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Eugenio Canone, Magia dei contrari. Cinque studi su Giordano Bruno , Edizioni dell' Ateneo, 2005
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di Alessandro Aprile |
Bruno nello Spaccio de la bestia trionfante scrive: « il principio, il mezzo et il fine; il nascimento, l’aumento e la perfezione di quanto veggiamo, è da contrarii, per contrarii, ne’contrarii, a contrarii: e dove è la contrarietà, è la azione e reazzione, è il moto, è la diversità, è la moltitudine, è l’ordine, son gli gradi, è la successione,è la vicissitudine.». Il presente volume ha come obiettivo quello di fornire una visione d’insieme del tema dei contrari dimostrando come la dialettica dei contrari costituisca il nodo teorico fondamentale della “nolana filosofia”; la stessa collocazione dei cinque contributi che compongono il volume permette di comprendere i livelli diversi, la molteplice forma e significato che i contrari assumono nel pensiero bruniano, cercando di dipanare il complesso intreccio argomentativo nel quale Bruno presenta tale tema nelle sue opere. Il primo contributo affronta la questione dei contrari partendo dal primo livello: quello fisico. Sin dalle opere, quali il Candelaio, De immenso, De imaginum compositione, il tema dei contrari è legato al termine machina, termine ricorrente già nell’antichità con il quale si era soliti fare riferimento all’universo, inteso come un tutto unitario e vivente. Bruno, pur rifacendosi a questa tradizione, preferisce utilizzare il termine machina in riferimento più ai corpi celesti e agli infiniti mondi che compongono l’universo infinito che direttamente quest’ultimo.Ogni astro è un composto di parti dissimilari, in particolare sul piano fisico Bruno parla del caldo e del freddo che nel De infinito sono chiamate«le due prime «qualitadi attive», le quali ne determinano la parabola costruttiva e disgregativa; tali astri non sono solo una somma di parti contrarie, perché ciò che rende questi aggregati degli organismi viventi è l’anima\spirito, la forza coesiva della materia atomica. Quindi il funzionamento di ogni machina fa capo a quelli che nel terzo dialogo del De la causa, principio et uno sono detti «doi geni di sustanza » ovvero la materia corporea e la sostanza spirituale, l’anima e l’atomo, che vengono a coincidere nell’unica sostanza infinita che compone l’universo infinito.L’omogeneità materiale dell’universo è un punto fondamentale della cosmologia infinitista poiché in questo modo viene a cadere ogni distinzione tra mondo lunare e mondo sublunare, distinzione che presupponeva due elementi materiali qualitativamente differenti, invece per Bruno la differenziazione tra cielo e Terra può essere ammessa solo nei termini funzionali dei “punti di vista”, infatti sia nella Cena de la Cenerichenel De immenso Bruno afferma più volte che noi siamo cielo per coloro che sono cielo per noi.Il segreto dell’arte della natura pertanto risiede nel principio dei contrari, il quale può essere definito come il principio propulsivo interno della molteplicità naturale, che non a caso Bruno chiama nel De la causa «profonda magia». Se le infinite macchine dipendono da questa principio immanente e sono considerate come degli animali intellettuali, allora viene esclusa categoricamente la possibilità di pensare un’intelligenza esterna alla natura, un Dio al di là dell’universo; per Bruno Dio è nella natura, è la natura infinita stessa, ma la tempo stesso è absconditus, ovvero in sé inconoscibile ma del quale conosciamo solo l’opera, appunto le infinite macchine.Il principio dei contrari non riguarda, però, solo l’arte della natura ma anche quella dell’uomo, termine con il quale Bruno intende l’intelligenza e l’ingegno umano che grazie alla mano possono tradursi in opere.Profondando nel segreto naturale l’uomo contempla l’opera della natura e da essa trae spunto per le sue opere, l’arte e la scienza, che non solo imitano la natura ma alcune volte si spingono fuori o addirittura contro di essa, perché a differenza dall’intelligenza spontanea e non errante della natura, quella dell’uomo è discorsiva (l’uomo discorre e ripensa). Per questa sua caratteristica peculiare, l’arte dell’uomo necessita di una coscienza morale che possa indirizzare ad un retto uso le invenzioni e i congegni della scienza, necessità attraverso la quale, d’altro canto, si riconosce l’uomo come unico essere vivente che possa dare significato morale a tutto ciò che lo circonda. Il secondo contributo pone l’attenzione sul collegamento tra la «nolana filosofia» e l’orizzonte magico sul quale essa si fonda. Per Bruno l’aver «penetrato il cielo […] fatto svanire le fantastiche muraglie de le prime, ottave, decime» è un risultato altamente morale che non solo restituisce dignità ontologica alla natura ma ridefinisce anche l’idea e il ruolo della filosofia stessa, la quale si libera dei vincoli della sterile metafisica.L’aver eliminato ogni distinzione tra mondo lunare e sublunare comporta la denuncia della vanità della ricerca di un centro assoluto nell’universo e l’abbandono di ogni ricerca di un sommo bene posto in un al di là teologico, perché quest’ultimo può essere realizzato qui sulla terra ovvero nella natura e nella storia anch’essa posta nell’orizzonte della vicissitudine. Non è un caso che Bruno in questa lotta per l’affermazione dell’«antiqua vera filosofia» faccia proprie le istanze della magia naturale, perché l’insegnamento di quest’ultima, oltre ad essere fortemente antimetafisico e antiteologico, è una teoria capace di convertirsi in prassi: la magia penetra nei misteri intimi della natura riconoscendo come a fondamento di essa ci sia un ‘infinita iterazione dell’unità retta dal principio dei contrari; la magia naturale, però, non è solo esatta comprensione teorica della natura ma anche la virtus agendi.Quest’ultima particolare caratteristica della magia è per Bruno la discriminante mediante la quale giudicare le altre forma di sapienza, come ad esempio il platonismo o l’aristotelismo, i quali, insistendo su di una separazione della natura, dividendo rispettivamente il modo intelligibile dal mondo fisico o separando il mondo lunare da quello sublunare, non hanno compreso l’esatto valore della natura non potendo quindi coglierne le leggi che sono alla base della sua infinita produzione non ricavandone, pertanto, un insegnamento che si possa tradurre in opere.Per Bruno lo stesso errore l’hanno commesso anche il cristianesimo e l’ebraismo, le quali basandosi sulla distinzione tra la sfera della natura e la sfera della divinità, hanno tradito l’insegnamento della religione naturale, quell’unica vera sapienza, che considera ineliminabile la funzione mediatrice della natura per l’ascesi al mondo metafisico.Su quest’ultimo punto Canone si sofferma ampiamente dovendo precisare come per Bruno il mondo ideale esiste ma in quanto dipendente dal modo fisico, ovvero il Nolano non nega l’esistenza di mondi ideali ma nega la possibilità di affermare che tali mondi esistano autonomamente e indipendentemente dal mondo fisico. Il terzo studio affronta il tema di contrari ad un altro livello: quello morale, analizzando quella che Canone definisce l’opera più apocalittica di Bruno: lo Spaccio de la bestia trionfante.In realtà non si può definire Bruno un pensatore apocalittico e quindi va compreso quale significato assuma nella «nolana filosofia» la dimensione apocalittica.Bruno rifiuta l’idea di «fine del mondo» o di «Giorno del Giudizio» intesa come fine di tutte le cose, perché l’universo oltre ad essere infinito, è eterno, e data la coincidenza tra l’ente-sostanza infinita e la divinità sarebbe un’ assoluta bestemmia affermare che un giorno l’universo avrà fine perché equivarrebbe a dire che la divinità stessa avrà fine.Nel De la causa Bruno, invece, insiste sulle differenza tra «l’universo e le cose dell’universo», il primo è eterno e immutabile mentre le seconde sono sottoposte alla legge della vicissitudine; quindi le numerose espressioni presenti nello Spaccio quali: «giorno del giudizio», «giorno della giustizia» e «alta giustizia» si riferiscono ad una fine degli infiniti mondi dell’universo e non ad una annichilazione dell’universo. Le apocalissi avvengono sempre all’interno dell’ordine del tempo (ovvero dei contrari) e quindi concernono la “storia” della natura e della civiltà umana.Ogni civiltà è destinata a finire ma nel suo tramonto si darebbe una conservazione della cultura e delle idee che complessivamente quella civiltà ha sviluppato, perché a morire sono i simulacri storici e non le idee, le quali si possono occultare ma non possono mai scomparire del tutto.In questa legge della storia, alternanza di luce\tenebre, per l’uomo non c’è un ordine stabilito che lo ponga in un‘arrestabile progresso verso il bene o il verso il male; la salvezza e il bene sono conquiste individuali realizzate mediante l’intelligenza e l’uso della mano, conquiste che escludono ogni possibilità di pensare un al di là metafisico nel quale scontare le proprie pene o godere dei propri premi. Castighi e premi concernono la coscienza umana, la pena è il sentimento di colpa per la lontananza dalla divinità, e il premio la vicinanza alla divinità.Canone riguardo su quest’ultimo punto fa notare come ci sia una certa sintonia tra il discorso bruniano e quello kantiano seppur quest’ultimo sia inserito in un orizzonte teorico diverso. Nello scritto del 1794 Das Ende aller Dinge Kant scrive: «l’idea di una fine di tutte le cose trae la sua origine non dal ragionare sul corso fisico della cose, bensì su quello morale e pratico della ragione».Se un «gran giudizio» deve esserci per Bruno, oltre a quello interno alla coscienza morale, deve rimanere sempre all’interno dell’ordine naturale, infatti non a caso Bruno fa sua l’idea pitagorica della metempsicosi, una sorta di legge del contrappasso sempre nel contesto del fato e della mutazione interna ai cicli vicissitudinali della natura. Il quarto studio del volume propone un’interpretazione dell’epilogo degli Eroici furori, opera che si conclude con una canzone, la Canzone degl’Illuminati, che rende ancora più difficile la comprensione dell’ultimo dialogo dell’opera.L’ultimo dialogo ha un carattere profetico, sotto il segno di una potente divinità femminile che dapprima si presenta come sotto le vesti della maga Circe, la quale offre ai nove amanti ciechi due «vasi fatali», in relazione ai due contrari della natura, l’uno causa di cecità e l’altro principio di illuminazione, affermando che quest’ultimo non può essere aperto da lei ma mediante l’intervento di una ninfa\dea dai molti volti e nomi.Manifestasi questa misteriosa ninfa e riacquistata la vista sulle rive del fiume Tamigi (evidenti sono i riferimenti autobiografici di Bruno), i giovani intonano la Canzone degl’Illuminati, la quale racconta di una contesa tra Giove e Oceano sui loro rispettivi imperi, del fuoco e dell’acqua, che viene risolta anche qui grazie all’intervento di una ninfa, la quale mediando tra i due emisferi ristabilisce l’equilibrio tra essi.Le parole conclusive con le quali si chiude la Canzone sono di Giove, il quale afferma rivolgendosi ad Oceano « i miei tesori e i tuoi corrano al pari», evidenziando come la Canzone sia un inno alla vicissitudine.Innanzitutto, il titolo della Canzone è un richiamo al biblico Cantico dei cantici, testo più volte citato da Bruno nei Furori; la misteriosa Ninfa che pone fine allo scontro tra Giove e Oceano trova un suo riferimento storico nella regina Elisabetta I che già nella Cena viene esaltata come colei che «ha fatto trionfar la pace e la quiete; mantenutasi salda in mezzo di tanti gagliardi flutti e tumide onde di sì varie tempeste: co le quali a tutta possa gli ha fatto empito questo orgoglioso e pazzo Oceano, che da tutti i contorni la circonda».Come detto sopra, la Canzone viene cantata dai nove giovani in lode alla ninfa salvatrice; il testo è assai curioso e Canone propone una sua interpretazione facendo riferimento ad una fonte finora trascurata dalla critica: l’Iliade, in particolare il quindicesimo canto. In quest’ultimo si racconta del rifiuto opposto da parte di Poseidone all’ordine di Zeus di ritirarsi dall’intervento diretto a fianco degli Achei, l’ordine gli viene comunicato attraverso Iris, la messaggera degli dei che poteva recarsi negli abissi marini e nell’Ade. Poseidone riferendosi a Zeus risponde a Iris «Ha parlato in modo arrogante, per quanto grande egli sia, se con la forza, mio malgrado, vuole piegare me che sono suo pari».Bruno riprende il testo apportando notevoli variazioni, ad esempio nella Canzone si parla di Oceano e non di Poseidone. Nella Teogonia esiodea Oceano è lo zio di Zeus e Bruno riprende questa tradizione perché vuole esaltare il ruolo primario di Oceano come divinità dell’acqua, il quale come si legge nelle Georgiche di Virgilio e nell’Iliade è «origine degli dei» e «origine di tutto»; per Bruno quindi Oceano è la struttura portante dell’universo.Detto questo, si può affermare che la misteriosa ninfa della Canzone potrebbe essere la stessa sposa di Oceano: Teti; oppure la sposa di Poseidone: Anfitrite, quella stessa dea cui Bruno si rifà nei Furori indicandola come essenza\sostanza della divinità stessa, anche in rapporto allo spiritus universalis. Negli scritti bruniani Anfitrite rinvia a una divinità femminile importantissima: Magna Mater come «vera essenza de l’essere de tutti», una Cibele che si collega a Diana e a Minerva, come pure a Venere quale Afrodite Urania.Questa misteriosa ninfa è quella «madre degli dei», che nelle Metamorfosi di Apuleio si manifesta dichiarando di riassumere in se stessa tutte le divinità maschili e femminili, un’essenza divina unica conosciuta e venerata sotto diversi nomi, ma il cui vero nome sarebbe Iside Regina.Quindi la Canzone sarebbe un inno all’unica e molteplice dea: un Sole femminile, una Magna Mater, attraverso la quale l’universo è pervaso di armonia e i contrari, Oceano e Giove, stelle e pianeti, Soli e Terre si riunificano nell’infinito universo. Il quinto contributo del volume, posto in Appendice, vuole essere, come lo stesso Autore scrive nella Premessa, un avvio della ricerca sulla formazione napoletana di Bruno, campo questo che non è stato a sufficienza approfondito negli studi su Giordano Bruno.In questo ultimo studio Canone si concentra nell’analisi delle raffigurazioni della cappella Carafa di Santa Saverina della chiesa annessa al convento di San Domenico Maggiore dove Bruno trascorse dieci anni (1565-1575), anni di intenso studio ma segnati anche da gravi dubbi riguardo la religione cristiana.Canone cerca di dimostrare la possibilità di stabilire un collegamento tra i temi dello Spaccio de la bestia trionfante e le decorazioni della cappella Carafa. La cappella è rimasta finora sconosciuta agli studiosi di Bruno sebbene nel 1929 Aby Warburg, intenzionato a completare uno scritto su Bruno, visitando la chiesa di San Domenico Maggiore ne avesse colto il collegamento con lo Spaccio.Il programma iconografico della cappella era quello di cristianizzare il cielo pagano, quel cielo ottavo o delle stelle fisse che nello Spaccio risulterà essere il cielo allegorico-morale e che la teologia cristiana riteneva totalmente sottomesso all’empireo. Nello suo scritto Bruno parlerà di due cieli in uno, ovvero sia del cielo stellato sopra di noi che dentro di noi che devono essere riformati.Sul soggetto della cappella ci è rimasta la testimonianza di Bernardo di Dominici, il quale nella sua opera Vite de’ pittori, scultori, ed architetti napoletani (1742-1745) scrive che le pitture rappresentavano «l’Eterno Padre con Gesù Cristo, la Beata Vergine in gloria, con alcuni Santi a devozione del suddetto Signore [Andrea Carafa]». Nei sottarchi laterali erano raffigurati sono scolpite trenta della quarantotto costellazioni elencate da Tolomeo nell’Almagesto e alle quali Bruno si richiama nello Spaccio; inoltre, nel sott’arco d’ingresso e in quello di fondo sono raffigurate alcune costellazioni extrazodiacali, le quali eserciterebbero un’influenza nel mondo sublunare. Non è un caso che Bruno si confronterà proprio con queste costellazioni nello Spaccio perché svuotate del loro significato cosmologico, potranno assumere un carattere antropologico e simbolico, come figure delle stelle nella nostra immaginazione che devono ridisegnare un nuovo cielo dentro e fuori di noi.
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