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Tommaso Campanella, Apologia pro Galileo , Edizioni della Normale, 2006
di Michele Camerota

«È comparsa per queste librarie, stampata in Germania, una Apologia del Padre F. Tomasso Campanella sopra il moto della terra, da lei in quei tempi proposto; e sebene detta scrittura è fatta avanti il decreto della Congregazione dell’Indice che sospese il Copernico, tuttavia i superiori non hanno voluto che si venda e spacci publicamente». (V. Cesarini a Galileo, 12 gennaio 1623; cfr. Galileo Galilei, Opere, Edizione Nazionale a cura di A. Favaro (Firenze: Giunti Barbera, 1890-1909; rist. 1968), XIII, p. 106 (d’ora in avanti citeremo l’Ed. Naz. delle Opere di Galileo semplicemente con la dicitura OG, cui farà seguito, in numero romano, il riferimento al volume, e, in cifre arabe, alla pagina).
Con queste parole, il 12 gennaio 1623, Virginio Cesarini, Accademico Linceo e “cameriere segreto” di papa Gregorio XV, annunciava l’arrivo in Roma della campanelliana Apologia pro Galileo, uscita l’anno precedente a Francoforte, grazie alle cure del solerte Tobia Adami.
Composta nei primi mesi del 1616, l’Apologia pro Galileo, rappresenta, come ha osservato Germana Ernst, «un atto di grande coraggio e onestà intellettuale» (G. Ernst, Tommaso Campanella, Roma-Bari, Laterza, 2002, p. 165). Destinata a difendere le elaborazioni cosmologiche galileiane dall’accusa di essere in contrasto con le Sacre Scritture, la Apologia costituisce una singolare testimonianza a sostegno della causa dello scienziato pisano nel cruciale periodo che vide la messa al bando della dottrina copernicana. Se si tiene presente che a prendere la parola era un prigioniero del carcere napoletano di Sant’Elmo, scampato per pochissimo alla condanna a morte e con il corpo atrocemente ed indelebilmente segnato dalle feroci torture subite, la strenua rivendicazione della libertas philosophandi avanzata nell’opera acquista un valore ancora più alto e mirabile, connotandosi nei termini di una manifestazione di straordinaria generosità e audacia, non solo teorica, ma personale e civile.
Di questo importante scritto, che segna un capitolo di grande significato nel dibattito intellettuale della prima età moderna, è recentemente uscita una nuova edizione (con testo originale, traduzione francese e ampio apparato di note) per le cure di Michel-Pierre Lerner ( T. Campanella, Apologia pro Galileo. Apologie de Galilée, Texte, traduction et notes par Michel Pierre Lerner, Paris, Les Belles Lettres, 2001, pp. CLXV-335. D’ora in avanti Campanella, Apologia).
Va detto subito che, in linea con i prodotti della collana che lo ospita (Science et Humanisme della parigina Les Belles Lettres, dove sono già apparse notevoli edizioni di classici della scienza, tra cui ci piace ricordare quelle, splendide, del Sidereus Nuncius galileiano e della Dissertatio e Narratio kepleriane ad opera di Isabelle Pantin, e del Mysterium Cosmographicum del Kepler, a cura di Alain Segonds), il lavoro di Lerner si segnala per la ampiezza ed il rigore della ricostruzione storica delle vicende connesse alla stesura e alla diffusione dell’opera, e per la pregevole ricchezza del commento, consegnato alle fitte note che accompagnano il testo.
A proposito di quest’ultimo, va rilevato che, contrariamente a tutte le altre moderne edizioni della Apologia, Lerner sceglie di mantenersi quanto più fedele possibile al dettato della princeps. La finalità di una simile opzione è quella di preservare la lectio originale da un “aggiornamento” inevitabilmente modulato secondo le esigenze e i gusti dell’attualità. Come Lerner spiega nella sua Note sur l’établissement du texte, l’esito di un massiccio intervento correttorio produrrebbe, infatti, un assetto testuale sicuramente difforme dagli intendimenti campanelliani, come nel caso della edizione della Apologia curata da Salvatore Femiano: «Le résultat de cette intervention massive est un texte corrigé de l’Apologia telle qu’elle aurait dû être écrite conformément aux exigences d’un universitaire du XXe siècle, non le texte de Campanella tel qu’il serait sorti de presses de G. Tampach s’il avait été émendé par son éditeur de ses seules fautes matérielles» (M.-P. Lerner, Note sue l’établissement du texte, in Campanella, Apologia, p. CLXXV). Per questo motivo, dunque, le rettifiche degli errori tipografici ed ortografici, al pari delle altre precisazioni ecdotiche, sono consegnate alle note, mentre il testo reso al lettore riproduce esattamente – nell’assenza di testimoni manoscritti non derivativi dalla stampa – quello della edizione originale del 1622: il curatore si limita a correggere nel testo gli errori tipografici ed ortografici, al pari delle altre precisazioni ecdotiche segnalate nell’apparato critico.
Il dispositivo testuale così fedelmente riproposto è corredato da un formidabile apparato di note informative, che non si limita all’esplicitazione dei rimandi ai numerosissimi passi di autori (sacri e profani) citati dal Campanella, ma illustra i dettagli di ogni questione sviluppata dal domenicano calabrese. É così possibile intendere il genuino significato storico e concettuale degli spunti via via enucleati dall’argomentazione campanelliana, la quale – è bene ricordarlo – attingendo ad una erudizione davvero prodigiosa, presenta una straordinaria varietà di tematiche e suggestioni di natura teologica, filosofica, letteraria e scientifica.
La contestualizzazione della Apologia all’interno dell’elaborazione dottrinaria campanelliana è poi al centro della corposa (centosettantacinque pagine) Introduction, che, oltre a discutere il significato dell’opera nell’ambito del complesso pensiero dell’autore calabrese, ne esamina nel dettaglio la genesi e la fortuna, fornendo un importante contributo storico-critico alla sua comprensione. In particolare, l’analisi di Lerner chiarisce – sulla base di una indagine estremamente minuziosa, condotta, in larga parte, su documenti d’archivio – i problemi relativi alla datazione dell’opera.
Che l’Apologia pro Galileo risalga al 1616 appare fuori di dubbio. Lo stesso Galileo ne riceveva notizia da una missiva di Pietro Giacomo Failla del 6 settembre 1616, diretta ad informare lo scienziato che Campanella aveva inviato al cardinale Bonifacio Caetani «un’Apologia in difesa del modo di filosofare di V. S. [Galileo], dimostrando che non è contra unanimem consensum Sanctorum Patrum et Sanctae Scripturae, ma che chi proibisce questo modo di filosofare, proibisce al senno christiano l’essere christiano» (P. I. Failla a Galileo, 6 settembre 1616; cfr. OG, XII, 277). Il problema cruciale consiste, tuttavia, nel determinare con precisione se la stesura del testo preceda o meno la promulgazione delle censure anticopernicane del febbraio-marzo 1616. Ricordiamo che, in data 24 febbraio 1616, i consultori teologici del S. Uffizio avevano giudicato la dottrina secondo cui il Sole è centro del mondo e del tutto immobile di moto locale come «stultam et formaliter haereticam», mentre dieci giorni più tardi, la Congregazione dell’Indice decretava la sospensione donec corrigantur del De revolutionibus di Copernico e del commentario al libro di Giobbe del teologo Diego de Zuñica, condannando, inoltre, la Lettera sopra l’opinione de’ pittagorici e del Copernico di Paolo Antonio Foscarini.
Secondo alcuni illustri studiosi campanelliani (Amabile e, soprattutto, Luigi Firpo), il filosofo calabrese – nonostante le affermazioni in contrario, dettate da ovvie ragioni di prudenza – avrebbe redatto la Apologia successivamente al marzo 1616, più precisamente nell’estate di quell’anno. In un secondo tempo, poi, Campanella avrebbe posto mano e annesso al testo la dedicatoria al cardinale Bonifacio Caetani, stesa dopo la morte di quest’ultimo (nel giugno 1617), così da accreditare ulteriormente la propria buona fede e cautelarsi dall’accusa di aver disatteso le deliberazioni ecclesiastiche del febbraio-marzo 1616.
Contrariamente a questa ipotesi, Lerner ritiene che Campanella abbia effettivamente composto l’Apologia prima della emanazione delle misure anticopernicane, con l’intento di difendere la legittimità delle posizioni di Galileo, il quale era stato denunciato al Sant’Uffizio già nel febbraio del 1615. Le ragioni addotte a sostegno di questa convinzione affondano le radici sia in indizi rilevabili dall’analisi testuale, che in riscontri emergenti da un’attenta ricostruzione delle circostanze connesse alla composizione dell’opera. Per ciò che concerne i primi, Lerner menziona, in particolare, un passo della Apologia in cui Campanella rileva l’eventualità di una condanna ecclesiastica delle opere galileiane: «arbitror [...] non absque periculo irrisionis scripturarum [...] studium Galilei prohiberi posse, scriptaque eius supprimi» (Campanella, Apologia, p. 157, corsivo mio). Ora, solo una redazione precedente il decreto – che, contrariamente ai timori dello Stilese risparmiò le opere galileiane – può giustificare una simile affermazione. Qualora, infatti, Campanella avesse composto lo scritto post factum (per così dire), egli non avrebbe menzionato i testi di Galileo, la cui eventuale proibizione non sembra essere stata posta in discussione dal Santo Uffizio. Inoltre, un altro passaggio dove si afferma che: «[...] si libri Copernici non incommodant fidei catholicae, nec Galileus incommodabit»( Campanella, Apologia, p. 21), sembra ulteriormente confermare la conclusione che Campanella attese alla stesura del testo prima del decreto anticopernicano del 5 marzo 1616.
Peraltro, l’analisi di posteriori lavori del Campanella fa emergere altre interessanti indicazioni a favore di una stesura della Apologia anteriormente al marzo 1616. In particolare, nell’inedito commentario alle poesie di Maffeo Barberini (Urbano VIII), lo Stilese afferma di aver scritto l’Apologeticus (così l’Apologia viene denominata in quel luogo) prima della sospensione dell’opera copernicana, e, ancora, in una lettera al medesimo Maffeo Barberini del 1628, scrive di aver «fatto l’apologetico ad istanza del cardinale Bonifacio Gaetano pro Copernico et Galilaeo, quando si disputava in Santo Offizio la lor opinione s’era eretica o no». Una più tarda testimonianza (del 1637) appare ancora più precisa, osservando che la condanna delle tesi copernicana precedette di soli sette giorni la ricezione dell’Apologia da parte del cardinale Castani (Cfr. M.-P. Lerner, Introduction, in Campanella, Apologia, pp. XXV-XXVI). Ciò significa che «la rédaction de l’Apologia était achevée au plus tard fin février 1616» (Ibid., p. XXVI).
D’altra parte, chi ha sostenuto che l’opera è un parto della mente campanelliana posteriore al decreto del marzo 1616, ha dato risalto all’implausibilità di una circostanza quale quella – espressamente dichiarata nella dedicatoria dell’Apologia (oltre che nella lettera al Barberini poc’anzi citata) – secondo cui il filosofo avrebbe composto lo scritto su richiesta del cardinale Bonifacio Caetani. In tal senso, si sottolinea come appaia difficile credere che un potente cardinale, membro del S. Uffizio, abbia sollecitato proprio ad un prigioniero languente in un tetro carcere napoletano una sorta di parere teologico sulla ammissibilità delle tesi sostenute da Galileo.
La disamina elaborata da Lerner in merito alle ragioni che motivarono la composizione dell’Apologia ed al contesto in cui il progetto di stesura venne a maturazione consente però di dissipare l’apparente incredibilità di una committenza da parte del Caetani. Sulla base di una attenta ricostruzione del percorso formativo e degli interessi del prelato, Lerner è, infatti, in grado di mostrare come l’attrazione del Caetani per i temi astrologici abbia ben potuto farlo entrare in contatto con Campanella. Ad informare il cardinale in merito alla abilità nel tracciare oroscopi e alle opinioni filosofiche dell’autore della Città del Sole sarebbe stato Antonio Persio, corrispondente del frate calabrese (di cui, pure, condivideva l’orientamento telesiano) e, al tempo stesso, alle dipendenze del Caetani. E’, inoltre, oltremodo probabile che, dopo la morte del Persio (avvenuta nel 1612), Caetani abbia avuto la ventura di incontrare di persona il Campanella. Negli anni 1614 e 1615, egli si recò, infatti, per ben due volte a Napoli, soggiornandovi per circa tre mesi. Ora, è del tutto lecito pensare che abbia sfruttato l’occasione per prendere direttamente contatto con quel personaggio di cui, verosimilmente, Persio gli aveva descritto le vicissitudini e magnificato la portentosa preparazione astrologica e teologica. Il Caetani sarebbe stato spinto ad incontrare Campanella principalmente dal desiderio di ottenere un responso sulla questione della compatibilità tra la dottrina copernicana ed il dettato biblico. Non dobbiamo dimenticare che, proprio in quegli anni, si gettavano – prima con manovre ed operazioni di pressione sulle autorità ecclesiastiche, poi con esplicite denunce al Sant’Uffizio – i semi della condanna del 1616. E’ altresì importante notare come uno dei protagonisti di quella stagione, il ravennate Francesco Ingoli (futuro revisore del De revolutionibus copernicano), intrattenesse stretti legami con il Caetani, essendone stato segretario e collaboratore nel progetto di una traduzione italiana del Tetrabiblos di Tolomeo. Molto probabilmente proprio su commissione della fazione ecclesiastica avversa alla nuova cosmologia, Ingoli, tra la fine del 1615 ed i primi del 1616, stese la sua De situ et quiete terrae disputatio, opera in cui tentava di confutare l’eliocentrismo sulla base di ragioni fisiche, astronomiche ed esegetiche. (Il testo della De situ et quiete terrae disputatio è riprodotto in OG, V, 403-12. Per un esame assai preciso e penetrante degli argomenti dell’Ingoli, cfr. M. Bucciantini, Contro Galileo, Firenze, Olschki, 1995, pp. 88-97).
 E forse non casualmente, poco tempo dopo, il 10 maggio del 1616, a soli due mesi dalla promulgazione del decreto di sospensione del De revolutionibus di Copernico, il prelato ravennate venne nominato – con un tempismo assai sospetto – Segretario della Congregazione dell’Indice. In riferimento ad un tale contesto, profondamente segnato dalle discussioni sull’accettabilità per la comunità cattolica delle dottrine copernicane, niente, secondo Lerner, impedisce «de penser que Caetani – très probablement informé du silence imposé par la Curie à Foscarini et de la préparation de la Disputatio dont Ingoli a été chargé en haut lieu – se soit tourné vers Campanella pour lui demander, évidemment à titre personnel et de façon officieuse, d’examiner la question principalement sous l’angle du renfort que l’on pouvait tirer des Pères de l’Église» (M.-P. Lerner, Introduction, in Campanella, Apologia, p. XLVIII).
    Certamente, la ricostruzione elaborata da Lerner risulta largamente indiziaria, a motivo dell’assenza di documenti in grado di attestarne incontrovertibilmente gli snodi decisivi. Tuttavia, il quadro tracciato dallo storico francese appare del tutto credibile e notevolmente persuasivo. La sua disamina getta, inoltre, luce su aspetti sconosciuti o trascurati delle circostanze attinenti alla stesura della Apologia campanelliana, aspetti che illuminano molte zone oscure della vicenda e corroborano in modo sostanziale l’ipotesi di una redazione dello scritto antecedente le deliberazioni anticopernicane del febbraio-marzo del 1616.
I motivi di interesse della edizione proposta da Lerner non si limitano però all’analisi degli eventi in cui maturò la redazione della Apologia. La fitta trama di note e la densa introduzione ci guidano, infatti, con mano sicura, all’interno del laboratorio concettuale e dottrinario campanelliano, evidenziando sintonie e peculiarità dell’opera a fronte del resto della produzione dello Stilese.
Lerner sottolinea con forza come la difesa di Galileo operata da Campanella non implichi affatto una integrale adesione alle tesi dello scienziato pisano. Come lo stesso Campanella scriveva in una lettera del novembre 1616, egli intendeva essenzialmente dimostrare che «il modo di filosofare da lei [Galileo] tenuto è più conforme a la divina scrittura che non lo contrario, o almeno assai più che non l’aristotelico» (T. Campanella a Galileo, 3 novembre 1616; cfr. OG, XII, 287). L’accento, dunque, era posto sul modo di filosofare, piuttosto che sui risultati che esso consentiva di raggiungere. Insomma, più che il dettaglio delle singole questioni, più che le positive risposte ai problemi, più che le specifiche dottrine, ciò che affascina Campanella è la ratio filosofica sottesa alle acquisizioni scientifiche maturate da Galileo (Come osserva Lerner: «ce qui est ici nommément en cause n’est pas un ensemble de faits et de conclusions particulières, mais le système de pensée ou de philosophie qui établit les premiers et formule les secondes». M.-P. Lerner, Introduction, in Campanella, Apologia, p. LIV).
Del «modo di filosofare» galileiano, Campanella apprezza, in particolare, il senso di radicale novità, la valenza dirompente nei confronti del vetusto – e, a suo giudizio, sostanzialmente inutilizzabile nell’ambito di una vera filosofia cristiana – sistema aristotelico. La soluzione peripatetica rappresenta, infatti, un modello dottrinario genuinamente pagano, del tutto inconciliabile con lo spirito della speculazione cristiana; ne consegue che il pensiero dello Stagirita è stato adoperato affatto impropriamente in ambito teologico. Da questo punto di vista, il frate calabrese appoggia i tentativi innovatori di uomini come Telesio prima, e, poi, Galilei, in quanto vi scorge una tensione al sovvertimento di quadri concettuali stolidamente plasmati in conformità con le tesi del Filosofo.
Lerner ripercorre e discute la presenza della critica all’aristotelismo e della denuncia della sua insostenibilità alla luce di una prospettiva cristiana in varie opere del Campanella, soffermandosi quindi ad illustrare la specifica articolazione offertane nella Apologia. L’accento cade sul valore accordato all’esperienza dal «modo di filosofare» galileiano, in contrapposizione con l’astrattezza e l’arbitrarietà caratteristiche della ratio philosophandi aristotelica: «Galileus [...] de naturalibus loquitur sobrie, sicut testis observationum, non sicut opinator, uti facit Aristoteles de cerebro suo», notava lo Stilese (Campanella, Apologia, p. 91). Tuttavia, a dispetto del risoluto apprezzamento per la connotazione marcatamente empirica della scienza galileiana, Campanella manca di coglierne appieno il significato più autenticamente anti-tradizionale ed innovatore. Prigioniero di un sensismo ingenuo, che scambia il mero dato sensoriale per la “verità” delle cose (per Campanella «l’authentique science de la nature ne peut être qu’une philosophia sensibus fundata, affirmation télésienne dont Campanella ne se départira jamais». M.-P. Lerner, Introduction, in Campanella, Apologia, pp. XCVII-XCVIII), il domenicano calabrese non solo non realizza appieno la valenza attribuita alla matematica dal programma di ricerca galileiano, ma, soprattutto, non afferra (o trascura) il decisivo confine posto da Galileo alla conoscenza. Quella vanità del «tentar l’essenza» che per l’autore del Dialogo sopra i due massimi sistemi sancisce il limite di ogni sforzo conoscitivo dell’uomo (in grado appena di attingere la «notizia di alcune affezioni» della realtà), suona totalmente estraneo alla mentalità del Campanella, permeata di un essenzialismo del tutto in linea con l’approccio tradizionale. Così, rileva Lerner, la speculazione campanelliana «retient sans doute de la démarche galiléenne un aspect essentiel, mais elle est incapable de comprendre qu’à coté de l’observation et de l’expérience, le filosofare de Galilée innove radicalment» ( Ibid., p. XCIC).
Pur con tale sostanziale incomprensione dell’impostazione del Pisano, l’Apologia costituisce una strenua difesa non solo delle specifiche posizioni galileiane in ordine alla concilibilità dell’eliocentrismo con l’esegesi scritturale, ma anche, più in generale, della stessa libertà di ricerca scientifica. Entrambe le tematiche sono delineate approfonditamente da Lerner, sia nell’introduzione che nelle dense note al testo, che, oltre ad illustrare con chiarezza tutti gli aspetti filosofico-teologici del discorso campanelliano, si rivelano estremamente puntuali nel dar conto dei precisi rimandi alle molteplici auctoritates messe in campo dalla vertiginosa erudizione teologica dello Stilese. Senza entrare nel merito della pur cruciale questione attinente all’uso campanelliano delle problematiche scritturali, noteremo solo che, per Campanella, il fondamento della libertas philosophandi – tenacemente invocata a sostegno della legittimità (non veridicità, come vedremo) della dottrina copernicana – risiede nella sua particolare concezione dei rapporti tra scienza e fede e nella singolare considerazione del tropo del naturae (o mundi) liber.
Ben lontano dagli esiti teorici implicati dalla emergente Weltanschauung meccanicista, Campanella offre una peculiare interpretazione della metafora del “libro dell’universo”, che lo conduce, in ultima istanza, a sostenere l’inattingibilità per le sole facoltà naturali umane (sine Revelationis auxilio, per così dire) della verità ultima ed esaustiva circa l’assetto complessivo del reale. Come libro scritto da Dio, il mondo è aperto ad aggiunte e correzioni da parte del Creatore, il quale, nella sua onnipotenza, interviene sul creato in modo imprevedibile. In tal senso, Lerner rileva che il mondo non viene concepito dal domenicano calabrese nei termini di «une machine inerte soumise à des lois immuables accessibles à la seule raison»( Ibid., p. CXVIII), ma come un «livre vivant», soggetto agli estemporanei interventi dell’onnipotenza divina. Nondimeno, l’aspirazione dell’uomo alla conoscenza non si configura come una vana curiosità, poiché nasce da un istinto naturale. La naturalità dell’impulso costituisce così il fondamento assiologico della tensione conoscitiva umana e, pur nella consapevolezza del carattere aperto e mai definitivo dei risultati, suggella il valore e la positività dell’impegno all’indagine naturalistica.
La “naturalità” dello stimolo alla ricerca si esprime compiutamente nell’ambito della religione cristiana (naturale par excellence), e, dunque, la conclusione cui Campanella perviene (e che afferma con forza nella Apologia) sancisce l’intrinseco accordo tra cristianesimo e ricerca scientifica, in ciò che Lerner qualifica nei termini di «une union pour ainsi dire ontologique entre science et foi» (Ibid., CXIX).
Su queste basi, Campanella giunge a considerare la libertas philosophandi come una articolazione indispensabile della genuina condizione del vivere cristiano. Per il filosofo calabrese, «le droit d’être savant est indissociable de la grâce d’être chrétien» (Ibid., CXIX), poiché lo status di creatura divina dell’uomo funge da premessa essenziale di ogni sforzo conoscitivo umano, costituendone la radice metafisica ed il fondamento della “naturalità”. In tal senso, nella Theologia Campanella dimostrerà l’intima relazione sussistente tra cristianesimo e verità filosofica sulla base della continuità e dell’intrinsichezza esistente tra mondo e rivelazione. La mediazione del Verbo divino incarnato in Cristo garantisce, infatti, in naturalibus, la partecipazione di tutti gli uomini alla “ragione”: «Entre le Verbe naturel par quoi Dieu s’exprime dans le monde et le Verbe surnaturel, il y a aussi une relation de continuité et d’achévement»( Ibid., p. CXXII).
A fronte della decisa presa di posizione in difesa della libertà del filosofare e della conseguente legittimità delle tesi galileiane, Campanella sembra alquanto restio a riconoscere una piena validità alle dottrine cosmologiche di Galileo. A dispetto delle opinioni espresse a riguardo da diversi studiosi, Lerner evidenzia la problematicità di una presunta adesione al copernicanesimo da parte del domenicano calabrese. I luoghi menzionati a tal proposito da Louis Blanchet non hanno, infatti, alcune cogenza, mentre la stessa Apologia si conclude con una chiara sospensione di giudizio ed una inequivocabile professione di ossequio delle deliberazioni delle autorità ecclesiastiche: «Quapropter suspendo iudicium: & ad Galilei argumenta respondeo, paratus obedire mandatis Ecclesiae & meliorum iudicio» (Campanella, Apologia, p. 147. Ancora, qualche pagina dopo, lo Stilese nota: «In his autem dictis & scriptis & scribendis, semper censurae S. Matris Romanae Ecclesiae, meliorumque me submitto». Ibid., p. 156).
In effetti, a ben guardare, gli obiettivi che Campanella perseguiva con la stesura della Apologia appaiono estranei alla disamina della fondatezza scientifica della concezione copernicana: «la thèse de Campanella dans l’Apologia – nota Lerner -n’est pas de démonstrer la vérité de la structure héliocentrique de l’univers, mais seulement de soutenir la non décidabilité de cette question sur la base du texte sacré, et de souligner le danger qu’impliquerait pour la cause du christianisme une condamnation de la ratio philosophandi galiléenne dans l’hypothèse probable de la vérité de cette construction du monde» (M.-P. Lerner, Introduction, in Campanella, Apologia, p. CXXVII).
Tuttavia, anche a prescindere dalle specifiche finalità dell’Apologia, più in generale le esitazioni campanelliane ad accettare come fisicamente vera l’opzione copernicana affondano le radici nel proposito di elaborare una propria, originale cosmologia, fondata su una peculiare visione della creazione e capace, in quanto pienamente giustificata sul piano metafisico-teologico, di accordarsi integralmente con il dettato scritturale. Nonostante, dunque, le affermazioni dirette a dimostrare la possibile conciliazione della propria filosofia naturale con il copernicanesimo (per cui la mobilità della Terra – che, nel sistema campanelliano sarebbe sede del freddo e, dunque, votata all’immobilità – potrebbe essere giustificata con l’azione del sensus e dell’amore), Campanella non può dirsi affatto copernicano: «La  vérité est que Campanella défend une cosmologie et une astronomie qui lui sont personelles, s’apparentant par certains de leur éléments à la conception traditionnelle retenue aussi par l’Église, tandis que par d’autres il ne peut que regarder avec faveur certaines implications des doctrines pythagoriciennes renouvelées de son temps» (Ibid., p. CXXXV). Da questo punto di vista, il filosofo calabrese rimase deluso dalla direzione assunta dalle ricerche galileiane, le quali – come ebbe a lamentare in una lettera allo stesso Galileo dell’agosto 1632 – non affrontavano la analisi di tematiche e problemi che ai suoi occhi rivestivano un significato cruciale per la comprensione della struttura del mondo: «Tutte le cose mi son piacciute, – scriveva Campanella a proposito del Dialogo sopra i due massimi sistemi – e vedo quanto è più forzoso il suo argomentare di quel di Copernico, se ben quello è fondamentale. [...] Vero è che qui non si trattano cose da me desideratissime, com’è l’anomalie dell’obliquità et eccentricità, e le nove apparenze ed esorbitanze toccate da Platone ne’ secoli antichi, ma di altra materia che ne’ moderni da Copernico, né degli apogei e perigei e latitudini mutate, e dell’immutabilità delle distanze tra di loro e mutabilità da’ tropici e dal zodiaco, e molte altre cose ch’io stimo inarrivabili, mentre Vostra Signoria le tace, e le cose ch’io li dimandai nella prima epistola, letto il Nunzio Sidereo» (Cfr. T. Campanella, Lettere, a cura di Vincenzo Spampanato, Bari, Laterza, 1927, pp. 240-41: T. Campanella a Galileo, 5 agosto 1632, anche in OG, XIV, 366-67).
    L’evoluzione degli studi galileiani dopo la comparsa del Sidereus Nuncius disattese, dunque, l’aspettativa tenacemente coltivata dal Campanella di un approfondimento e chiarificazione delle questioni per lui più rilevanti, quelle, cioè, costituenti il nucleo problematico della propria, particolare visione dell’universo fisico. Come rileva Lerner: «Nous trouvons là le nœud de la difficulté qu’il y a à soutenir la conversion de Campanella à l’héliocentrisme, dès lors que pour lui aucune cosmologie n’est acceptable qui n’apporte pas une solution a ces problèmes» (M.-P. Lerner, Introduction, in Campanella, Apologia, p. CXXXVI)
La distanza tra la prospettiva del domenicano calabrese e le opinioni galileiane appare, dunque, netta. La minaccia che il copernicanesimo celava nei confronti delle dottrine naturalistiche campanelliane (di ascendenza telesiana) indurranno il filosofo ad inserire nella sua Metaphysica del 1638 una Declaratio systematis universalis iuxta hypotheses ancipites in cui esplicitava il rifiuto di scegliere un’opzione cosmologica, anche (e, forse, soprattutto) per l’imbarazzo che la teoria eliocentrica causava alla propria assunzione di una Terra sede del freddo e, pertanto, affatto refrattaria al movimento.
Pur in presenza di una simile divaricazione di approccio e di soluzioni, la difesa della legittimità delle tesi galileiane rappresenta un merito straordinario dell’opera di Campanella. Essa rimane a testimonianza della fermezza di principi e della forza d’animo dello Stilese, e fa dell’Apologia pro Galileo un documento importante della lotta per la libertà di pensiero.
Ora, l’edizione curata da Michel-Pierre Lerner si rivela perfettamente in grado di valorizzare la notevole rilevanza dell’opera. Lo storico francese è, infatti, riuscito a tracciare con grande perizia un quadro articolato e minuzioso di tutti gli aspetti pertinenti l’Apologia pro Galileo: dalle questioni connesse alla sua genesi e alla ricezione da parte della cultura del periodo, alla delineazione storico-critica delle tematiche (filosofiche, scientifiche, teologiche) discussevi, fino ai problemi di edizione e di restituzione del testo. Leggere un classico della nostra cultura in questa forma, con un apparato esplicativo così ricco, puntuale, chiaro e approfondito, è un vero piacere per il lettore che voglia penetrare la fitta trama dei riferimenti di un testo complesso e di difficile approccio, ma, al tempo stesso, capitale per la comprensione del dibattito che animò una travagliata e decisiva stagione del processo di formazione della moderna coscienza europea.

PUBBLICATO IL : 15-09-2007
@ SCRIVI A Michele Camerota