indefinito. Se però si presta attenzione al fatto che Papini aveva poco prima parlato della filosofia definendola da una parte come il gioco delle più alte facoltà dello spirito, come un complesso stato di coscienza che esprimeva la libertà e la superiorità dello spirito stesso rispetto a ogni dottrina e a ogni idea, dall’altra come il vertice della vita spirituale e quest’ultima come il solo vero valore, ci si accorge subito della difficoltà del ragionamento che egli cercava di svolgere. Era una evidente tensione tra psichico e logico quella che si metteva in risalto nelle sue parole: se i fatti di coscienza erano il centro di gravitazione della filosofia e questa era gioco delle più alte facoltà dello spirito, gioco nel quale si esprimeva la sua libertà, e se poi questa libertà era anche il solo vero valore riconosciuto da Papini, allora o la filosofia si riduceva a mero gioco psichico, -ma allora che ne era della spiritualità?- oppure quella libertà dello spirito, quella superiorità a ogni idea doveva essere identificata con lo spirito tout court, ovvero con ciò che aveva valore proprio in quanto sopraindividuale, soggetto ma non soggetto empirico, struttura trascendentale, insomma, non psiche individuale. Era una tensione tra emotività e universalità che in nessun modo avrebbe potuto restare sottesa al postulato idealista senza mandarlo in pezzi. Di conseguenza, poi, non si riusciva a concepire con qualche perspicuità quella strana sequenza di sistemi filosofici che egli annoverava come idealismo. Logica e psicologia erano tenute insieme senza individuare la possibilità del loro comporsi e così il postulato invece di affermarsi come solida base dell’impianto filosofico –e sia pure di un impianto che non voleva in alcun modo essere sistematico- si intuiva essere il punto cedevole di tutto il discorso. Era chiaro, insomma, che questo punto debole tanto più appariva tale quanto più avrebbe dovuto invece essere il nodo che legava insieme i due universi che, appunto, insieme si voleva che stessero e con coerenza.
Coniugare filosofia e psicologia sembrava il compito che Papini non era riuscito a svolgere. Compito enorme, che costituiva uno dei grandi temi della riflessione dell’epoca. Abbandonata la pretesa di costituirsi a sistema, alla ricerca di un nuovo status e nuovi valori, la filosofia trovava nella psicologia non solo stimoli e sollecitazioni, ma anche un rovello che avrebbe continuato a scavare a fondo nella sua forma. Gli scritti giovanili di Giovanni Papini sono impregnati di questo problema che egli sentì acutamente. E se egli è apparso talvolta superficiale, cioè trascorrente da un autore all’altro, da un punto a un altro, la nostra impressione è che tale “superficialità” dovrebbe piuttosto essere riconosciuta come difficoltà: era il fatto di avvertire l’insuperabilità del problema a spingere Papini a spostare la sua ricerca, ad un rivolgimento continuo. Questo rivolgimento era, nei fatti, più apparente che reale, se lo si guarda con occhio più fermo, perché esso appare piuttosto come l’incarnazione stessa dell’aporia, come la difficoltà vissuta più che messa a tema e contenuta nell’ambito logico. La dimensione esistenziale che viene restituita negli scritti di Papini e di cui Il non finito rappresenta un prezioso documento coincide con una vera e propria crisi epocale. La necessità di affrontare e risolvere il problema del rapporto tra filosofia e psicologia può essere vista come simbolo di questa crisi. La vicenda di Papini si caratterizza come segnata, fin dall’esordio, da quel drammatico sentire l’aporia che altri avrebbero messo a tema di una indagine razionale. Così è proprio da queste pagine, dal primo diario e dalle prime conferenze, che si definisce la cifra del futuro letterato, che di lì a pochi anni sarebbe stato pragmatista, ma che avrebbe ancora cercato oltre ciò che poteva estinguere la sua sete di totalità.
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