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Francesco Ferretti, Perché non siamo speciali. Mente, linguaggio e natura umana , Laterza, 2007
di Federico Morganti

Il contributo di Francesco Ferretti si colloca nell’ambito della riflessione sul linguaggio della scienza cognitiva, considerata «lo stato più avanzato della ricerca contemporanea». Muovendosi in uno spazio interdisciplinare, il testo raccoglie i frutti della collaborazione dell’autore con un nutrito gruppo di studiosi nostrani, precedentemente sfociata nella pubblicazione del volume a più voci Comunicazione e scienza cognitiva (Laterza, 2005). In quella sede, i curatori Ferretti e Gambarara avevano sottoscritto il ritorno di tali studi alla «pragmatica del linguaggio», ovvero a un indirizzo che prendesse anzitutto in considerazione il contesto e le intenzioni concrete dei parlanti quali fattori cruciali della comunicazione linguistica. Una tale torsione era guadagnata mediante una maggiore attenzione ai risultati delle scienze empiriche (con particolare riguardo alle patologie del linguaggio), nella convinzione che «la frontiera tra ricerca empirica e indagine filosofica è inesorabilmente aperta a continui sconfinamenti» (Comunicazione e scienza cognitiva, p. VII).
Ora l’attenzione dell’autore si sposta sulla complessa questione del rapporto tra linguaggio e natura umana. L’assunto di partenza è che il possesso del linguaggio sia il tratto peculiare dell’essere umano, con la logica conseguenza che diverse concezioni di cosa sia il linguaggio corrisponderanno ad altrettante descrizioni della natura umana. Ad esempio, la prospettiva chomskiana, costante punto di riferimento del testo, fa del linguaggio il motivo di una vera e propria «differenza qualitativa» tra animali umani e non umani, tale da tracciare una distinzione ‘verticale’ che pone di fatto i primi «al di fuori del mondo naturale». In opposizione a tale atteggiamento, si delinea come obiettivo primario dell’autore quello di ricondurre l’unicità del linguaggio umano a un piano ‘orizzontale’ di co-appartenza al mondo naturale, nel quale ogni specie – non soltanto Homo sapiens – presenta tratti specifici che la rendono unica rispetto alle altre. La preoccupazione di Ferretti. è dunque quella di «coniugare specificità e continuismo» e dar conto di come la selezione naturale abbia potuto favorire l’insorgere di una novità così evidente come il linguaggio umano. In effetti, tramite questo interrogativo non di poco conto, egli si misura con un caso particolare di una problematica teorica più generale, già individuata da Charles Darwin come una delle possibili difficoltà della sua teoria: la possibilità che un processo graduale e cumulativo possa aver, per così dire, cancellato le proprie tracce e portato alla formazione di specie ben distinte (si veda a tal proposito il cap. 6 de L’origine delle specie).
La giustificazione di tale idea continuista deve dunque passare per l’identificazione di una proprietà-ponte che, da un lato, non sia esclusiva dell’essere umano e, dall’altro, possa essere posta a fondamento della costituzione del suo linguaggio. Tale proprietà altro non è che l’intelligenza, «una capacità che possiamo riscontrare (seppur in gradi diversi) in tutto il mondo animale» (p. VII). La definizione di tale proprietà, anche in rapporto alla concezione modulare della mente difesa dall’autore, e la chiarificazione della relazione filogenetica che essa intrattiene con il linguaggio diventano dunque i tasselli fondamentali della ricostruzione di Ferretti – ricostruzione che deve anzitutto fare i conti con due concezioni del rapporto mente-linguaggio giudicate inadeguate rispetto alle conoscenze fattuali in nostro possesso.
In base alla prima, la specie umana è contraddistinta da una straordinaria carenza di istinti e determinazioni biologiche che rende possibile una maggiore sensibilità al contesto e una più ampia possibilità di apprendimento. Gli esseri umani, secondo un’idea fatta risalire all’Illuminismo, sono ciò che sono unicamente in virtù del loro inserimento in un contesto storico-culturale, che li sottrae allo stato di bruta naturalità da cui provengono. Tale modello, aggrappato a una visione ancora dualistica del rapporto natura-cultura, presenta così «un percorso univoco di costituzione: quello che procede “dall’esterno verso l’interno” » (p. 7). Una simile concezione del processo di costituzione della mente era destinata ad avere importanti ricadute sulla relazione tra pensiero e linguaggio. Il testo fa a tal proposito riferimento alle due ipotesi del linguista americano Benjamin Whorf, note come determinismo linguistico e relativismo linguistico. Alla radice di entrambe v’è l’asserzione della dipendenza del pensiero dalle lingue storico-naturali: i pensieri e le cognizioni delle persone sono determinate dalle categorie della loro lingua; di conseguenza, diverse lingue determineranno pensieri diversi. Tale punto di vista assegna pertanto al linguaggio una funzione soltanto cognitiva; esso non esprime alcun contenuto mentale, bensì plasma le capacità rappresentazionali e interpretative dei parlanti. È evidente che solo una mente estremamente povera di determinazioni innate – in altre parole, solo una tabula rasa – può soggiacere al processo di costituzione unidirezionale prospettato dal linguista americano. Così come è evidente che soltanto una visione dualistica e «additiva» del rapporto fra natura e cultura può consentire l’innesto linguistico indicato da Whorf. Due questioni possono allora essere sollevate in merito. La prima è se tale idea sia compatibile con i dati scientifici a noi noti. La seconda è fino a che punto una mente così descritta sia la condizione necessaria di un comportamento flessibile come quello umano.
Per cominciare, osserva l’autore, sappiamo che l’essere umano deriva da una linea filogenetica dotata di una etologia estremamente ricca e complessa. Pensare che a partire da tale linea possa essere sorta una specie, la nostra, straordinariamente indeterminata dal punto di vista biologico sembra davvero poco plausibile. Senza contare che diversi gradi di indeterminatezza e plasticità sono riscontrabili anche nel resto del mondo vivente. Al contrario, l’idea dell’autore è che «per spiegare la flessibilità umana è a una mente ricca e articolata che occorre fare riferimento» (p. 14). Flessibilità non significa assenza di vincoli, bensì ampiezza dello spettro delle risposte possibili. Ma, poiché gli esseri umani si trovano a dover fronteggiare problemi specifici, «ipotizzare l’evoluzione di organi mentali general purpose è tanto assurdo quanto ipotizzare l’evoluzione di organi fisiologici o anatomici general purpose» (p. 29). Così, in sintonia con gli assunti della psicologia evoluzionista, la mente viene a configurarsi come un sistema complesso corredato da una molteplicità di sottosistemi modulari con competenze specifiche, ciascuno dei quali modellato in maniera indipendente dalla selezione naturale. Tuttavia, nota l’autore, questa soluzione non ci toglie del tutto dai guai, poiché occorre ancora comprendere in che modo la flessibilità che cerchiamo possa esser guadagnata a partire da un sistema di moduli fortemente specializzati e automatizzati.
Proprio a partire da tali problemi, il testo passa a considerare la seconda opzione riguardante i rapporti mente-linguaggio. All’idea che la mente non sia altro che una tabula rasa e che i sensi siano assimilabili a canali di ingresso che accumulano dati provenienti dal mondo esterno, si possono opporre numerosi fenomeni di completamento che testimoniano come la percezione vada sempre al di là dell’informazione contenuta nello stimolo. L’informazione, in altre parole, non è mai sufficiente affinché vi sia la percezione di un oggetto e richiede a tal fine complessi processi di elaborazione. Anche le cosiddette «costanze percettive» avvalorano tale conclusione. Se il sistema visivo, ad esempio, dovesse fare affidamento unicamente sull’informazione che colpisce la retina, «esso si troverebbe a far fronte a una variabilità del mondo esterno di difficile gestione» (p. 37). Per correggere tale variabilità, che è intrinseca allo stimolo, è dunque necessario un sistema di filtraggio che consegni a chi osserva un’immagine del mondo coerente e unitaria: «nella cognizione umana, non esistono fattori esterni all’individuo indipendenti da un sistema di elaborazione interno molto sofisticato» (p. 39).
L’«argomento della povertà dello stimolo» fu utilizzato negli anni Cinquanta da Noam Chomsky per criticare la concezione comportamentista dell’apprendimento del linguaggio. Non essendo possibile per il bambino stabilire una relazione univoca tra suono e articolazione, l’apprendimento del linguaggio fu ricondotto da Chomsky all’azione di un meccanismo centrale di regolazione temporale. La sintassi, in particolare, «è un sistema complesso che non è derivabile dall’esperienza perché non è rappresentato nella sequenza sonora degli enunciati» (p. 41). Non essendo derivato dall’esperienza, il linguaggio, e in particolare la grammatica, richiederà allora uno specifico sistema di elaborazione (in altre parole, un modulo) indipendente dalle altre facoltà cognitive. A partire da questa concezione autonomista, il linguista americano poté così rivendicare un nucleo di specificità su cui fondare la differenza qualitativa degli esseri umani. Ora, la scienza cognitiva classica ha dipinto il linguaggio come strumento di comunicazione basato sul sistema di codifica-decodifica dell’informazione verbale. Capovolgendo l’ipotesi á la Whorf, per cui è il linguaggio a forgiare le nostre capacità cognitive, Fodor e altri hanno rivendicato la priorità del pensiero sul linguaggio e la funzione esclusivamente comunicativa di quest’ultimo. Il linguaggio è «parassitario» nei confronti del pensiero, in quanto ne riflette la struttura logica fondamentale, ed è soltanto in virtù di questa corrispondenza che è possibile la comunicazione tra i parlanti. Ma se la comprensione del linguaggio non è altro che la traduzione di un codice, è evidente che l’informazione oggetto della traduzione si limiterà al contenuto dell’enunciato effettivamente proferito, indipendentemente dal contesto o dalle intenzioni di chi parla.
Proprio su questo punto si inseriscono alcune osservazioni di Ferretti. Pur mantenendo l’idea fondamentale che il linguaggio sia il riflesso di strutture cognitive soggiacenti, l’autore sostiene che la corrispondenza non sia di natura soltanto logica ma anche concettuale. Il caso della metafora esemplifica bene il punto. Sulla base di alcune ricerche condotte da Elisabetta Gola, egli sostiene che la metafora non costituisce affatto una devianza rispetto all’uso ordinario del linguaggio, come vorrebbe Chomsky; al contrario, «le metafore pervadono il parlare a ogni livello» (p. 55). Il linguaggio è strutturalmente metaforico in quanto ancorato a un sistema concettuale che è metaforico a sua volta (comprendiamo concetti nei termini di altri concetti). Ma, stando così le cose, è naturale domandarsi se si diano dei concetti non metaforici da cui possa prendere avvio tale processo. Lakoff e Johnson individuano tale punto di ancoraggio nell’insieme dei concetti spaziali, essendo questi i soli a emergere in maniera diretta «dalla nostra interazione con l’ambiente fisico» (p. 57) e dal sistema di elaborazione dell’informazione percettivo-corporea. Ora, il punto fondamentale è che se la comunicazione è metaforica, la comprensione del linguaggio deve affidarsi a processi che vanno ben oltre l’elaborazione della forma logica degli enunciati. Lo stesso dicasi dell’ironia, dove l’informazione è per lo più implicata e la cui ricostruzione richiede pertanto una forma sviluppata di intelligenza sociale. Perciò, la comprensione del linguaggio, oltrepassando la semplice decodifica automatica e consistendo in un processo di ricostruzione del significato, sembra aver bisogno di ciò che l’autore chiama «sforzo cognitivo» o, per dirla con Pinker, dell’«uso dell’intelligenza in tutta la sua potenza».
Come detto, l’intelligenza è la facoltà-ponte di cui l’autore si serve per riportare le capacità linguistiche degli esseri umani all’interno di una prospettiva continuista. Non solo essa è presente in ogni singolo atto di comprensione linguistica, ma costituisce inoltre «un prerequisito dell’avvento del linguaggio nella filogenesi» (p. 63). In generale, egli dice, l’intelligenza è all’opera in ogni forma di «equilibrio adattativo», ovvero in ogni attività cognitiva che tenda a ristabilire l’equilibrio tra l’organismo e il suo ambiente. La comunicazione, intesa come equilibrio tra intenzioni del parlante e aspettative dell’ascoltatore, rientra così a pieno titolo tra le attività che richiedono l’uso dell’intelligenza. Ma come conciliare quest’ultima, pensata come capacità di valutazione della scelta della risposta più appropriata in relazione a un contesto, con la rigidità e automaticità dei moduli? Dan Sperber ha ipotizzato che in presenza di uno stimolo si scateni una sorta di competizione fra i moduli, in cui a prevalere è quello più appropriato alla situazione. Ferretti suggerisce che in questo processo di «massimizzazione della pertinenza» giochino un ruolo chiave le emozioni. Queste ultime, in ossequio alla teoria del «marcatore somatico» di Damasio, fornirebbero una sorta di contrassegno di quelle che sono le componenti più rilevanti di una certa situazione-stimolo, favorendo in tal modo la risposta più appropriata. La sua proposta prosegue poi in una interessante ripartizione della capacità intelligenti in intelligenza ecologica e intelligenza sociale, suggerendo che ogni organismo sia sempre collocato all’interno di una relazione triadica «io-tu-mondo». L’intelligenza ecologica è l’intelligenza richiesta per la negoziazione con il mondo spaziale e con gli oggetti che lo abitano, non soltanto rispetto al loro riconoscimento (what) ma anche e soprattutto rispetto al loro possibile utilizzo (how). A tal proposito, l’autore sfrutta in maniera interessante il caso della sindrome di Williams (WS) – «una patologia caratterizzata prevalentemente da incapacità rappresentazionali di tipo visuospaziale» (p. 96) – per mostrare in che modo l’intelligenza ecologico-spaziale sia rilevante rispetto alle capacità linguistiche. I bambini affetti da WS, nonostante presentino un linguaggio integro e siano in grado di descrivere gli oggetti in maniera accurata ed esaustiva, risultano carenti rispetto alla possibilità di utilizzare creativamente quegli stessi oggetti. In altre parole, il loro linguaggio manca di un ancoraggio pragmatico al mondo reale, a dimostrazione di una sua dipendenza dal sistema di rappresentazione spaziale che è alla base dell’intelligenza ecologica. All’altro vertice del triangolo si situa invece l’intelligenza sociale, ovvero la facoltà, definita da Premack e Woodruff «Teoria della Mente» (ToM), di anticipare il comportamento altrui mediante l’attribuzione di stati mentali (capacità detta anche «metarappresentazione»). Alcuni studiosi considerano il test della falsa credenza come la prova della presenza di tale forma di intelligenza negli esseri umani (nei quali si manifesta a partire dai quattro anni circa). Il punto importante, in ogni caso, è che entrambe le forme di intelligenza sono all’opera in ogni momento e il loro grado di attivazione «dipende dalla situazione contestuale e dalla pertinenza dell’input» (p. 107).
In linea con la strategia argomentativa adottata, l’autore deve ora mostrare che anche la capacità comunicativa si basa sulle due forme di intelligenza sopra descritte, e che pertanto la comprensione linguistica – il «processo di costituzione di uno spazio rappresentazionale condiviso tra parlante e ascoltatore» (p. 111) – richieda lo stesso tipo di sforzo cognitivo implicato in quelle. Per quanto riguarda l’intelligenza ecologica, le relazioni spaziali sono espresse nella maggior parte delle lingue in modo da riflettere il pattern figura-sfondo proprio del nostro modo di rappresentare; normalmente l’oggetto-figura è il soggetto grammaticale mentre l’oggetto-sfondo corrisponde all’oggetto della preposizione o del verbo. Insomma, l’asimmetria dei ruoli grammaticali parrebbe riflettere l’asimmetria della nostra modalità rappresentativa. Questo e altri dati sembrano suggerire una dipendenza della capacità di descrizione linguistica dalla capacità di rappresentazione dello spazio. Ciò è particolarmente visibile nei soggetti affetti da WS, nei quali le carenze nella descrizione di eventi in movimento sembrano legate a deficit nella cognizione spaziale e in particolare alla difficoltà di rappresentare l’informazione spaziale del movimento nel tempo. Quanto all’intelligenza sociale, si è visto che la comprensione del linguaggio non consiste nella sola traduzione della forma logica, richiedendo anche la capacità di effettuare inferenze a partire da un contesto. Si potrebbe dire che la capacità di capire «ciò che l’altro voleva dire» non è che un caso particolare della facoltà di comprendere il comportamento altrui in quanto effetto di stati intenzionali. Se questo è vero, anche l’intelligenza sociale dovrà essere considerata come un prerequisito necessario affinché si dia il linguaggio articolato. Gli individui affetti da autismo sembrano confermare questa ipotesi. Secondo alcuni studiosi, tale disturbo dipende proprio dall’incapacità di attribuire stati mentali agli agenti. L’idea avanzata nel testo, mutuata da Baron-Cohen, è che tale deficit si rifletta nelle difficoltà che gli autistici presentano negli scambi conversazionali, in particolare il non sapersi inserire nell’alternanza tra parlante e ascoltatore e altri fattori che evidenziano «la mancanza del riferimento all’informazione condivisa tra i soggetti che partecipano alla conversazione» (p. 131). Tali riscontri sembrano così mostrare la dipendenza della comprensione delle espressioni linguistiche dalla capacità di mentalizzazione o, in altre parole, la precedenza dell’intelligenza sociale rispetto al linguaggio.
Ora, se fin qui lo sforzo del testo era inteso a mostrare la precedenza delle capacità cognitive su quelle linguistiche, in linea con una delle posizioni più classiche della linguistica cognitiva, all’ultimo capitolo sono affidate alcune riflessioni su quelli che l’autore definisce i possibili «effetti di ritorno» del linguaggio sulla cognizione. Le ricerche sugli scimpanzè ci informano di come essi siano dotati di una qualche forma di metarappresentazione (come testimonia la loro capacità di ingannare gli altri). Questo primo livello metarappresentazionale sembra pertanto indipendente dal linguaggio e precedente a esso. Ma la metarappresentazione non costituisce, secondo l’autore, un fatto tutto-o-nulla. Seguendo Whiten, l’autore sposa l’ipotesi per cui «la “lettura della mente” sia una capacità più complessa e evolutivamente successiva alla “lettura del comportamento”» (p. 162). Ebbene, è proprio questa duplicità di livello l’assunto su cui Ferretti costruisce la propria ipotesi coevolutiva. Le prime forme di comunicazione dovettero necessariamente fare affidamento sulle capacità inferenziali degli organismi, spianando così la strada alla comparsa del linguaggio verbale. Nel corso della filogenesi, quest’ultimo deve poi aver rimodellato retroattivamente le facoltà cognitive, innescando così un processo coevolutivo che ha portato gli esseri umani all’ampliamento delle proprie capacità metarappresentazionali. Soltanto gli esseri umani sono infatti in grado di attribuire stati mentali in modo esplicito, attraverso l’uso della sintassi proposizionale. Ora, gli stati mentali possono essere ripartiti in stati mentali di base, come l’intenzione e il desiderio, e stati epistemici, come le credenze, che sono suscettibili di verità e falsità. Seguendo Villiers, il testo suggerisce che soltanto l’uso di complesse strutture sintattiche – in particolare le strutture completive, che permettono a una proposizione di essere incassata, ricorsivamente, in un’altra proposizione (ad es. «Mario ha detto di aver visto un elefante rosa») – consente di potersi riferire alla falsità degli stati mentali altrui, dischiudendo così «i mondi possibili delle altre menti» (Villiers). Ancora una volta, la prova del nove è data dallo studio dei soggetti affetti da particolari patologie, in questo caso i bambini sordi oralizzati (bambini che non utilizzano la lingua dei segni).  Costoro dispongono di un linguaggio estremamente povero, sia nel lessico che nella grammatica, e faticano pertanto a esprimersi in maniera morfologicamente e sintatticamente adeguata. I controlli sperimentali su tali soggetti mostrano dei risultati interessanti: il primo è un significativo ritardo nell’apprendimento di compiti anche non verbali; il secondo, altrettanto rilevante, è che «la performance di ogni compito di falsa credenza (anche non verbale) è predicibile dal controllo della sintassi completiva» (p. 171). Il ritardo nello svolgimento del compito sembra dunque essere un effetto del deficit linguistico, essendo i bambini sani sotto ogni altro aspetto. Ma se l’uso di tali strutture sintattiche ha simili conseguenze sulla cognizione, si può a ragione parlare di «effetti di ritorno» del linguaggio sulla cognizione, a conferma dell’ipotesi di partenza. Così, avendo chiarito la relazione coevolutiva fra capacità linguistiche e capacità cognitive, l’autore ha mostrato la possibilità di ricollocare lo sviluppo delle prime entro una prospettiva naturalistico-continuista, senza con ciò ignorare le peculiarità che ci rendono umani. Il linguaggio contraddistingue la nostra specificità, ma non la nostra specialità.

Due osservazioni conclusive. La prima è che, per quanto non sia un problema di scienza cognitiva in quanto tale, è comunque un problema di chi si interessa di evoluzione del linguaggio quello di chiedersi quando, nel corso dell’evoluzione, sia intervenuto un fattore non certo secondario quale la capacità di fonazione (dovuta alla discesa della laringe e al controllo motorio del respiro e del suono). Senza tale capacità, la sola metarappresentazione non avrebbe mai potuto favorire lo sviluppo di un linguaggio articolato (non a caso l’autore scrive che l’intelligenza è un, e non il, prerequisito filogenetico del linguaggio). La seconda è che l’effetto di ritorno descritto nel testo è sì giustificato al livello ontogenetico, senza che però, ad avviso di chi scrive, si colga chiaramente in che modo esso possa interessare anche la storia filogenetica della specie. Detto altrimenti, il fatto che nel corso dello sviluppo un ritardo linguistico ne comporti uno cognitivo non dimostra ipso facto la precedenza filogenetica di quella capacità linguistica su quella capacità cognitiva. Con questo non si vuole dire che l’ipotesi coevolutiva non sia ragionevole. Al contrario, risulta molto sensato il tentativo di superare le opzioni, entrambe irte di problemi, della assoluta precedenza del pensiero sul linguaggio o viceversa. Ma, come chiarito conclusivamente dallo stesso autore, l’ipotesi qui presentata è poco più che un’indicazione programmatica, la cui articolazione è un compito che soltanto la ricerca futura potrà assumersi.
PUBBLICATO IL : 29-10-2007
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