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Orlando Franceschelli, La natura dopo Darwin. Evoluzione e umana saggezza , Donzelli, 2007
di Federico Morganti

L’uscita de La natura dopo Darwin segue di circa due anni la pubblicazione di Dio e Darwin. Natura e uomo tra evoluzione e creazione (Donzelli, 2005), saggio in cui l’A. già tracciava alcune linee di riflessione che caratterizzano il presente testo. In Dio e Darwin, precisamente, il leit motiv era stato quello della plausibilità dell’ipotesi naturalistico-darwiniana, vale a dire la completa autonomia della spiegazione naturale dei fenomeni evolutivi, basata sul meccanismo darwiniano di mutazione-selezione. Con la teoria di Darwin si otteneva infatti una spiegazione soddisfacente degli adattamenti funzionali delle specie biologiche, al punto da rendere non più necessario il ricorso all’esistenza di un disegno divino, teleologicamente preordinato a partire dalla stessa creazione. Proprio l’apparente finalità insita negli adattamenti del vivente veniva a essere fatalmente incrinata dall’elemento casuale della mutazione inserito nella sequenza causale della selezione e della trasmissione ereditaria. La teoria darwiniana emancipava in tal modo la scienza del vivente dalla teologia naturale à la Paley. Né tale teoria poteva essere impensierita dalla recente ricomparsa dell’argomento del disegno sotto forma di Intelligent Design (ID). Infatti, il concetto di complessità irriducibile su cui si basa l’ID non ripropone novità tali da sottrarsi alla critica darwiniana. Anche l’occhio ammirato da Paley, in fondo, era sembrato «irriducibilmente complesso» finché Darwin non mostrò come potesse essere derivato da una selezione graduale. La cellula vivente, la Darwin’s black box di Behe, non fa eccezione.
D’altro canto – ammoniva l’A. di Dio e Darwin – non si tratta di negare, Darwin alla mano, la legittimità dell’esperienza religiosa e della fede nella creazione. Quello di Darwin è, al contrario, un vero e proprio ‘dono’ che consente alla tradizione teologica di ripensare se stessa attraverso un confronto serio e adulto col naturalismo riconosciuto plausibile. È soltanto quest’ultimo, infatti, che consente alla teologia di emanciparsi dal cosiddetto God of the gaps, il Dio della lacuna, invocato surrettiziamente per colmare i vuoti della conoscenza umana, e destinato pertanto a indietreggiare col progredire di questa. Il «dono di Darwin al Dio dell’evoluzione» è dunque il presupposto su cui costruire un dialogo fecondo fra le due testimonianze che la modernità ci riconsegna: fede nella creazione e rinascita del naturalismo. Un dialogo maturo, fondato sul riconoscimento delle reciproche legittimità: quella di «una fede adulta, convinta delle proprie verità, ma anche consapevole di non essere l’unica risorsa etica e di senso della coscienza umana», una fede come ‘scandalo’ e ‘sgomento’, svincolata da ogni tentativo di delegittimare o sostituirsi alla ricerca scientifico-naturalistica; e quella di un naturalismo finalmente in grado di esibire «le proprie verità e i propri valori plausibili, in modo del tutto laico, senza alcun bisogno di essere un a-teismo polemico, una mera negazione postulatoria […] del teismo e del sentimento religioso» (Dio e Darwin, p. 125).
Ne La natura dopo Darwin l’attenzione dell’A. si sposta più specificamente sulla questione del naturalismo emancipato dalla prospettiva naturalistica. Il solo naturalismo coerente e – secondo la definizione dell’A. – impegnativo è quello che concepisce l’evoluzione, tanto biologica quanto cosmica, come una dimensione autarchica, svincolata da ogni principio sovrannaturale che dovrebbe costituirne il fondamento necessario; impegnativo in quanto pur essendo, da un lato, «compiutamente post-creazionistico», si mantiene, dall’altro, costantemente vigile nei confronti dei pericoli dello scientismo e del riduzionismo. La trattazione dell’A. ha inizio col ripercorrere le oscillazioni della storia del pensiero tra la prospettiva naturalistico-evolutiva, della quale Darwin costituisce il compimento, e quella anti-naturalistica, individuata nella tradizione platonico-cristiana. L’avvio di questa ricostruzione concerne naturalmente il pensiero antico (Capitolo I). Il termine greco physis richiama l’idea, sia dell’origine dalla quale le cose vengono alla luce, sia del processo stesso della generazione e della crescita, senza alcuna separazione dualistica tra i due momenti. Physis è la realtà stessa colta nella sua intrinseca alternanza di generazione e dissoluzione, nella quale risiede la capacità stessa di generare l’ordine a partire dal caos informe. Il cominciamento stesso della filosofia coincide pertanto con l’emancipazione dalle credenze mitiche della tradizione, e l’approdo a una indagine di tipo razionale intorno a ciò che esiste (ta onta). Il principio di tutto (arche) è un principio interamente fisico: l’acqua di Talete, il fuoco «sempre vivente» di Eraclito, gli atomi di Leucippo e Democrito (nonché successivamente di Epicuro). Proprio grazie agli atomi, in particolare, «si conciliano la necessità e la casualità di tutto ciò che si produce naturalmente» (p. 17), dai processi cosmici fino all’origine dell’uomo. Caso e necessità, ananke e automaton, riportati nella natura.
Nel medesimo capitolo, l’A. mostra come la grande rottura di questo indirizzo avvenga con Platone. La realtà naturale cessa di colpo di essere tutta la realtà, diventando la parte fenomenica di un mondo soprasensibile, intelligibile, appunto meta-fisico. Nella complessa cosmologia del Timeo, è il Demiurgo che imprime la forma delle idee sulla materia informe e caotica. La capacità generativa presente in natura, lungi dall’essere frutto di un principio auto-organizzativo della materia, dipende al contrario dall’intervento plasmatore del Demiurgo. In assenza del dio, in assenza di pronoia, non può esservi misura né proporzione. I fenomeni naturali sono di conseguenza «posteriori e generati dall’arte e dall’intelligenza, e così dicasi per la natura stessa, o per lo meno, per ciò che impropriamente essi chiamano natura» (Leggi, 892b-c). La materia, essendo del tutto passiva e irregolare, non può darsi da sé l’ordine, può soltanto riceverlo. Nelle mani di Platone, la natura diventa artefatto.
In questo contrasto giocato tra Platone e i presocratici, la filosofia di Aristotele occupa, secondo l’A., una sorta di «terza via». Da un lato, la natura prospettata da Aristotele è intrinsecamente artigiana, autopoietica, dotata di un principio interno sia in senso spazio-motorio, sia in senso biologico (generazione, crescita, alterazione). Dall’altro lato, nella natura è inclusa anche la presenza della finalità, dal momento che quel principio stesso agirebbe in vista di un telos. In tal modo, la teleologia naturale di Aristotele si distingue sia dalla teleologia non-naturale di Platone (il telos è comunicato dall’esterno), sia dalla non-teleologia dei naturalisti. Questi ultimi, infatti, si erano limitati a indagare la sola causa materiale delle cose, ignorando vi fosse anche una causa formale, una efficiente e una finale. Ma queste tre, in definitiva, si riducono all’ultima, poiché «il fine (ciò in vista di cui si svolge ogni movimento) viene praticamente a coincidere con la forma (ciò che caratterizza in modo essenziale ogni singola cosa o sostanza, rendendola quella cosa e non un’altra); e anche la causa efficiente deve essere “della stessa specie” delle altre due» (p. 26), in quanto, ad esempio, per formare un uomo è necessario un altro uomo. Individuando questa causalità formale-efficiente-finale, Aristotele rintraccia nella natura una teleologia non-deliberativa, intrinseca ai processi naturali stessi, dai fenomeni celesti fino all’anima. Dinanzi a questo eidos-telos, la causa materiale resta relegata al ruolo di sostrato informe, inattivo, meramente passivo-recettivo, e «può essere chiamata natura solo in quanto sa accogliere un simile principio formale» (p. 30). Se da un lato, contro Platone, Aristotele sottrae la formalità e la finalità degli enti alla dipendenza dal mondo intelligibile, dall’altro, contro i naturalisti, neutralizza la capacità auto-organizzativa della materia. Senza dimenticare che per Aristotele causa materiale e causa formale-finale non si incontrano mai come realtà distinte, ciò nondimeno è evidente «la convinzione aristotelica che proprio la capacità poietica, direttiva e teleologica svolta dall’eidos, difficilmente potrebbe essere generata in modo casuale e spontaneo» (p. 32) dalla sola materia. La forma degli enti naturali è in definitiva qualcosa di essenziale, non-divenuto e non-divenibile per via meramente materiale-naturale. Anche se intrinsecamente artigiana, quella di Aristotele è una natura depotenziata.
Con il racconto biblico della creazione si realizza un ulteriore, decisivo distacco dal punto di vista naturalistico (Capitolo II). Dalla demiurgica creatio ex vetere si passa alla creatio ex nihilo, in cui l’azione della mente-volontà divina non agisce più su una materia preesistente, ma a partire dal «nulla assoluto». Tale origine non riguarda soltanto gli enti del cielo e della terra, «fatti non da cose preesistenti», ma «è anche l’origine del genere umano» (Maccabei, II, 7,28). L’uomo, destinatario più importante del dono del creato, nonché unica creatura fatta a immagine di Dio, costituisce infatti il vertice della creazione. Investito della responsabilità del mondo, egli «è chiamato anche alla responsabilità di preservarne l’intrinseca bontà» (p. 44). Alla luce di ciò, pur nella consapevolezza che tale racconto «non può ovviamente essere interpretato nei termini di una trattazione scientifica» (p. 39), la sostanza di una simile prospettiva appare difficilmente equivocabile: senza l’input, cosciente e volontario, del creatore, non ci sarebbe alcuna esistenza di enti materiali. Non solo. Senza di quello non sarebbero neppure iscritti nel cosmo e nella specie umana il valore etico e il significato ultimo che essi ricevono dal progetto stesso ordinato da Dio. È una natura de-naturalizzata, cui non è riconosciuta alcuna intrinseca capacità generatrice se non in virtù della parola divina: «E Dio disse: la terra produca» (Genesi, 1,11 e 24). Quelle capacità pertanto non sono che «rationes seminales o causales» (Agostino), «cause seconde o remote» (Ockham), tramite le quali si esplica il fiat divino. È «una realtà privata di ogni autarchia ontologica» (p. 55), una «natura creata» – dunque, ancora una volta, non più natura.
Nel capitolo successivo l’A. analizza i complessi rapporti tra rivoluzione scientifica e rinascita moderna di un’ottica compiutamente naturalistica. Da un lato, l’abbandono delle cause finali e la diffusione del metodo galileiano portano all’affermazione di uno studio finalmente sperimentale dei fenomeni. Dall’altro, la concezione del mondo come macchina o orologio che ne risulta, determina anche una decisiva «sinergia anti-naturalistica tra creazionismo e meccanicismo deterministico» (p. 60). La materia di Cartesio è estensione inerte, creata e comunque bisognosa di un primo intervento esterno affinché acquisti il movimento. In Newton, in maniera ancora più marcata, la materia atomica non può muoversi mediante le sole cause meccaniche di Cartesio, ma ha bisogno di certi principi attivi di carattere non materiale. La gravità non può essere essenziale alla materia, «nel senso di Epicuro», e deve perciò derivare da un agente divino. Per non parlare della varietà e complessità degli oggetti che popolano il cosmo, dalle stelle fisse fino ai sofisticati organismi biologici, per i quali Newton si sente perfino obbligato a reintrodurre un’azione finalistica rispondente a disegno. È il passaggio dal piano fisico-sperimentale alla teologia naturale, nonché l’abbandono di quella prospettiva epicurea che sarà non a caso recuperata da Hume proprio nella critica all’argument from design.
Nello stesso capitolo viene poi discussa la complessa posizione di Kant. Nella Storia universale della natura e teoria del cielo (1755) Kant prospetta una nebulosa caotica iniziale, la cui rotazione generò le galassie, i pianeti e gli elementi dell’universo, secondo l’ipotesi ripresa da Laplace. Ma il Kant della Storia ritiene che questa complessa cosmologia altro non sia che la conseguenza della iniziale creazione divina delle particelle elementari e delle leggi naturali. Con questa mossa, Kant si contrapponeva sia all’automaton degli atomisti antichi, sia all’universo statico di Newton, per il quale il movimento di rivoluzione dei pianeti era opera dell’intervento diretto della divinità. Il successivo sviluppo ‘meccanico’ dell’universo poteva persino essere tutelato contro l’interventismo newtoniano, ma a patto – ed è un punto decisivo – di escludere da tale sviluppo il mondo vivente, non in grado di sorreggersi sulla base delle sole leggi meccaniche. Proprio la questione degli organismi viventi era destinata a ripresentarsi con urgenza nella fase critica. Nella Critica della ragione pura, come è noto, la rivoluzione copernicana pone la soggettività trascendentale come ‘giudice’ che prescrive alla natura la propria legalità a priori. La natura diventa tutt’uno con tale legislazione, e l’uomo, «da scolaro che dalla natura si faceva tiranneggiare, è così diventato effettivamente un creatore-legislatore» (p. 72). Ma questa legalità, nella Critica della facoltà di giudizio, sembra risultare inadeguata per il mondo degli organismi viventi, la cui crescita, anziché l’operare di leggi meccaniche, rivela piuttosto una auto-organizzazione che fa pensare a una finalistica «forza formatrice». Una teleologia, si badi bene, soltanto trascendentale, operante al livello del giudizio riflettente, ma che ciò nondimeno costringe a pensare gli organismi viventi als ob, come se fossero frutto di una produzione intenzionale, dunque di un disegno. Risulta dunque difficile inserire la filosofia kantiana in una prospettiva naturalizzata che consideri la complessità del vivente come frutto di processi autarchici e spontanei. A maggior ragione, se si considera che il faktum della legge morale aveva contraddetto l’appartenenza dell’uomo al mondo dei fenomeni, dunque della natura, per riconsegnarlo al mondo del soprasensibile e del noumeno, provocando in tal modo uno iato insanabile fra specie umana e specie animali. Pertanto, sostiene conclusivamente l’A., se da un lato, sottolineando il carattere soltanto riflettente della propria teleologia, «Kant ha provato ad alzare almeno un argine critico anche contro l’autoreferenzialità assoluta della soggettività» (p. 79), dall’altro, riconducendo la legalità del mondo, la finalità del vivente e le capacità morali dell’uomo alle prestazioni di una soggettività pura, egli ha ciò nondimeno precluso la possibilità di comprensione naturalistica dei fenomeni e di Homo sapiens – con le sue capacità intellettuali e morali, e perfino di sviluppo culturale. L’uomo diviene un soggetto ‘terzo’ tra Dio e natura, che si svilupperà con l’idealismo tedesco verso una concezione ormai del tutto negativa del mondo naturale, ridotto a mero Non-Io o «altro» dall’Idea, secondo una linea ‘cartesiana’ per la quale è il mondo che si comprende a partire dal soggetto, e mai il contrario. Si fa qui luce uno dei motivi ricorrenti del testo, secondo cui l’unicità e peculiarità della specie umana, così come non va ricompresa a partire da un disegno finalisticamente orientato, non è neanche da ricondurre a una soggettività strettamente autoreferenziale, ma va compresa nell’ambito di una «antropologia dell’eco-appartenenza», che ricolloca l’uomo nel proprio posto naturale, nella consapevolezza che da esso proviene «e di esso è destinato comunque a rimanere soltanto una parte» (p. 162).
Il passaggio dalla creaturalità alla naturalità del mondo e dell’uomo trova due tasselli fondamentali nelle opere filosofiche di Spinoza e Hume (Capitolo IV). Il primo, ponendosi completamente al di fuori della tradizione biblica, prospetta un Dio che costituisce un’unica sostanza con la Natura: Deus sive Natura – considerato come Natura naturans, in quanto causa, e Natura naturata, in quanto effetto, riprendendo la terminologia del De divisione naturae di Scoto Eriugena. Ora, il punto cruciale della naturalizzazione spinoziana del divino è che intelletto e volontà «devono essere riferiti alla Natura naturata e non alla Natura naturante. […] Da qui segue I) che Dio non agisce mediante la libertà della volontà; II) che la volontà e l’intelletto hanno con la natura di Dio lo stesso rapporto che il movimento e la quiete e assolutamente tutte le cose naturali» (Etica, Parte I, Prop. XXXII, Cor. I e II). Capovolgendo l’ipotesi del disegno, secondo cui all’origine degli enti naturali altro non v’è che una mente-volontà divina, Spinoza ricolloca la volontà e l’intelletto nell’ambito della Natura naturata, nel contesto, in altre parole, in cui operano processi naturali autarchici e spontanei. Nel senso che quella mente-volontà non è più all’origine della natura (ipotesi del disegno), essendo vero esattamente il contrario: sono i processi naturali ad aver dato luogo a volontà e intelletto, esattamente come hanno dato luogo al moto e alla gravità (ipotesi naturalistica). Un passaggio molto simile, se non identico, a quello che compirà Hume nei Dialoghi anteponendo la ‘generazione’ alla ‘ragione’ (in base all'esperienza, è più ragionevole considerare la prima come causa della seconda e non il contrario). La natura spinoziana riguadagna dunque quel ruolo di automaton sottrattole dalla prospettiva newtoniana. In essa agisce la sola causalità efficiente, l’unica indagabile per via autenticamente scientifica: il ricorso alla volontà di Dio per spiegare ciò che noi interpretiamo finalisticamente rappresenta dunque un «asilo dell’ignoranza», una non-soluzione. Il genere umano, di conseguenza, da coronamento e scopo della creazione ridiventa semplice «modificazione dell’universo» e parte della natura. La mente umana, del pari, mediante la critica del dualismo cartesiano si tramuta in «modus cogitationis della “potenza infinita di pensiero” che si dà in natura, e che perciò come “ciascuna parte appartiene alla sostanza corporea, senza la quale non può né essere né essere concepito” (Epistolario, Lettera XXXII)» (p. 87).
Come è noto, i Dialoghi sulla religione naturale di Hume (1779) apportarono una fondamentale confutazione della teologia naturale, nella sua ‘illuminata’ versione newtoniana. L’argomento del disegno preso in esame da Hume si basa, come è risaputo, sull’analogia fra mondo naturale e prodotti dell’arte umana, secondo una formulazione ripresa dal De natura deorum ciceroniano. Effetti somiglianti richiedono cause somiglianti. In linea dunque con ogni tipo di prospettiva anti-naturalistica, la teologia naturale nega il carattere spontaneo dei processi naturali e li riconduce all’azione di una causa intelligente. Ma una tale conclusione, replica Hume, risulta del tutto ingiustificata. Per quale motivo, infatti, non dovremmo supporre che quella causa razionale richiede a sua volta una spiegazione causale? L’ipotesi che tale mente creatrice sia principio di se stessa, causa sui, non ha alcun riscontro in natura. Non v’è niente nella nostra esperienza che faccia supporre che l’ordine sia più essenziale al pensiero che alla materia. Non c’è alcunché di contraddittorio, dunque, nel supporre che la capacità di darsi un ordine sia intrinseca alla materia. In un’ipotesi dunque «nuovamente epicurea», Hume prospetta un cosmo formatosi a partire dalle «eterne rivoluzioni della materia cieca» (Dialoghi, Parte VIII), in grado di generare tutta l’apparenza di saggezza e inventiva che scorgiamo nella natura. Sulla base di queste ipotesi, l’A. può dunque attribuire a Hume «una delle espressioni più significative della rinascita moderna della prospettiva naturalistica» (p. 90). Senza dimenticare che nel Trattato era avvenuta una vera e propria derivazione materiale del pensiero, che veniva così de-sostanzializzato e incarnato, trasformato in una ragione-istinto non dissimile dal pensiero animale.
Spinoza e Hume rappresentano dunque due snodi critici fondamentali di ciò che poi verrà sancito definitivamente dalla teoria darwiniana: la possibilità che la complessità e diversità della natura siano il prodotto di processi soltanto naturali. L’evoluzionismo darwiniano mette a disposizione della rinascita moderna del naturalismo proprio quei meccanismi senza disegno rimasti sconosciuti alla teologia naturale: mutazione casuale e selezione naturale. Il carattere apparentemente progettuale del vivente si spiega dunque con l’azione impersonale, graduale e cumulativa della selezione. La finalità del vivente si tramuta in semplice adattamento. Agli occhi di Darwin, una tale prospettiva era destinata a far luce perfino sulle capacità più alte della specie umana, come il linguaggio e lo stesso senso morale. Contro l’antropologia di Wallace, infatti, che vedeva nell’evoluzione umana l’intervento di una forza teleologicamente orientata, Darwin rivendicò ne L’origine dell’uomo il carattere selettivo di quella, contro «ogni idea di aggiunte più o meno miracolose o soprannaturali […], di ogni dualismo corpo-anima, nonché di ogni sua superiorità antropocentrica rispetto agli altri animali» (p. 98). Anzi: se osserviamo con attenzione la natura, noteremo che le capacità peculiari della specie umana non costituiscono certo l’unico fatto degno di stupore: «Che le circostanze abbiano dato all’ape il suo istinto non è meno meraviglioso del fatto che abbiano dato all’uomo il suo intelletto» (Notebooks N). Vi sono pertanto due risultati fondamentali, afferma l’A., ai quali ci conduce il naturalismo non-riduzionistico dell’antropologia darwiniana. In primo luogo, contro ogni forma di «sciovinismo antropocentrico», la specie umana si è sviluppata, al pari delle altre, a partire da forme inferiori, e occupa la cima dell’albero della vita solo momentaneamente e «senza alcuna ragione per vantarsene» (de Duve). In secondo luogo, il processo selettivo stesso «ha provvisto Homo sapiens di istinti divenuti poi ragione, senso morale, capacità morali ed etiche» (p. 100). Gli «istinti sociali» umani, e lo sviluppo storico-culturale cui quelli sono soggetti, sono dunque ricollocati nel loro contesto evolutivo, senza alcuno iato, se non meramente di grado, con le capacità mentali animali. Con Darwin lo stesso sviluppo culturale della specie umana si inscrive in un intreccio costitutivo con il portato biologico della specie, sottraendo questa ad appartenenze metafisiche, ma senza farla precipitare negli abissi del riduzionismo. È il compimento del «disincanto moderno», la possibilità del naturalismo di esibire finalmente quegli «artigiani ciechi ma creativi», intrinseci alla natura, che erano mancati al naturalismo presocratico ma, in fondo, anche a quello spinoziano e humiano.
Sulla base dei più recenti progressi della ricerca, una simile prospettiva naturalizzata può rivendicare nel suo dominio anche lo studio delle dinamiche che concernono il sorgere della vita nell’universo e l’indagine del sistema nervoso e della sua evoluzione (Capitolo V). I recenti progressi della ricerca permettono infatti di formulare ipotesi su come nella «fucina cosmica» si siano potute presentare quelle condizioni di densità della materia, di temperatura ecc. che hanno portato alla formazione delle forme di vita basate sulla chimica del carbonio. Ancora una volta, considerare la precisione con cui tali parametri sono ‘sintonizzati’ come il frutto di un orientamento finalistico (l’universo doveva presentare quei parametri), è un approccio che non offre alcuna spiegazione in termini di cause reali, e significa pertanto abbandonare del tutto il piano delle ricerca scientifica, per rifugiarsi nello spinoziano asilo dell’ignoranza, il già citato «Dio della lacuna». L’esatto contrario della teoria dell’universo inflazionario o dell’ipotesi della «selezione naturale cosmologica» (Smolin), che nel rispetto del requisito della falsificabilità, concepiscono una formazione dal basso delle leggi dell’universo, piuttosto che pensarle «come parametri e modelli indipendenti dall’esistenza e dalla storia del mondo e perciò già prefissati ai processi biocosmici» (p. 118).
 Dall’altra parte vi è l’attuale programma di reintegrazione della mente nella natura. Si tratta, è vero, di studi ancora in fieri, ma che ormai consentono ragionevolmente di ammettere che il cervello e la mente umana si siano sviluppati a motivo del loro successo adattativo. È soltanto sulla base di questo presupposto che è possibile completare il tentativo di reintegrazione della mente nel corpo, quindi nella natura, già avviato da Darwin. In tal senso, l’A. sottolinea quanto decisivo possa risultare lo studio dei neuroni specchio. Queste cellule, che si attivano sia quando si esegue un’azione in prima persona, sia quando osserviamo azioni compiute da altri, rivelano una forma di comprensione ‘preconcettuale’ e ‘prelinguistica’. Non solo le azioni, ma perfino le reazioni emotive provate da altri sono in grado di attivare le stesse aree cerebrali coinvolte quando siamo noi a provare quelle emozioni. La comprensione di un simile fenomeno sembra dunque poter gettare luce sul modo in cui abbiamo acquisito la nostra capacità empatica, e sul modo in cui a partire da questa sia potuta derivare l’evoluzione di altri tratti peculiari della specie umana. Si tratta dunque di ricollocare la mente nel corpo, senza piombare nel «riduzionismo sciocco» e nella «palese assurdità di concepire un essere umano come semplice assemblaggio e interazioni di molecole e componenti biologiche ancestrali» (p. 126). Al contrario, proprio una spiegazione naturalizzata della mente ci permette di ricomprendere questa all’interno del complesso tessuto socio-culturale cui è intrecciata. Con Dennett, senza voler «rimpiazzare il voluminoso edificio dell’etica con qualche alternativa darwiniana», ma soltanto «porre quell’edificio sulle fondamenta che merita».
Come si profila – si domanda allora l’A. (Capitolo VI) – il confronto fra la riflessione teologica e il naturalismo così delineato? Come accennato, tale questione era già stata esaminata in Dio e Darwin. Per cominciare, la recente teoria del Disegno Intelligente ha riportato in auge la vecchia teologia naturale, facendo leva sulla presunta esistenza di strutture irriducibilmente complesse (cellule, batteri), come tali non ottenibili per gradi. Una (non-)spiegazione che, oltre a precludere uno studio autenticamente scientifico di quei fenomeni, intralcia la stessa riflessione teologica, arroccata sull’idea di un Dio non già della fede ma della scienza o della lacuna. Una posizione che preclude dunque la possibilità di una interrogazione matura sui problemi che la teoria darwiniana solleva, a cominciare dal male fisico documentato dall’evoluzione. La mancanza di un reale dialogo con la prospettiva naturalista è poi rintracciata anche in ambito cattolico. Pur ammettendo la realtà dell’evoluzione, si sostiene la presenza di un «salto ontologico» che separa la specie umana dalle altre. In alcuni casi il naturalismo evolutivo è presentato persino come una macchinazione ideologica volta a negare l’«evidenza schiacciante di finalismo e disegno» (Schönborn). Non solo. Ben lungi dall’apparire come un interlocutore plausibile, il naturalismo darwiniano altro non sarebbe che dogma, abdicazione dell’intelletto, mito materialista che inclina all’eugenetica e al nichilismo. In definitiva, si sostiene, ogni antropologia, scienza ed etica emancipate dal depositum fidei rappresentano, come ha sostenuto lo stesso Benedetto XVI, una «patologia della ragione», e risultano pertanto incapaci di fondare la dignità della persona e rispondere agli interrogativi sul senso dell’umana esistenza (p. 143).
In opposizione a un simile atteggiamento, capace soltanto di denigrare le ragioni del naturalismo o di farne una parodia, l’A. rintraccia «un’opportunità al dialogo» nella riflessione del teologo protestante Dietrich Bonhoeffer e del padre gesuita Teilhard de Chardin. Ciò che si richiede, secondo Bonhoeffer, è uno «svezzamento» della teologia dalla concezione della divinità come passe-par-tout in grado di sciogliere ogni nodo che la modernità si trova a dover affrontare, concezione, questa, del tutto inscritta nell’ambito della riflessione luterana. Per Teilhard, qualsiasi scarto fra conoscenze scientifiche e teologia, non può che compromettere l’autenticità stessa dell’esperienza di fede. Un confronto adulto e laico con il disincanto naturalistico è ciò di cui necessita la riflessione teologica per lasciarsi alle spalle il Dio «tappabuchi». Riflessione che, secondo l’A., non può ignorare due questioni cruciali: l’ipotesi di un Dio creator et evolutor, «perciò umile, paziente e persino vulnerabile» (p. 147), e il ripensamento del pregiudizio antropocentrico. È ragionevole, ad esempio, supporre che un Dio onnipotente e onnisciente abbia intenzionalmente fatto sì che la specie umana emergesse da forme primordiali, «ma soltanto mediante e dopo processi evolutivi di miliardi di anni e per giunta segnati da eventi fortuiti, contingenza, sprechi, estinzioni di specie e sofferenze senza fine?» (p. 148). Si tratta, in altre parole, del problema inaggirabile di conciliare la vecchia idea di onnipotenza e onniscienza divine con la casualità e contingenza dei processi evolutivi. Ebbene, proprio il confronto aperto con questioni così delicate e decisive, unito all’abbandono del God of the gaps e la rinuncia a «ogni assalto apologetico e vano alla modernità postcristiana e adulta» (p. 146), costituiscono le premesse necessarie di un dialogo adulto e costruttivo – giova ripetere: costruttivo per la stessa teologia – con la prospettiva naturalistico-darwiniana.
In conclusione, il naturalismo «impegnativo» difeso dall’A. viene qualificato come un naturalismo «critico» (Capitolo VII), svincolato, da un lato, da qualsiasi residuo metafisico e sterile polemica ideologica, ma attento, dall’altro, nei confronti delle semplificazioni scientistiche e riduzionistiche. Un naturalismo che, passando per Spinoza, Hume, Feuerbach e Leopardi, trova compimento in Darwin. Demistificando ogni pretesa che l’uomo sia una sorta «di imperium in imperio di ascendenza divina» (p. 162), proprio una antropologia naturalizzata può favorire la riconciliazione dell’uomo con la sua provenienza e appartenenza naturale; una consapevolezza certo non secondaria, in un’epoca in cui l’essere umano ha ottenuto il potere di condizionare drasticamente l’ambiente e persino il destino biologico della sua stessa specie. La proposta dell’A. va dunque nel senso di una «antropologia dell’eco-appartenenza», che riconcilia la specie umana con la sua origine naturale, educandola all’etica della solidarietà ambientale e della «saggezza solidale» – la «social catena» di leopardiana memoria – e offrendo alla modernità l’opportunità di una laicità matura e di una crescita autentica.

PUBBLICATO IL : 12-05-2007
@ SCRIVI A Federico Morganti