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Paolo Parrini e Luca Maria Scarantino (a cura di), Il pensiero filosofico di Giulio Preti , Guerini e Associati, 2004
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di Federica Buongiorno |
Il volume raccoglie una nutrita serie di contributi dedicati al pensiero filosofico di Giulio Preti, risultati dalla rielaborazione degli interventi tenuti nel corso del convegno svoltosi presso il Castello Pasquini di Castiglioncello dal 17 al 19 ottobre 2002 in occasione del trentennale della scomparsa del filosofo pavese ed integrati, in occasione della pubblicazione, da nuovi contributi presentati nella sessione dedicata a Preti nel corso del XXI Congresso mondiale di filosofia svoltosi ad Istanbul nell’agosto 2003.
I curatori evidenziano sin dalla Presentazione quegli elementi di originalità e modernità del pensiero pretiano, che saranno ampiamente illustrati nel corso dell’intero volume dalla varietà e profondità dei contributi proposti. Il principale obiettivo del testo consiste infatti nella messa in luce, fondata su un approccio critico e problematizzante più che semplicemente agiografico, della complessa e multiforme articolazione del pensiero filosofico di Preti, che affonda le sue radici in una molteplicità di stimoli teorici differenti, originalmente rielaborati, e si ramifica a sua volta in una pluralità di campi di studio diversi – pur mantenendo sempre al centro, come motivo portante e unificante dell’intera riflessione, il problema della costruzione di un «razionalismo nuovo» capace di comporre tra loro le istanze provenienti dalla tradizione trascendentale e formale di matrice banfiana da un lato, e quelle derivanti dall’empirismo logico e dal pragmatismo dall’altro; una composizione che deriva dall’esigenza pretiana di coniugare l’ideale della scientificità del sapere con il pulsante e variegato mondo della Lebenswelt che esso porta a significazione e comunicabilità, ciò che avviene in Preti mediante la sua originale interpretazione del principio di verificazione, saldato alla nozione husserliana di Erfüllung allo scopo di render conto anche delle esperienze ultime vitali, così da presentarsi quale punto d’incontro tra empirismo, pragmatismo e fenomenologia. Proprio questa dinamica tra dimensione formale e dimensione storica del sapere costituisce, sottolineano i curatori, uno dei maggiori contributi pretiani alla riflessione contemporanea: scopo del volume è anche quello di mettere in evidenza, insieme all’originalità del pensiero, l’utilità di un suo approfondimento nell’attualità, in cui molti aspetti della filosofia pretiana – in Italia come all’estero – appaiono ancora poco conosciuti e studiati.
Il volume è suddiviso in quattro parti, ciascuna delle quali è volta ad approfondire un aspetto determinato del pensiero filosofico di Preti: la prima parte è dedicata al tema Esperienza vitale e mondo dei valori e comprende gli interventi di Paolo Parrini, Pier Luigi Lecis, Luca Landi e Roberta Lanfredini. La sezione oscilla dunque tra questioni relative al Preti «filosofo dei valori» [Parrini] e questioni di matrice fenomenologica ed husserliana: i due ambiti s’incrociano infatti nel pensiero di Preti, definito da Parrini nel suo contributo (Preti filosofo dei valori) come principalmente un filosofo dei valori, nel senso che – sebbene Preti non abbia trattato esplicitamente questo tema all’interno di opere specifiche – il movente principale della riflessione pretiana risulta essere il problema axiologico, che si esplica particolarmente nella questione relativa agli autovalori nella loro dinamica di radicamento nella soggettività empirica da un lato e di autonomia ideale rispetto ai singoli atti di valutazione dall’altro. Tale dinamica costituisce appunto l’oggetto dell’intervento di Parrini, che ne evidenzia la soluzione in Preti nei termini di un trascendentalismo in grado di comporre la dialettica tra ragione ed esperienza grazie al ruolo mediatore svolto dall’intelletto, e capace di garantire l’autonomia ideale delle forme evitando nel contempo i rischi di un’assolutizzazione delle categorie conoscitive o di una sostanzializzazione dello stesso soggetto trascendentale.
Anche Lecis rileva, in apertura di contributo (Critica dello psicologismo e spirito oggettivo in Giulio Preti), la compresenza nel pensiero pretiano di motivi di matrice neokantiana e fenomenologica accanto alle istanze derivanti dalla conoscenza della riflessione di Frege, Russell e Moore, e riprende il problema dell’autonomia ideale delle forme conoscitive mettendolo però in rapporto con la critica pretiana dello psicologismo: in questo caso si tratta di rivendicare l’autonomia delle scienze normative (tra cui anche la logica e l’etica) sulla base del carattere prescrittivo delle loro leggi, contrapposto al carattere descrittivo delle leggi proprie della psicologia. Anche Lecis rileva come Preti ricorra ad un tipo di analisi trascendentale che in questo caso conduce alla distinzione tra spirituale e psicologico allo scopo di evidenziare la centralità dell’oggettivo-spirituale (e non dello psicologico) nella comprensione dei processi cognitivi complessi, i quali non possono essere adeguatamente spiegati facendo riferimento esclusivo all’interazione causale tra organismo ed ambiente.
Luca Landi evidenzia il rifiuto pretiano della metafisica della conoscenza a partire dal tema della «carne», riferendosi dunque all’opera di Preti In principio era la carne. Scritti filosofici inediti (1948-1970); nell’evidenziare il necessario nesso tra vita e corpo, Preti distingue (husserlianamente) tra Leib e Körper, ovvero tra corpo proprio organico e mero corpo fisico, al fine di sottolineare il carattere mediano della corporeità quale funzione di «infinita mediazione tra Spirito e Natura» [Preti], ovvero tra piano dell’umanità orientata e animata e piano dell’esistenza cosale irrazionale. Sulla primarietà del corpo nel suo carattere mediano s’innesta il sistema di astrazioni e riflessioni volto ad una prima organizzazione del materiale empirico in quanto tale, operato dal logos innanzi tutto nella forma primaria del linguaggio, che – concretandosi all’interno dello spirito oggettivo come insieme di tutte le dimensioni culturali istituzionalizzate della società – viene a costituire un primo distacco dal piano della «carne». Al termine dell’itinerario di ascesa dello spirito oggettivo si ritroverà però, evidenzia Landi, un ritorno al corpo: ogni astrazione o costruzione di pensiero ha infatti l’obiettivo di rendere la vita concreta, terrestre dell’individuo il «più comoda e ridente possibile» [Preti], coinvolgendo l’uomo integrale fin nelle sue emozioni primarie e rendendolo al tempo stesso un uomo «spiritualizzato», che reca cioè in sé il valore aggiunto fornitogli dalla parabola dello spirito oggettivo.
Il rapporto del pensiero di Preti con la fenomenologia husserliana è esplicitamente tematizzato nel contributo di Roberta Lanfredini (Immanenza e trascendenza: Husserl e Preti), che muove dall’esigenza pretiana ed husserliana di individuare una modalità filosofica che possa rispondere alla pura voce dell’esperienza, modalità identificata da Preti nell’empirismo logico il quale però, come rileva Lanfredini in relazione alle tesi di Schlick, non sembra adattarsi pienamente a quella esigenza nella misura in cui implica la radicale espulsione dell’intuizione dall’ambito conoscitivo, il che contraddice l’istanza del dare voce all’esperienza. Lanfredini evidenzia come Husserl e Preti siano accomunati dalla critica alla concezione dogmatica del conoscere nel suo esito scettico, ma mentre il primo fonda tale critica sul concetto di controsenso (rinviante al principio di verificazione), il secondo la appoggia a quello di insensatezza (rinviante alla basilare questione della gerarchia eidetica, descritta da Husserl in Ideen). La concezione dogmatica della conoscenza si fonda sulla radicale trascendenza dell’oggetto della conoscenza, che conduce inevitabilmente ad un esito scettico e che Preti tenta di combattere riprendendo le categorie husserliane di intenzionalità e di prospetticità dell’afferramento intenzionale, che attenuano la trascendenza dell’oggetto ancorandolo all’immanenza dell’atto intenzionale e delle sue modalità, scongiurando così il rischio di un esito scettico quale quello implicato dal dogmatismo.
La seconda parte del volume si concentra sul tema Logica, analisi del linguaggio e filosofia della scienza nel pensiero di Preti e si apre con un complesso contributo di Jean Petitot su Le problème logique de la quantification existentielle chez Preti et Hilbert, in cui viene preso in esame uno scritto inedito di Preti, datato 16 ottobre 1955, che costituisce la parte iniziale di un’opera intitolata Ricerche ontologiche (con chiaro riferimento alle Ricerche logiche di Husserl) e in cui il filosofo pavese prende in esame il problema logico e filosofico dell’esistenza come predicato. Petitot nota come il tema in questione sia filosoficamente assai rilevante, dal momento che la filosofia e la logica moderne (da Kant a Husserl) hanno precisamente rigettato la tesi che l’esistenza possa essere un predicato: Preti comincia con l’esaminare proposizioni del tipo «x esiste» per connetterle immediatamente al problema fondamentale della quantificazione, che sta alla base del pensiero di Hilbert e della sua scuola, e che comporta alcune difficoltà d’ordine logico che Preti cerca di risolvere integrando la nozione di descrizione indefinita di Hilbert con l’analisi russelliana delle descrizioni definite, secondo cui un qualunque oggetto a esiste solo se il simbolo a denota qualcosa. In tal modo Preti si pone all’interno di quello che lui stesso chiama neo-realismo o realismo fenomenologico (per distinguerlo dal realismo ontologico), ma Petitot rileva criticamente tre difficoltà (di carattere metafisico, matematico e tecnico) che derivano dall’originale posizione pretiana di coniugazione tra logica hilbertiana e logica russelliana, evidenziando come si tratti di problemi effettivi che investono l’insieme dei problemi fondazionali, come Petitot dimostra svolgendo un’accurata analisi della problematica della quantificazione in Hilbert.
Gli altri contributi della seconda sezione sono dovuti a Wilhelm Büttemeyer, Alberto Peruzzi e Fabio Minazzi. Büttemeyer incentra il suo intervento su Le concezioni della logica di Preti, evidenziando come la logica del primo Preti tragga ispirazione essenzialmente dalle ricerche di Bolzano ed Husserl, per poi subire un certo influsso (intorno agli anni ’30) di Croce e soprattutto di Gentile. Negli stessi anni Preti leggeva le opere dei maggiori logici dell’epoca, arrivando a definire la Logica pura come la scienza «del dispiegarsi del Logos nel pensiero (pensato) secondo la sua stessa forma», dove per Logos Preti intende la forma obiettiva, integrale e sistematica dei contenuti di pensiero. Ne consegue che per il primo Preti la logica è essenzialmente simbolica e matematica, una concezione di cui Büttemeyer evidenzia la problematicità, legata alle difficoltà che solleva la stessa definizione pretiana di Logos. La concezione matura della logica (anni ’40) in Preti si sposta dalla considerazione delle forme del pensiero all’analisi delle forme del linguaggio, portando ad una nuova concezione delle stesse caratteristiche della logica: essa non è più logica puramente formale e matematica, anzi nel corso degli anni ’50 Preti sosterrà che vi è differenza tra logica matematica e logica filosofica e si interesserà anche dei nuovi tipi di logica (logiche non standard, metalogica, logica del discorso valutativo) che offrono nuovi metodi di soluzione ai problemi filosofici.
Alberto Peruzzi dedica il suo intervento all’analisi del linguaggio in Giulio Preti (Preti e l’analisi del linguaggio), partendo dall’analisi della tesi della gerarchia lacunosa come alternativa alla contrapposizione frontale tra linguaggio comune e linguaggio logico-ideale. Preti ritiene infatti che l’opposizione netta tra i due livelli di linguaggio si possa evitare rinunciando alla pretesa che il linguaggio ideale si sovrapponga a quello comune e modulando tra i due piani una gerarchia di livelli di crescente rigore e generalità: la questione è indagata da Peruzzi mediante sei annotazioni critiche al discorso pretiano sull’analisi del linguaggio, che tendono ad evidenziare non solo i motivi di originalità della riflessione di Preti ma anche le difficoltà teoriche che essa apre. Preti affianca al metodo dell’analisi del linguaggio il metodo fenomenologico husserliano, nel quale vede (soprattutto in merito alla categoria dell’intenzionalità) lo strumento necessario per completare l’analisi del linguaggio, la quale si serve della logica senza però analizzare anch’essa nella sua oggettività: il filosofo pavese ritiene che questa seconda analisi sia possibile solo tematizzando le strutture del soggetto epistemico e appunto perciò si rifà al metodo fenomenologico, che gli permette di identificare il Sinn freghiano con il modo di un atto intenzionale. Per questa via Preti giunge ad una concezione essenzialmente funzionale del significato, cioè intende i significati come funzioni e non come oggetti; tesi, questa, che apre a nuove difficoltà teoriche, analizzate da Peruzzi in conclusione del suo contributo.
Fabio Minazzi svolge una riflessione su Giulio Preti filosofo della scienza, partendo dall’evidenziazione del punto di vista neotrascendentalistico e storico-oggettivo adottato da Preti, che implica una circolarità nell’analisi critico-filosofica della scienza, la quale si articola in tre diversi livelli nessuno dei quali può essere inteso come assoluto ed irrelato ma è necessariamente in osmosi con ciascun altro, e rispetto ai quali la filosofia opera come meta-riflessione formale vuota. Minazzi evidenzia come Preti, pur occupandosi esplicitamente di tematiche epistemologiche, eviti accuratamente di appiattirsi su quest’unico piano di indagine: egli non si accontenta di spiegare come la scienza è articolata, ma intende indicare anche come essa deve essere strutturata. A tal fine Preti applica il metodo analitico all’analisi del linguaggio scientifico, sulla base della tesi secondo cui la scienza è in primis un «tipo di discorso, caratterizzato dall’essere empirico, razionale e conoscitivo» [Preti]. In questo contesto s’inscrive l’interpretazione pretiana del principio di verificazione, che Preti ricava dall’empirismo logico, il quale ha dato tre diverse definizione di tale principio, rilevate e discusse dallo stesso Preti: questi opta per una interpretazione fenomenologico-trascendentale per cui al livello del significato distingue tra piano della direzione intenzionale e piano del riempimento intuitivo, mentre sul piano del contenuto distingue tra contenuto come mera significazione, contenuto come senso riempiente e contenuto quale oggetto. Questa duplice articolazione in due e tre livelli (del significato e delle espressione) consente a Preti di precisare il senso del principio di verificazione sulla base del rinvio di ogni conoscenza scientifica ad una specifica costruzione eidetica relativa ad ogni determinato mondo scientifico.
La terza parte del volume, dedicata a Persuasione razionale, etica e storiografia filosofica in Preti, comprende i contributi di Luca Maria Scarantino, Luca Fonnesu, Mario Cingoli e Ferdinando Vidoni. Nel suo intervento Scarantino evidenzia come già nel saggio su Dewey degli anni 1950-51 Preti affermi che l’atteggiamento scientifico proprio della cultura democratica deve fondarsi sulla discussione e non sul dogma, sulla consultazione e non sull’imposizione, sulla persuasione razionale e non sulla violenza, instaurando un rapporto diretto tra moralità e tipo di discorso sul piano dell’intersoggettività. Qui si pone il problema della cultura democratica, la quale deve costruire «un sapere che sia universale e nello stesso tempo si fondi sul rispetto dei diritti di critica, obiezione e collaborazione di ognuno» [Preti]. Il piano intersoggettivo costituisce l’agente d’interazione e coesione all’interno della società e la sua sostituzione con un concreto sostanziale determina la rottura del piano universale di comunicazione come legame sociale fondamentale: in ciò consiste la prevaricazione della comunicazione autoritaria. Preti identifica il discorso persuasivo razionale con il discorso retorico (di cui quello propagandistico costituisce la degenerazione), sulla base della convinzione che socialità ed emozione non sono disgiunte: il discorso razionale-retorico mira infatti a suscitare una partecipazione concreta e personale nell’ascoltatore, benché in ciò risieda anche il carattere autoritario della cultura retorica, che trae il proprio criterio di verità non dall’interno del discorso stesso ma dall’auctoritas del gruppo. Proprio quando protagonista dell’azione sociale diventa il gruppo in quanto tale, si determina una collettivizzazione su cui si fonda il sistema della società di massa uniformata, in cui predomina il risentimento verso l’altro e che trova nella società dell’immagine la sua espressione fondamentale.
Fonnesu centra il suo contributo (Giulio Preti e le tradizioni etiche) sull’analisi della nozione di «tradizione» nel pensiero di Preti, evidenziandone due sensi fondamentali: un primo senso riferito alla tradizione del pensiero morale ordinario depositato nei costumi e nei valori individuali e sociali (che Preti chiama eticità, l’hegeliana Sittlichkeit), un secondo senso riferito alla tradizione etica propriamente detta come tradizione teorica e filosofica. Preti vede nella metaetica naturalistica e nella versione psicologistica del naturalismo delle posizioni radicalmente errate, che si limitano ad un atteggiamento descrittivo e non anche normativo in filosofia della morale. Proprio il cognitivismo metaetico e l’oggettivismo rappresentano i due elementi che accomunano Moore e Scheler e che Preti critica in questi due pensatori: la teoria della morale è un tipo d’indagine che per Preti deve avere un carattere formale, non riferito a contenuti della moralità, e che deve essere incentrata sulla nozione di valore e sull’idea di ordinamento dei valori. La moralità degli individui è il modo in cui essi si confrontano con i valori, venendone motivati ad agire in conformità ad essi: il confronto si articola in preferenze e dà luogo ad una gerarchia dei valori, la quale però non è oggettiva e data una volta per tutte (come per Scheler), anzi Preti sostiene l’assenza di un valore morale specifico se non inteso come coincidente con un certo universo di valori e con la volontà soggettiva di realizzarli.
Mario Cingoli affronta il tema relativo a Preti e la storiografia filosofica a cominciare dalla coppia concettuale autonomia-eteronomia: Preti insiste sull’autonomia e sull’aspetto formale del discorso filosofico lasciando all’eteronomia soltanto i momenti dei grandi passaggi (in cui si hanno dei mutamenti della società), definendo la filosofia come una certa forma di discorso non privilegiata, che si articola nelle varie tradizioni filosofiche o –ismi, intesi come tipi filosofici, che trovano nell’hegeliana Fenomenologia dello spirito la loro sistematizzazione completa, da integrare con lo sviluppo del Logos qual è dato nell’Enciclopedia hegeliana. Qui Preti si imbatte nella difficoltà per cui il processo dell’Idea non coincide con quello effettivo della storia della filosofia, il che dipenderebbe da una fondamentale insufficienza del sistema hegeliano, che manca di una dottrina del tempo. Preti esalta il metodo dialettico hegeliano come l’unico in grado di salvare la discontinuità entro la continuità generale della filosofia come sistema in svolgimento, pur evidenziando l’impoverimento delle filosofie concrete e le forzature cronologiche che si registrano nel sistema del Logos hegeliano: egli denuncia come si tenda a fare degli –ismi delle essenze immobili e costanti nei diversi momenti storici, mentre queste essenze fisse andrebbero piuttosto tradotte empiristicamente quali diversi modi di organizzare i discorsi filosofici (quali diverse tradizioni filosofiche).
Il contributo di Ferdinando Vidoni tratta di Giulio Preti nel dibattito su cultura e retorica e ruota attorno alla nozione di retorica, rilanciata verso la metà del ‘900 da C. Perelman con la sua neoretorica o «teoria dell’argomentazione»: Preti fu uno dei pochi studiosi italiani a venire prontamente a conoscenza delle tesi di Perelman, da lui (in parte) criticamente riutilizzate in occasione del dibattito sulle «due culture» sollevato nel 1959 da Charles Snow. Preti prende posizione indicando come nella storia della civiltà occidentale la nascita della scienza moderna abbia segnato una dissociazione tra cultura scientifica e cultura letteraria, la quale sta alla base delle odierne «due culture» e dunque del contrasto tra retorica e logica. La forma caratteristica del discorso letterario è la forma retorica, mentre nel discorso scientifico vige la forma logica (probativo-dimostrativa) del discorso stesso, fondato sull’apoditticità matematica (escludente ogni fattore emotivo) e sul concetto di intersoggettività. I due tipi di discorso si incontrano nella misura in cui il piano valutativo, fondandosi su motivazioni, necessita di conoscenze che possono essere vere o false, il che può essere stabilito solo dal discorso logico-scientifico: ciò determina la primarietà del piano conoscitivo-scientifico. Vidoni rileva come Preti abbia successivamente accantonato il problema della retorica perché convinto che tutta la cultura dovesse godere di una scientificità fondata su degli a priori, di modo che l’esigenza principale era per Preti quella di precisare la natura di questi fondamenti trascendentali più che del discorso retorico in quanto tale.
L’ultima parte del volume è dedicata a Preti e dintorni: consonanze e prospettive. La sezione si apre con un lungo contributo di Francis Bailly e Giuseppe Longo su Incomplétude et incertitude en Mathématiques et en Physique, in cui i due autori prendono in esame il problema epistemologico della completezza delle teorie formali e fisiche ed il principio d’incertezza in meccanica, che costituiscono il cuore stesso di tutta la filosofia della scienza. L’analisi è condotta mediante uno sguardo che mette criticamente a confronto il pensiero epistemologico di Preti e quello di Gilles Châtelet, i quali hanno entrambi tentato di costruire l’oggettività scientifica sulla base della convinzione che la certezza scientifica ed il suo fondamento risiedano nella capacità di esplicitare i metodi cognitivi scelti ai quali ci si appella (anche nella loro dinamica storico-costitutiva), nel sistema di referenza e negli strumenti di misura e d’accesso al reale.
Ornella Pompeo Faracovi propone un contributo su Aldo Capitini lettore di Preti (con una lettera di Walter Binni) in cui è tracciata la lettura che Capitini dà dell’opera pretiana Praxis ed empirismo all’interno del suo ultimo libro (La compresenza dei morti e dei viventi, del 1967), nel quale un discreto numero di pagine è dedicato all’analisi del volume di Preti: fatto, questo, di grande rilevanza, dal momento che Capitini ricambiò la freddezza dimostratagli dall’ambiente culturale italiano citando raramente i filosofi italiani a lui contemporanei e facendo però uno strappo per Preti, che sembra essere l’unico filosofo italiano della scienza cui Capitini abbia fatto riferimento.
Prima di chiudere il volume con due brevi interventi conclusivi di Parrini e Petitot, la sezione prosegue con un contributo di Hourya Benis Sinaceur su Jean Cavaillès: la raison immanente, che prende in esame il pensiero filosofico di Cavaillès (generalmente piuttosto conosciuto come eroe della Resistenza, fucilato dai tedeschi nel 1944 ad Arras), in rapporto alla riflessione di Giulio Preti. Gli elementi del pensiero di Cavaillès che si prestano ad una convergenza con il pensiero pretiano consistono nel tentativo di risolvere la dicotomia tra soggetto e oggetto, tra relatività e universalità (e conseguentemente tra storia e ragione sul piano dello sviluppo moderno delle scienze matematiche), ed il tentativo d’indicare una via che coniugasse empirismo e razionalismo nella considerazione di una molteplicità di tradizioni filosofiche e di diverse regioni del sapere matematico e logico, senza con ciò scadere nell’eclettismo di una mera giustapposizione. |
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