La varia e variamente articolata vicenda della filosofia italiana del secondo dopoguerra è stata fatta oggetto, al di là dei moltissimi contributi monografici su molti dei movimenti, delle figure e delle tradizioni che ne hanno via via intessuto la trama storica e teorica e delineato l’orizzonte problematico, di alcune significative sintesi ricostruttive i cui autori, animati dall’intento di informare, anche se non con esaustiva compiutezza, sul polifonico svolgimento del filosofare in ambito italiano, si sono cimentati in organici tentativi di inquadramento e di interpretazione di segmenti, cronologicamente più o meno ampi, del nostro Novecento filosofico. Tutti tentativi, che, pur nelle inevitabilmente diverse sensibilità e scelte interpretative che li sorreggono, e scontate le diversità di competenza e di forza di analisi concettuale tra i loro rispettivi autori, si sono comunque rivolti alla restituzione di un quadro storiografico il più possibile capace di comunicare la ricchezza, a volte caotica, di voci filosofiche, o anche semplicemente la molteplicità di istanze spesso soltanto genericamente “culturali” e “ideologiche”, non di rado conflittualmente “divise”, che hanno caratterizzato ethos e idee dell’Italia repubblicana (per riprendere il titolo del bel libro di Remo Bodei, Il noi diviso. Ethos e idee dell’Italia repubblicana, Einaudi, Torino 1998).
Tra questi tentativi di ricostruzione si potranno qui ricordare, ma solo a titolo esemplificativo, l’ormai classica, lucida e appassionata Appendice. Quindici anni dopo 1945–1960 (1962), che Eugenio Garin pose a conclusione della nuova edizione laterziana (1966) delle sue fondamentali Cronache di filosofia italiana. 1900-1943 (prima ed. 1955); e poi le pagine su autori e correnti del secondo dopoguerra, contenute nel sintetico ma robusto profilo, pieno di acuti spunti interpretativi, che Vittorio Mathieu volle dedicare a La filosofia del Novecento. La filosofia italiana contemporanea (Le Monnier, Firenze 1978); o anche la manualistica ma ampia e articolata sintesi (Il dibattito filosofico in Italia. 1925-1990) scritta da Franco Restaino per l’ultimo volume (IV/2) della Storia della filosofia di Nicola Abbagnano; per gli sviluppi più recenti, poi, sarà da vedere anche il pur discutibile e non sempre utile volume di Giuseppe Cantarano, Immagini del nulla. La filosofia italiana contemporanea (Mondatori, Milano 1998). Lo scavo in direzione di un recupero storiografico della più recente filosofia italiana ha poi conosciuto la “formula” del volume a più voci, a volte frutto della pubblicazione di atti di convegni. In questa direzione sono da ricordare, sempre a titolo di esempio e per un primo orientamento, anche i volumi collettanei La filosofia italiana dal dopoguerra ad oggi (Laterza, Roma-Bari 1985); quelli, a cura di P. Rossi e di C.A. Viano dedicati, il primo, a Filosofia italiana e filosofie straniere nel dopoguerra (Il Mulino, Bologna 1991), il secondo, e più recente, a Le città filosofiche. Per una geografia della cultura filosofica italiana del Novecento (Il Mulino, Bologna, 2004, su cui si veda la recensione di Federica Buongiorno su questo stesso sito); e l’ancora importante raccolta di saggi La cultura filosofica italiana dal 1945 al 1980 nella sua relazione con altri campi del sapere (Guida, Napoli 1982, seconda ed. 1988). A quest’ultimo volume, che raccoglie gli atti del convegno di Anacapri del giugno 1981, si ricollega idealmente ed esplicitamente quello che qui presentiamo, che a sua volta raccoglie gli atti di un convegno, quello tenutosi a Palermo nei giorni 10-11-12 novembre 2005 sul tema La cultura filosofica italiana dal 1945 al 2000 attraverso le riviste. Il curatore è Piero Di Giovanni, titolare della cattedra di Storia della Filosofia nell’Università degli Studi di Palermo e attento studioso, tra l’altro, della tradizione filosofica italiana, in particolare nei suoi filoni positivistico (Filosofia e psicologia nel positivismo italiano, Laterza, Roma-Bari 2003, sul quale si veda la recensione di Carlo Scognamiglio su questo stesso sito) e idealistico (Kant in Italia. Alle origini del neoidealismo, ivi, 1996; Il ritorno all’idealismo, Le Lettere, Firenze 2003). Di Giovanni non è nuovo al compito svolto per questo volume, avendo già curato la pubblicazione degli atti (tutti editi da Franco Angeli) anche dei precedenti convegni palermitani, tutti dedicati alla filosofia italiana del Novecento: Le avanguardie della filosofia nel XX secolo (2002); Giovanni Gentile. La filosofia italiana tra idealismo e anti-idealismo (2003); Idealismo e anti-idealismo nella filosofia italiana del Novecento (2005). Il volume dunque prosegue nella direzione tracciata dai precedenti incontri palermitani, nel senso cioè dell’effettuazione di una serie di scandagli critici e di sintetiche messe a punto relative all’esperienza filosofica italiana del secolo scorso. Le novità, come si può evincere immediatamente dalla lettura del titolo, stanno, da una parte, nella individuazione delle fonti prese in considerazione per svolgere il compito ricostruttivo; dall’altra, quello di limitare l’arco cronologico al secondo dopoguerra (ma con alcune eccezioni per le riviste attive già prima del secondo conflitto mondiale).
La scelta di rivolgersi alle riviste (filosofiche, nel caso in oggetto) come specifico luogo di elaborazione intellettuale, al fine di tentare una ricostruzione storiografica di alcuni momenti significativi nell’ampia parabola della filosofia italiana del secondo dopoguerra, viene così motivata nella Nota introduttiva al volume, firmata da Giuseppe Cacciatore e Piero Di Giovanni: «La comunicazione dei saperi filosofici, e in genere dei saperi umani, ha tradizionalmente individuato nelle riviste uno dei suoi principali strumenti di diffusione e di aggiornamento. Anche in Italia ciò è avvenuto e si può indubbiamente dire che buona parte della storia della filosofia italiana è passata attraverso le pagine di riviste ormai divenute patrimonio storico e culturale del paese […] D’altronde sono tanti gli esempi che si potrebbero addurre (e non soltanto italiani) di passaggi cruciali del dibattito filosofico affidati non alla monografia o al libro, ma al saggio e finanche alla breve nota.» ( p. 10). E’ dunque alla rivista come luogo di elaborazione creativa che il curatore e gli estensori dei vari contributi hanno fatto riferimento; alla rivista come fonte spesso privilegiata per cogliere, in statu nascenti, il delinearsi di progetti teorici e metodi di lavoro intellettuale,.oltre che lo svolgersi di più o meno feconde polemiche e di più o meno fruttuosi scambi di temi e interessi tra diverse tradizioni filosofiche.
Il volume è materialmente articolato in cinque parti, ognuna composta da quattro relazioni. Ciascun contributo è dedicato all’illustrazione della fisionomia, redazionale e intellettuale, di una singola rivista filosofica. Ad essere rappresentate dalle riviste prese in considerazione dai diversi studiosi, sono pressoché tutte la principali “tradizioni” presenti nel quadro della filosofia italiana del Novecento, da quella “laica” (con alcune delle sue più significative declinazioni) a quella “marxista”, a quella “cristiana” (nelle sue due varianti fondamentali, quella “spiritualistico-personalistica” e quella ispirata alla metafisica classica e al tomismo).
Ci sembra qui opportuno riportare, nell’ordine in cui appaiono pubblicati, gli autori e i titoli di tutti i contributi, affinché chi legge possa rendersi subito conto delle “inclusioni” e delle “esclusioni” presenti nel volume, per poi passare a una breve rassegna di alcuni di essi (e quindi riconoscendo già da ora la sostanziale “arbitrarietà” della scelta, di cui ci scusiamo).
Parte prima: 1. I «Quaderni della Critica» - L’ultimo Croce, di Girolamo Cotroneo; 2. «Rivista di studi crociani»: storicismo come militanza, di Francesca Rizzo; 3. «Teoresi». Biografia e cronache di una “Rivista di cultura filosofica” (1946-1982), di Mario Manno; 4. «Sophia». Nel segno di Ottaviano: una rivista a tutto campo, di Francesco Coniglione. Parte seconda: 1. «Ideologie»: tra marxismo e critica del linguaggio, di Angelo D’Orsi; 2. «Critica marxista» 1963-1991. Il marxismo italiano tra teoria e politica, di Guido Liguori; 3. Il «Giornale critico della filosofia italiana» da Ugo Spirito a Eugenio Garin, di Alessandro Savorelli; 4. «De homine»: filosofia e scienze sociali in Franco Lombardi, di Elio Matassi. Parte terza: 1. Il «Giornale di metafisica». Le premesse speculative alla sua fondazione e la direzione di Michele Federico Sciacca, di Luciano Matusa; 2. «Rivista rosminiana di Filosofia e di Cultura». Dall’apologia alla teoresi, di Paolo De Lucia; 3. «Archivio di Filosofia». L’internazionalizzazione di una rivista italiana, di Pierluigi Valenza; 4. «Rivista di Filosofia neo-scolastica». Filosofia classica e dialogo con la modernità, di Michele Lenoci. Parte quarta: 1. La responsabilità di pensare: «aut aut» e il rapporto della filosofia con la realtà, di Laura Boella; 2. L’anti-idealismo di Antonio Banfi nella rivista d i« Studi filosofici», di Caterina Genna; 3. «Iride». Stili e questioni contemporanee in discussione, Giovanni Mari; 4. «Rivista di filosofia». L’eredità del neoilluminismo, di Massimo Mori. Parte quinta: 1. Il «Bollettino del Centro di Studi Vichiani»: temi, problemi e prospettive (1971-2000), di Fabrizio Lo monaco; 2. «Archivio di storia della cultura»: “l’impero eteroclito” della storia della cultura e lo storicismo dell’individuale, di Edoardo Massimilla; 3. «Rivista di storia della filosofia»: l’itinerario critico di Mario Dal Pra, di Giovanni Rota; 5. «Rivista di estetica». Perché gli estetici torinesi non possono non dirsi crociani, di Maurizio Ferraris.
Ad aprire il volume (pp. 13-43) è un discreto contributo di Girolamo Cotroneo dedicato all’esperienza filosofica ed etico-politica dell’ultimo Croce, nel momento in cui l’ormai vecchio pensatore napoletano, decisa, nel 1944, l’interruzione dell’ormai più che quarantennale pubblicazione della «Critica», si propose (precisamente il 9 luglio di quello stesso anno), dopo una serie di incertezze sulle quali le pagine dei Taccuini non portano nessuna testimonianza diretta, di dar vita ai «Quaderni della Critica», proseguendo così, sotto un titolo diverso, ma di fatto col medesimo intento di fondo e con lo stesso “metodo di lavoro” (oltre che con la praticamente immutata articolazione “materiale” dei fascicoli) che aveva animato e sostanziato la vicenda della «Critica», il proprio lavorio ermeneutico e la propria ricerca intellettuale, affidandone gli esiti ancora una volta a una “sua” rivista. L’intento di Cotroneo è quello di mostrare, attraverso una sintetica rassegna dei «Quaderni», il complesso intreccio di questioni teoretiche e politiche che Croce veniva affrontando in quelli che erano gli ultimi anni della sua lunga e laboriosissima vita: dal rinnovato, a tratti polemicamente aspro, confronto col marxismo teorico e con la “tradizione” comunista, alle messe appunto sullo storicismo e la sua storia; dalle angosciate e angosciose riflessioni sul “peccato originale”, sull’ “Anticristo” e sulla “fine della civiltà”, alla ripresa degli studi su Hegel e quindi delle aspre questioni concernenti la “vitalità” e l’”origine della dialettica”.
Nella decisione presa da Croce di continuare a portare avanti il proprio lavoro sulla pagine di una rivista – mediante uno strumento, quindi, che più di altri rende possibile un confronto meno cronologicamente sfasato con l’orizzonte storico-culturale in cui viene di necessità a inscriversi la sua presenza – Cotroneo ravvisa la ferma convinzione, da parte del teorizzatore dello “storicismo assoluto”, della «necessità di continuare una battaglia, quella per la libertà, che sembrava vinta, ma vinta non era» (p. 21). E questo perché, alla speranza, che era anche un auspicio, che con la fine del fascismo fosse la “libertà liberale” a poter costituire l’autentica e più profonda sostanza del nuovo corso italiano, a subentrare sempre più drammaticamente nella mente del filosofo fu la lucida e angosciata constatazione del sorgere di una situazione in cui «invece dell’Italia “liberale”, che pensava sarebbe rinata con la caduta del fascismo, ricomparvero forze politiche, culturali e ideali – prime fra tutte quella cattolica e quella comunista, che nel secondo capitolo della Storia d’Europa nel secolo decimonono aveva indicato come “fedi religiose” opposte a quella liberale e che riteneva da queste sconfitte – che gli sembravano costituire una rinnovata minaccia di libertà.» (p. 15). Di qui, facendo propria un’osservazione di Giuseppe Galasso, Cotroneo parla di una «“delusione” di Croce, che aveva prefigurato per il dopoguerra una situazione culturale assai diversa da quella che adesso trovava davanti a sé», aggiungendo però anche il rilievo secondo il quale «il filosofo non poteva non percepire il declino, la scarsa udienza che il suo messaggio filosofico adesso incontrava, e che, nonostante tutto, cercava di riproporre con maggior vigore, accentuandone soprattutto il contenuto “etico”.» (p. 16).
L’ampio e accurato contributo (pp. 45-75) che Francesca Rizzo ha voluto dedicare alla «Rivista di studi crociani» (che uscì dal 1964 al 1984) getta uno sguardo persuasivo, attento alla complessità di motivazioni e sensibile ad alcune essenziali dinamiche concettuali, sulle vicende del cosiddetto “crocianesimo” (e al connesso “anticrocianesimo”). Una rivista, questa, nata, secondo le parole del suo fondatore e principale animatore, Alfredo Parente, «fra mille ostilità e travagli, e, nei casi più favorevoli, tra le remore e gli ammonimenti degli scettici, dei timidi e dei prudenti» (p. 54 n. 28). Il tempo della sua nascita, infatti, era quello in cui la principale parola d’ordine, ripetuta secondo tutta l’aspra monotonia del “non capire”, consisteva nell’invocata “liberazione” da Croce e dal “crocianesimo”: «Il pensiero di Croce, ora contrabbandato come detentore di un’egemonia che in effetti mai ebbe […]; ora liquidato come espressione delle “resistenze, contro la borghesia industriale e la sua Weltanschauung, dell’assai più solida borghesia agraria [riconoscentesi] più nelle idee dell’umanesimo, che nella filosofia della scienza e della tecnica”, come nel ’76 ancora ripeteva Giuseppe Semerari; ora “sistemato” quale risultato epigonale dell’idealismo assoluto; ora rimproverato di non aver considerato la religione tra le forme dello spirito; ora accusato di essere stato il responsabile del ritardo degli studi scientifici e sociologici nel nostro paese e sempre equivocato relativamente al termine “pseudoconcetto” – era bersagliato, e quasi vorremmo dire ripetere: calunniato, nella varietà di pressoché tutti i suoi lati. […] Tutto questo per dire che il pensiero di Croce era diventato una sorta di capro espiatorio di pressoché tutti i (presunti) limiti e difetti della nostra tradizione; sicché la “liberazione” dall’eredità di Croce […] era avvertita dai più, o fatta loro avvertire, come condizione di rinnovamento e di progresso […]» (pp. 52-53). A questo non esaltante “spirito dei tempi”, la rivista, nella figura del suo fondatore e nei lavori dei molti che ad essa contribuirono, vollero opporre la difesa del pensiero crociano, mediante uno sforzo volto, secondo le parole di Parente, a «discutere ed interpretare ogni possibile punto ed aspetto dell’opera storica, letteraria e filosofica di Croce», «riprendere i temi crociani ed altri affini», ad «affrontare i problemi lasciati insoluti dal filosofo come momenti di un non concluso travaglio mentale» (p. 55).
Attraverso l’analisi di vari contributi apparsi sulla rivista, da quelli direttore Alfredo Parente a quelli di alcuni dei principali collaboratori come Raffaello Franchini, Francesco Capanna, Adelchi Attisani, Diego Faucci e Michele Biscione, la Rizzo riesce a restituire un quadro mosso e articolato della vita di una rivista che, se da una parte non riuscì, in alcune delle sue espressioni, a non appiattirsi in una stentata ripetizione di stilemi scolastici o in un acritico culto di una “tradizione”, dall’altra riuscì però, in una critica fedeltà alla grande lezione crociana, a dar vita a una discussione serrata ed “esperta” delle fondamentali questioni relative alla struttura e al significato essenziali dello storicismo (e non solo di quello crociano), anche in rapporto ad altre, divergenti progettualità filosofiche, tanto da far dire a Francesca Rizzo che «senza la “Rivista di studi crociani” […] la cultura italiana sarebbe stata più povera, più arretrata, più davvero provinciale perché ideologizzata e sorda al senso della più alta e universale tradizione del nostro Paese» (p. 55).
Il breve contributo (pp. 77-87) dedicato da Mario Manno a «Teoresi» (1946-1980), dopo aver tentato una collocazione della rivista nella temperie filosofica dell’epoca che ne vide la genesi e nel più ampio orizzonte di analoghe iniziative presenti nel contesto italiano del secondo dopoguerra, si rivolge alla delineazione del plesso di interessi e della fisionomia teorica del suo fondatore e direttore, Vincenzo La Via, e della schiera dei suoi collaboratori (per esempio Francesco Mercadante, Filippo Bartolone, Guido Ghersi), più o meno direttamente appartenenti alla sua scuola (di cui Manno è stato ed è un significativo esponente, insieme a Giuseppe Catalfamo e Mariano Cristaldi). L’esperienza di pensiero di La Via – acuto interprete dell’idealismo attuale e poi, attraverso una personale ricerca speculativa, assertore dell’ «impossibilità teoretica dell’attualismo» (p.79) – aveva trovato la propria specifica fisionomia nella proposta di un realismo assoluto, visto «come la “nuova filosofia” entro cui impostare i temi […] indicati da Gentile e i problemi perenni da Gentile ripresi dalla tradizione.» (p. 79). E delle convinzioni speculative di La Via – sempre più sensibile alle questioni attinenti ai rapporti tra la sua risoluta difesa dell’autonoma teoreticità del filosofare (e della sua “vocazione legislatrice” nei confronti dell’agire etico: il motto della rivista fu il tomistico totius libertatis radix in ratione constituta e il contenuto della Rivelazione cristiana cui dava il proprio assenso di credente – «Teoresi» volle appunto porsi come luogo di elaborazione e di diffusione, come una sorta di cassa di risonanza dei motivi e dei compiti che lui, e poi, in direzioni e con sviluppi a volte divergenti (spingendo Manno a parlare, addirittura, di una “destra” e di una “sinistra laviane) i suoi allievi e più stretti collaboratori avevano maggiormente a cuore. Tra i compiti, centrale fu quello – espresso da La Via nella Premessa al primo numero della rivista (1946) e identificabile con il senso più profondo del progetto intrapreso con la sua pubblicazione – consistente nella volontà di «“restituire la filosofia ad una propria, cioè distinta, essenza”, ad un’essenza […] che in nient’altro consiste se non nella sua “funzione”, reperibile soltanto “in rapporto all’esperienza e all’azione”, il cui significato e la cui realtà si decidono “riguardo alla vita e alla destinazione dell’uomo”» (p. 82). Da qui la necessità di una fondazione teoretica, “immanente”, dell’accesso alla trascendenza ontologica e il superamento, proprio in funzione di questa progettualità metafisica, del dualismo gnoseologico di soggetto-oggetto e dei suoi esiti “humiani”, in nome di quell’assoluto realismo in grado di operare una ripresa critica dell’«antico rapporto tra Logos (o “soggetto, o ànthropos, o “immanenza) ed èinai: entro il logos e come logos, accade il “darsi” dell’èinai, ovverosia accade l’essere come darsi, ma questo assoluto “dato” che è il “darsi” non esaurisce mai il “dantesi”, pena la coincidenza fra l’essere a cui il conoscere si intenziona e l’ essere del conoscere[…], coincidenza che genera quella identità fra “reale” e “ideale” nella quale consiste l’errore dell’idealismo moderno» (p. 83).
Guido Liguori descrive (pp. 143-157) un buon tratto della vicenda di «Critica marxista», delimitandoprogrammaticamenteil proprio intervento in una duplice direzione: dal punto di vista tematico prendendo in considerazione «solamente il pensiero filosofico, e specialmente il marxismo filosofico, che in essa si espresse» (p. 143); dal punto di vista cronologico, occupandosi esclusivamente di quella che definisce come la “prima serie” della rivista (1963-1991) e tralasciando quindi, per la sua profonda e specifica “novità” rispetto alla precedente, la “seconda serie” che, iniziata nel 1992 in coincidenza con la fine del PCI, non si è ancora conclusa. Liguori suddivide poi chiaramente la “prima serie” in quattro distinte fasi, sia in riferimento ai mutamenti via via intervenuti nella direzione e nella composizione dei comitati redazionali, sia in relazione alle variazioni di autori e di argomenti, ma più in generale di sensibilità teorico-politiche presenti nel frastagliato orizzonte del marxismo italiano (e non solo italiano), successivamente registrate ed espresse dalla rivista.
Riguardo alla questione delle “origini”, Liguori rileva come «Critica marxista» vide la luce «in una congiuntura teorico-politica ben precisa. All’indomani della fine di “Società”; all’indomani del dibattito sulla dialettica, in cui le varie anime filosofiche del Pci avevano incrociato i ferri; all’indomani, anche (ed è anzi questa la causa indicata come più determinante, pur se più superficiale) della trasformazione, sempre nel 1962, della togliattiana “Rinascita” da mensile a settimanale, dunque con una maggiore declinazione politica, e con la conseguente necessità – propria di quei tempi – di dare vita a una rivista di partito, luogo di riflessione teorica» (p. 145). Rivista teorica della Direzione del Partito comunista italiano, dunque, ma non suo “organo teorico”, «perché ciò avrebbe contraddetto la scelta compiuta dai comunisti italiani fin dal V Congresso del 1945, di non avere una “verità di partito” da affermare nei campi della teoria, della filosofia, dell’arte, della religione, della cultura tutta» (p. 143). Ed è per questo, secondo Liguori, che sulle pagine della rivista poterono via via criticamente confrontarsi le diverse “anime” del marxismo italiano, da quello dellavolpiano, volto a sganciare il pensiero di Marx dall’eredità della dialettica hegeliana e a rivendicarne, per contro, il “galileismo metodologico”, a quello, a lungo maggioritario, di ispirazione storicistica, rivendicante la linea Labriola-Gramsci-Togliatti; da quello strutturalista ( o “marxismo delle forme”, come lo definisce Liguori), in parte influenzato dalla riflessioni di Althusser, alle teorie sull’“autonomia del Politico” fatta propria da un certo operaismo teorico. A partire dai primi anni ottanta, poi, a imporsi è quella «“crisi del marxismo” che, iniziata negli anni ’70, esplode nel decennio successivo, preludio pure essa della crisi del “socialismo reale”. E’ anche degli anni ’80 la crisi del Pci. E, inevitabilmente, insieme alla crisi del marxismo e alla crisi del Pci, la crisi (in termini di diminuzione di prestigio e di pubblico) di una rivista come “Critica marxista” » (p. 154).
Alessandro Savorelli, rievocando efficacemente (pp. 159-170) alcuni momenti della storia del «Giornale critico della filosofia italiana» - dall’intenso dibattito teorico presente sulle sue pagine fino almeno agli anni ’60, unito a una costante attenzione storico-critica al pensiero di Giovanni Gentile, alla progressiva preponderanza acquisita dalla produzione più specificamente storiografica - incentra la sua trattazione sui rapporti, non facili e spesso decisamente difficili, che su alcuni essenziali temi e problemi si delinearono tra Ugo Spirito (che fu Direttore della rivista fino alla morte avvenuta nel 1980) ed Eugenio Garin (che subentrò a Spirito e resse il «Giornale» fino al 2004, anno della sua scomparsa, dopo aver fatto parte del comitato direttivo fin dal 1947). Utilizzando anche parte dell’inedito carteggio tra i due studiosi, Savorelli fa emergere, al di là di spesso apparenti convergenze, le profonde differenze di sensibilità e di intenti tra l’allievo di Gentile, teorico di un problematicismo solcato da non sempre chiarite inclinazioni metafisiche, e il finissimo storico della filosofia e della cultura, sensibile all’insegnamento crociano e poi gramsciano. In particolare, a partire dalla rinascita dell’interesse storiografico, dopo un lungo periodo di spesso “forzato” oblio, per la figura e l’opera di Giovanni Gentile (rinascita di interesse propiziata con decisione anche da Garin oltre che, ovviamente, da Spirito), a profilarsi era un contrasto che faceva perno sul fatto che «da questo ritorno, in forma di “letteratura su Gentile”, Spirito […] argomentava per un “ritorno di” o “a Gentile”» come unica istanza teorica in grado di resistere, pur nelle necessarie revisioni critiche, alla povertà di un orizzonte visto come affetto da una desolante “impotenza” filosofica (p. 160), nella convinzione che «rinnovamento dell’attualismo e sviluppi della critica gentiliana, [fossero] aspetti di un processo unico e coerente» (p. 164); mentre Garin, al contrario, arriverà non solo a mettere in guardia da quella che considerava «la nostalgia per la “filosofia perenne”, “atteggiamento diffuso tra coloro che avevano militato nelle file idealistiche», ma ancor più nettamente a esprimere l’idea per la quale « la “crisi” dell’idealismo coincideva con quella di “tutti gli altri ismi, interlocutori dello stesso discorso”, in una generale messa in discussione delle “illusioni” sul primato della ragione» (p. 163). Quella esperienza di pensiero che per Spirito era dunque definibile come una “morte, trasformazione e rinascita dell’idealismo”, nella mente di Garin venne infine a porsi, nel quadro di una storicizzazione integrale del discorso filosofico, nei crudi termini di “agonia e morte dell’idealismo” (ivi).
Pierluigi Valenza dedica il suo sforzo ricostruttivo (pp. 229-247) ad «Archivio di Filosofia», cercando di delinearne sinteticamente «la transizione […] da rivista dell’Istituto di Studi Filosofici come istituzione nazionale a rivista internazionale di filosofia della religione» (p. 244). Nel far ciò, Valenza assume come momento discriminante la data di avvio dei celebri colloqui romani sulla demitizzazione, organizzati dalla rivista a partire dal 1961, per disporsi poi a una ricognizione delle annate dal 1946 al 1960 e, in conclusione, ad alcuni rapidi cenni sugli sviluppi della rivista posteriori al 1977, che hanno visto la direzione di Marco Maria Olivetti.
Sotto le poliedriche cure di Enrico Castelli e con i contributi di alcuni fra i maggiori filosofi e storici della filosofia italiani e stranieri (collaborano, tra gli altri: Ugo Spirito, Enzo Paci, Gustavo Bontadini, Emanuele Severino, Nicola Abbagnano, Gehrard Funke, Roman Ingarden, Theodor W. Adorno, Hans Georg Gadamer, Karl Löwith, Emanuel Levinas, Paul Ricoeur, Erich Przywara, Evandro Agazzi, Vittorio Somenzi), «Archivio di Filosofia», attraverso i suoi numeri monografici e poi con gli atti dei suoi colloqui, mise in atto uno scandaglio, di respiro sempre più internazionale, delle più svariate tematiche filosofiche, estetiche, teologiche: dall’esistenzialismo alla fenomenologia, dal “mito” alla secolarizzazione, dalla psicopatologia alla storiografia filosofica, dalla semantica all’ermeneutica religiosa, pubblicando contributi critici spesso di grande valore e contribuendo, attraverso l’instancabile opera di mediazione di Castelli, a far liberamente dialogare le maggiori personalità della scena intellettuale europea.
La ormai quasi secolare vicenda della «Rivista di Filosofia neo-scolastica», viene tratteggiata da Michele Lenoci (pp. 249-274) con riguardo a tutto l’arco della sua vicenda, dalla fondazione (avvenuta a Firenze il 13 gennaio 1909) fino ai più recenti sviluppi, cercando di rendere conto della dialettica di variazioni e permanenze che col suo ritmo ha scandito e scandisce la storia di questa rivista filosofica, in cui le esigenze di una riproposizione, secondo il paradigma della “philosophia perennis”, dell’impianto metafisico aristotelico-tomistico vennero via via incontrandosi, secondo un duplice movimento di critica e assimilazione, con le diverse istanze emergenti di volta in volta dalla contemporaneità filosofica. Assumendo la prospettiva della “lunga durata”, Lenoci passa in rassegna diverse fasi della vita del periodico e le tematiche e discussioni di maggior rilievo presenti sulle sue pagine nel corso di diversi decenni: dalla iniziale scelta programmatica, elaborata principalmente da padre Agostino Gemelli (che sarà direttore della rivista fino alla morte avvenuta nel 1959) e segnata dal confronto con l’ancora dominante clima positivistico, al successivo confronto con il cosiddetto neoidealismo italiano, confronto spesso non in grado di evitare pesanti cadute nell’apologetica e vittima di chiusure pregiudiziali, ma anche capace di raggiungere, in alcune occasioni, l’autentico valore di una spregiudicata discussione teoretica (per esempio nella riflessione di Gustavo Bontadini); dall’interesse per le scienze del primo periodo “gemelliano”, nel tentativo di scongiurare gli esiti riduzionistici di un certo positivismo senza rinunciare ad alcune conquiste della modernità epistemologica, alla questione “criteriologica”, portata avanti in un sempre più accentuato distacco dalle posizione della scuola di Lovanio e orientata al recupero delle ragioni proprie al realismo metafisico classico; dal progressivo affinamento della ricerca storiografica in campo filosofico, attraverso le agguerrite ricerche di Emilio Chiocchetti, di Francesco Olgiati e di Amato Masnovo (e di quelle, successive, svolte ad esempio da Sofia Vanni Rovighi e da Mariano Campo), alle elaborazioni metafisiche di Masnovo, proseguite con diverse sensibilità teoretiche da Gustavo Bontadini e Sofia Vanni Rovighi (quest’ultima attenta anche alla lezione fenomenologica). In ani più recenti, poi, «la rivista si è ampliata sia per il numero degli autori, sia per la varietà dei temi affrontati e ha cercato di coniugare la fedeltà ideale all’impostazioni delle origini con i mutamenti che i tempi e la storia hanno imposto» (p. 273) : sempre costante, e prevalente, lo spazio dedicato alle ricerche di natura storiografica, con attenzione a tutto l’arco della storia del pensiero, anche quello contemporaneo (con lavori «su tutte le correnti attuali, da quelle fenomenologiche ed ermeneutiche a quelle analitiche» (ivi), mentre sul «piano più strettamente teoretico hanno avuto ampia attenzione le diverse “filosofie seconde” sviluppatesi nel secolo scorso, con particolare attenzione all’epistemologia, all’antropologia e alla filosofia della religione e della storia» (ivi). Nell’ambito del “discorso metafisico”, infine, nuove declinazioni teoriche sono state tentate (si pensi per esempio alla riflessione di Virgilio Melchiorre) nella direzione di una valorizzazione della «dimensione simbolica, come essenziale per dire, rispettando l’analogia, l’Assoluto ineffabile dai molti nomi, sia riprendendo il classico argomento ontologico e muovendo dall’originaria idea di assoluto e illimitato che conferisce alla nostra mente un’apertura all’intero e all’infinito» (pp.273-274). Perciò, è questa la conclusione di Lenoci, «anche se si può ricavare l’impressione di una presenza teoretica diminuita rispetto agli inizi e se le violente prese di posizione polemica sono ormai un lontano ricordo, la quasi secolare attività della rivista dimostra una perdurante vitalità e la capacità di adattare a esigenze mutate e a contesti differenziati un impegno personale e istituzionale di rigore e di coerenza» (p. 274).
Edoardo Massimilla sintetizza efficacemente (pp. 369-378) il senso del progetto che ha trovato realizzazione nella fondazione (1988) dell’«Archivio di storia della cultura». E lo fa principalmente utilizzando come filo conduttore la “memoria” dal titolo Per una storia della cultura che Fulvio Tessitore, fondatore e direttore della rivista e a tutt’oggi suo massimo ispiratore, pubblicò, con chiaro intento “programmatico”, sul primo numero della rivista, delineando la fisionomia di una nuova Kulturgeschichte capace di realizzare, in concreto, quell’idea di storicismo critico che Tessitore viene elaborando e proponendo da lungo tempo in fondamentali contributi sulla storia e la teoria dello storicismo. Una proposta teorica, questa, che Massimilla, sempre richiamandosi alle parole di Tessitore, riassume felicemente così: «la nuova storia della cultura – che recepisce da un lato “le elaborazioni del concetto di cultura in ambito di antropologia” (specie quelle “anti-evoluzionistiche” e “anti-monistiche” di un Boas o di un Malinowski), e rimedita dall’altro i temi e i problemi di una tradizione di pensiero che da Humboldt e dal suo originale kantismo, attraverso Ranke, De Sanctis, Dilthey, conduce a Meinecke, Troeltsch e Weber, configurandosi dunque come un esito di quello “storicismo dell’individuale” la cui evenienza storica e la cui configurazione teorica sono da decenni al centro degli interessi di ricerca di Fulvio Tessitore – intende riproporre con forza la centralità della “dimensione antropologica della storia”, la quale non possiede un nucleo ideale né un nucleo di altro tipo, giacché non può essere in alcun modo ridotta a emanazione o dispiegamento di un soggiacente fondamento ontologico (idealistico o materialistico, personalistico o vitalistico), essendo piuttosto la proteiforme connessione individuale delle diverse esigenze e delle molteplici attività degli individui e delle società umane considerati, gli uni e le altre, nel loro inestricabile intreccio con il mondo della natura, a patto che quest’ultimo non risulti a sua volta ipostatizzato, ma venga piuttosto concepito nella sua reale processualità» (pp. 375-376).
Pronto ad accogliere contributi di genere diverso, l’«Archivio di storia della cultura» ha «assunto senza alcuna remora il carattere mobile e permeabile dei confini che separano fra loro le numerosissime storie particolari (della filosofia e delle scienze, della storiografia e del diritto, dell’arte e della religione, delle idee e delle istituzioni, dell’economia e della vita quotidiana ecc.» (p. 370), aprendosi, secondo le parole di Tessitore, «a tutte le voci che non rifiutassero la verifica filologica e documentaria anziché inseguire tipologie, filosofemi e formalismi astratti e gergali» (ivi), cercando così di onorare, con rigore e sobrietà, l’idea weberiana di scienza ricordata da Massimilla. L’idea di una scienza che, sotto il cielo freddo della nostra “situazione storica”, «non è più “un dono grazioso di visionari o profeti, dispensatore di beni di salvezza e di rivelazioni”, e nemmeno “un elemento della meditazione di saggi e di filosofi sul senso del mondo, ma “una professione esercitata in modo specialistico, al servizio della consapevolezza […] e della conoscenza di connessioni di fatto […]”» (p. 371).
La biografia intellettuale di Mario Dal Pra fa da sfondo e da filo conduttore del contributo (pp. 379-404) di Giovanni Rota sulla «Rivista di storia della filosofia», nella convinzione che «il riferimento allo studioso che diresse il foglio per più di quarantacinque anni essendo nel contempo tra i protagonisti del dibattito filosofico in Italia rappresenta un filo conduttore saldo e ininterrotto per guardare alle vicende della Rivista» (pp. 379- 380).
Schematizzando, Rota delinea l’“itinerario critico” del filosofo vicentino distinguendo in esso tre”momenti”: «il primo coincidendo con gli esordi, quando Dal Pra teorizzò un indirizzo speculativo chiamato “trascendentalismo [possibile] della prassi; il secondo segnato dall’influenza esercitata sulla personalità filosofica di Dal Pra dal clima creato dal cosiddetto Neoilluminismo ed in particolare dal pensiero di Preti […]; il terzo caratterizzato dall’esplicazione di un’attività più strettamente storico-filosofica» (p. 380). L’istanza “antiteoricistica” presente nelle riflessioni di Dal Pra (e condivisa principalmente, nell’elaborazione del “trascendentalismo della prassi”, con l’amico Andrea Vasa) era venuta maturando e definendosi anche in un confronto critico, dapprima dalle movenze polemicamente liquidatorie (ma senza mai raggiungere i vacui improperi e le calunnie di un Carmelo Ottaviano e della sua scuola), poi sempre più equilibrato e consapevole della necessità di un confronto sui “fondamenti”, con la parabola del neoidealismo italiano, e in particolare con l’attualismo gentiliano, del quale l’elaborazione teorica dalpraiana portava in sé più di un “motivo”.
Affiancato nella fondazione della rivista, nel 1946, dalle eminenti personalità di Mario Untersteiner ed Ernesto Buonaiuti e poi, nel Comitato direttivo, da significative figure come, tra le altre, quelle di Eugenio Garin e Giulio Preti, Dal Pra auspicava una rivista capace di coltivare una storiografia filosofica severa e filologicamente agguerrita, libera da rigidi presupposti teorici, immancabilmente destinati secondo lui a deformare la concreta ricchezza e problematicità del divenire storico.Una storiografia, quindi, in grado di rendere conto della imprevedibile complessità degli intrecci tra “fatti” e “idee”, senza smarrire la specificità del discorso filosofico e quindi intenzionata a dimostrare in concreto la propria “lontananza” tanto dallo storicismo idealistico (in cui vedeva smarrita la “concretezza” del lavoro storiografico), quanto da ogni riduzionismo di tipo materialistico (in cui a smarrirsi era la possibilità stessa di un’autonoma storia della filosofia). |