«Centuria», collana dell’Istituto Nazionale di Studi sul Rinascimento, accoglie tra le sue pubblicazioni il pregevole e raffinato volume di Pietro Secchi (Roma 1974), affermato studioso di Niccolò Cusano, Giordano Bruno e della tradizione platonica (Ficino) e teologica rinascimentale, i cui interessi si focalizzano, inoltre, su Gregorio di Nissa, Eckhart e Lutero. Solo di recente Secchi si è occupato anche di poesia, approfondendo la figura di Fernando Pessoa; la sua vena poetica si è da poco concretizzata nella pubblicazione della prima raccolta di poesie (L’altro emisfero, Como 2007).
Il volume che qui presentiamo è un’approfondita e competente disamina storiografica della presenza diretta e indiretta, letterale e concettuale di Niccolò Cusano nelle opere di Giordano Bruno. Come ricorda Secchi nell’Introduzione, la storiografia filosofica non ha mai dubitato dell’influenza di Cusano su Bruno; da Franz Jacob Clemens autore di Giordano Bruno und Nicolaus von Cusa. Eine philosophische Abhandlung (1847) a Hans Blumenberg che scrive Aspekte der Epochenschwelle: Cusaner und Nolaner e, in seguito, La legittimità dell’età moderna, l’influenza di Cusano su Bruno è stata oggetto privilegiato del dibattito storiografico.
Malgrado l’indiscutibile influenza del Cardinale sul Nolano, oltre alle consolidate analogie, ciò che colpisce è l’assoluta e incommensurabile differenza fra i due: mentre Cusano rimane un pastore della Chiesa per cui il Figlio di Dio non rappresenta altro che una delle tre persone divine all’interno della pericoresi trinitaria, Bruno intende lasciarsi definitivamente alle spalle la teologia cristiana – di cui, tuttavia, salva esclusivamente l’aspetto civile, iscrivendosi de iure nella tradizione che da Polibio a Machiavelli fa della religio un instrumentum regni –, ponendo al posto della generazione intratrinitaria del Figlio l’universo infinito, diretta conseguenza della potentia absoluta di Dio. Eppure «comprendere appieno la specificità del rapporto con Cusano, significa […] comprendere la stessa identità della filosofia bruniana» (p. 22); laddove Cusano rimane convintamente pastore della Chiesa universale pur leggendo i dogmi cattolici quali la creazione, la trinità e l’incarnazione in maniera speculativa, Bruno, riprendendo le categorie cusaniane, le fa “esplodere” dall’interno, perseguendo l’idea di una praxis progressiva che spinge l’uomo ad unirsi con il divino che ha perso ogni connotato specificamente cristiano. Il cristianesimo conserva intatto il suo nucleo teologico per via della sua natura dogmatica che tutela la specificità della rivelazione cristiana; in Bruno, invece, nulla rimane intatto: la vicissitudine non lo permette. Da una prospettiva “crono-ontologica” nulla può conservarsi intatto se non muta rinnovandosi in un progresso senza fine in cui le cose, le età delle civiltà e delle filosofie mutano da sempre secondo l’ordine intrinseco dell’universo in cui serpeggia la tensione unitaria, irriducibile e indifferente che così da vicino ricorda il tonos stoico: qui non c’è spazio per la staticità a-storica dei dogmi che definiscono il nucleo della teologia cattolica. In questa visione progressiva e soprattutto pragmatica tanto meno c’è posto per la teologia cristiana riformata così come la propone il De servo arbitrio di Lutero; luterani e calvinisti convinti in anticipo della loro elezione o dannazione non sono minimamente artefici del loro “prodursi”. E questo agli occhi del Nolano avviene tanto per i protestanti quanto per i cattolici fino a che si manterrà la nozione di onnipotenza divina. In questo modo Dio schiaccia l’uomo al di sotto di una necessità deterministica che esclude la possibilità di essere artefici del proprio cammino; il primo carattere del Dio bruniano, infatti, non è l’onnipotenza ma l’infinità, così come avevano insegnato i Padri Cappadoci prima (Basilio di Cesarea) e Ilario di Poitiers dopo. Questa è l’“asinità” – termine che, mutatis mutandis, rinvia significativamente al celebre graffito severiano rinvenuto nel Paedagogium del Palatino –, l’ignoranza indiscussa dei pedanti che non riescono a concepire la divinità se non come alterità e trascendenza, conducendo una vita in cui il progresso morale e soggettivo è bandito. All’interno dell’infinità di Dio e dell’universo «la necessità che Bruno impone al processo di produzione da parte della divinità, che sembrerebbe assorbire ogni evento, conserva uno spazio nel quale gli individui, gli Stati e la storia hanno un senso. E questo perché la necessità concerne il che e non il come. Vale a dire, che da una causa infinita seguano effetti infiniti, che vi sia una vicissitudine in virtù della quale tutto deve diventare tutto, è necessario; come debba agire e quale debba essere il destino di ogni ente, una volta che esista, non è scritto da nessuna parte» (p. 18). Eppure, sulla base di impianti metafisici così diversi, il sistema di Cusano e quello di Bruno si incontrano. Per tale ragione il meritevole e dotto studio di Secchi non può che suscitare il più vivo interesse: si tratta di comprendere, quindi, l’uso bruniano delle categorie concettuali di cui il Cardinale di Santa Romana Chiesa usufruisce. E allo stesso tempo osservare quasi con meraviglia come le medesime categorie speculative rinviano a finalità del tutto diverse e, per certi aspetti, ampiamente contrastanti.
Il volume si struttura in due parti: la prima si organizza in quattro capitoli e si dedica specificamente all’esame della presenza concettuale di Cusano su Bruno mentre la seconda ha un carattere più tecnico ma non per questo meno utile. La seconda parte, infatti, offre tanto al lettore meno esperto che allo storico della filosofia di professione non solo una sezione storiografica che investiga su quale delle due edizioni delle opere cusaniane (l’una di Parigi e l’altra di Basilea) Bruno possa aver avuto presente ma soprattutto delle utilissime tavole di concordanza in cui Secchi riporta tutte le occorrenza cusaniane in Bruno sia sul piano letterale che su quello concettuale.
Il primo capitolo (L’ombra come congettura: limite e positività della conoscenza umana) confronta la proposta epistemologica del Cardinale con quella del Nolano. L’uomo tanto per Cusano quanto per Bruno è situato in una posizione gnoseologica intermedia che, tuttavia, risulta positiva: la congettura e l’ombra. Secondo l’autore del De docta ignorantia l’uomo non può che occupare uno spazio finito nel quale può solo “congetturare” in merito all’essenza divina; se, da un lato, l’alterità onto-assiologica fra la finitezza dell’uomo e l’infinità di Dio si presenta irriducibile, dall’altro, la posizione intermedia, la congettura – che a tratti ricorda il to prosmenon epicureo – è considerata in modo ottimistico: l’uomo non può che occupare quel posto. All’interno della nolana filosofia la congettura diviene ombra: per l’autore del De umbris idearum – erede del De coniecturis cusaniano – la conoscenza umana si configura come genuinamente umbratile. Se Dio è basis lucis, Bruno – a differenza di quanto pensava Grossatesta per cui ogni forma esistente è aliquod genus lucis – assegna all’uomo la dimensione umbratile: «La sfida del De umbris ha finora espresso la sua avvertenza più dolorosa, la consapevolezza che Dio e la verità […] sono esclusi dalla nostra condizione~» (p. 41). Ciononostante «è vero che la tenebra marchia nel segno della privazione la natura dell’ombra, ma l’ombra stessa non si dà senza la presenza simultanea della luce. Accanto alla degradazione progressiva, si evidenzia […] la continuità. Tra luce e ombra non può esservi frattura poiché è la luce stessa che rende possibile l’ombra» (p. 44). L’ombra, come la congettura, quindi, è resa possibile dalla luce: in questo risiede la posizione gnoseologicamente privilegiata e ottimistica (seppure limitata) dell’uomo, la sua intermedia ma certa e inviolabile dotta ignoranza.
Il secondo capitolo (Filosofia e teologia: posizione bruniana ed eredità cusaniana) investiga la relazione fra la prospettiva teologica e quella filosofica fra i due pensatori, descrivendone le analogie e le differenze. Bruno, come è noto, aveva studiato nel convento napoletano di S. Domenico Maggiore dove si era immerso nella ratio studiorum dei domenicani. Eppure per il Nolano la vera teologia non è affatto quella che aveva appreso e approfondito: l’universo infinito risulta inconciliabile con la finitezza del cosmo aristotelico così come la nuova teologia è inconciliabile con la cattiva teologia della tradizione. Queste sono le tematiche del De la causa, principio et uno, dialogo che rende insostenibile l’ipotesi di un Bruno alieno da questioni teologiche. Come si ripete, la nuova teologia della nolana filosofia si sostituisce alla vecchia tradizione teologica così come la via di indagine nei confronti del divino da via eminentiae che era si trasforma in via immanentiae in cui Creatore e creatura, causa ed effetto sono intrinsecamente correlati. Anche per la cristologia del Cardinale – ispirato in questo da motivi strettamente pastorali – il Creatore e la creatura sono uniti da un vincolo di co-appartenenza. Come ricorda Secchi, per Cusano Cristo è la copula mundi di Ficino; si tratta del “luogo dialettico” per eccellenza in cui il movimento dall’alto (il processo creativo-rivelativo) e quello dal basso (la completa realizzazione dell’umanità in Cristo) coincidono. E proprio perché Cristo rappresenta il centro dialettico dei movimenti ascensionali e discensionali, il Cardinale non può che rifiutare la theologia naturalis di stampo aristotelico – all’epoca rinnovata dal Liber creaturarum di Raimondo di Sabunda – accusandola del medesimo errore che Plotino attribuiva ad Aristotele. Gli aristotelici pretendono ingenuamente di descrivere l’ente divino a partire dagli enti finiti – sulla base di un processo analogico dal basso verso l’alto – laddove gli stessi enti necessitano di Dio come condicio sine qua non della loro esistenza. Se Cusano accusa la teologia naturale di illegittimità – gli strumenti finiti non sono in grado di esprimere il nesso causale che lega Dio alle creature – Bruno, pur accogliendo benevolmente la critica cusaniana, reputa assurda la teologia naturale per via del creazionismo: «nel tentativo di salvaguardare la libertà divina e la contingenza della creazione i teologi scavano infatti un abisso tra Dio e le cose, il cui legame non può essere regolato dalla sola causalità, che rischierebbe di trasformarsi in un meccanismo, ma necessita altresì dell’insondabilità dell’arbitrio divino. Ed una volta scavato l’abisso, che rende il mondo non semplicemente un causatum, metafisicamente determinabile, bensì un volitum, su cui nessuna parola è possibile, con che diritto si rivendica la possibilità dell’inferenza e quindi la legittimità delle argomentazioni a posteriori?» (p. 95).
Il terzo capitolo (Dal nexus come persona al nexus come lex) rappresenta, a nostro avviso, il cuore del volume di Secchi per originalità e profondità storico-teoretica. In queste pagine, infatti, Secchi mostra in modo chiaro, competente e magistrale, da attento studioso quale è, come la nozione cusaniana di nexus venga ereditata da Bruno che ne trasforma completamente il contenuto metafisico: il nexus da persona trinitaria diviene legge della natura infinita. Come si legge in alcuni brani del De idiota o del De visione Dei, Cusano si inscrive nella tradizione teologica cattolica per cui il nexus – almeno a partire dal De trinitate agostiniano fino a Tommaso passando per Bonaventura – è lo Spirito Santo che lega intimamente il Padre e il Figlio nel movimento erotico intratrinitario. Bruno, tuttavia, «predica della natura ciò che un cristiano è abituato a predicare di Cristo» (p. 116) – si pensi alla sostituzione bruniana di Cristo “Figlio unigenito” con Diana “l’unigenita natura” – o predica del vincolo indissolubile che regge e governa la natura ciò che teologicamente si predica dello Spirito Santo, connexio e amor trinitario. Mentre per Cusano, quindi, il nexus è vincolo trinitario – le persone divine si co-implicano in una sorta di “teologia circolare” cara a Scoto Eriugena e a Raimondo Lullo –, per Bruno l’unità della natura è data proprio dal nexus/lex, legge razionale tesa a garantire l’ordine della natura. Il nexus che viene «impiegato non più in divinis ma in naturalibus, come condizione di possibilità degli eventi e come lex che ne rende possibile una lettura unitaria» (p. 122) è ciò che esenta dalla annihilatio mundi, rischio, per il Nolano, cui andavano incontro tutti coloro, come i seguaci di Duns Scoto, che riconoscevano a Dio la potentia aliter agendi. È per questo motivo che Bruno – come anche Cusano – respinge la classica distinzione fra potentia absoluta e potentia ordinata condivisa da Tommaso e Occam e ripresa, solo in seguito, dalla via moderna di Gabriel Biel e, quindi, da Lutero.
Il quarto capitolo (L’universo infinito e il destino ultimo dell’individuo), infine, è dedicato alla disamina dell’infinità dell’universo e del destino “immanentistico” dell’uomo. Lo sfondo è costituito dal De l’infinito, universo e mondi e dal De gli eroici furori. In funzione genuinamente antiaristotelica e antitolemaica, l’universo infinito è l’effetto più degno di Dio; e l’effetto coincide esattamente con la causa, come si legge nel De la causa “creatore e creatura” dove“causa e causato” si identificano nella “vera essenza dell’essere tutto”. Eppure tale identità non è indifferenza: se l’effetto fosse indifferenziato dalla causa non vi sarebbe stricto sensu alcun effetto. Per questo l’infinito bruniano, essendo in rebus, è in atto; la totalità del divino – proprio come il Verbo unigenito – non è autoreferenziale e chiusa in se stessa. Come il Figlio unigenito rivela il volto di Dio (Cusano), come si legge nel Prologo giovanneo, così la natura infinita è “quello che è veramente effetto” (Bruno): un Dio in sé che esuli dall’essere coram risulterebbe un dio epicureo, del tutto ozioso, in quanto la causa sarebbe completamente indifferenziata dall’effetto laddove nella nolana filosofia l’infinità dell’effetto è sempre in atto in rebus. E ciò accade perché, come insegna Cusano nel De possest, per “essere” è necessario “poter essere”; per dirla con Guzzo «la possibilità è vera possibilità quando è realtà». Secoli dopo, riprendendo (più o meno consapevolmente) categorie cusaniane, Boutroux, in pieno spiritualismo, rivendicherà che “l’être contient le possible”, espressione necessaria per salvaguardare la contingenza delle leggi naturali in polemica con il positivismo scientifico. Ritornando a Bruno, Dio, quindi, è tutto ciò che può essere laddove ogni creatura è solo ciò che può essere: ritorna l’incommensurabilità fra Creatore e creatura. «La sproporzione tra finito e infinito, che aveva provocato un terremoto cosmologico in Cusano e che era così legata alla teologia trinitaria come sua scaturigine (salvaguardia dell’eccezionalità della generazione del verbo) e all’Incarnazione come sua soluzione (il Cristo riunisce in sé Creatore e creatura, garantendone il rapporto), può essere colmata in questa vita, non nell’altra, rendendosi servi di Diana e non di Cristo» (p. 209). E servo di Diana è l’emblematica figura del furioso, è l’Atteone dei Furori – dialogo così affine, almeno concettualmente, al De visione Dei di Cusano – consapevole dei limiti della ragione che non riesce a cogliere la coincidenza fra “predatore” e “preda”. Il furioso terreno e umbratile è colui che, tramite il vincolo di amore, è perennemente vivificato dalla struggente tensione (che non raggiunge mai l’irrazionalità) all’identificazione con l’infinito. E’ una tensione furiosa ed eroica che “disquarta” e “martora” colui che come Atteone, malgrado la sproporzione e l’incommensurabilità, tende e aspira incessantemente e dolorosamente fra intelletto e volontà a farsi natura infinita, accedendo straordinariamente alla verità: la visione di Diana “ignuda”. La volontà oltrepassa l’intelletto così come i mastini superano i veltri; sulla scia che va da Dionigi Areopagita a Meister Eckhart, è inutile cercare fuori di sé la divinità con l’ausilio della ragione. La totalità divina deve essere esperita: la via veritatis diviene così vincolo esperienziale di amore così come nel Simposio platonico: «Non c’è conoscenza senza deificatio, è per questo che lo sguardo del filosofo non basta più» (p. 193). E in questo modo il furioso, accedendo ad una beatitudine tutta terrena, contempla l’infinità attuale della natura con cui si identifica: “e ’l gran cacciator dovenne caccia”. L’infinita natura con cui il furioso si confonde nella più terrena delle beatitudini si conserva rinnovandosi eternamente.
A questa natura la nolana filosofia ridona la dignità più elevata, rivelando, allo stesso tempo, il crollo e la decadenza del cristianesimo. Qui si comprende, allora, la distinzione – questa davvero incommensurabile – fra Cusano e Bruno che pur partendo da premesse gnoseologiche identiche – l’essenza divina come precisa coincidenza e verità assoluta risulta inconoscibile – arrivano a risultati dissonanti e diametralmente inconciliabili. Come ne La Canzone de gl’illuminati che chiude i Furori, Cusano, attorniato dal suo presbyteralis amictus, rimane “amante del cielo” per via dei continui richiami (pastorali) alla teologia trinitaria e alla fondamentale importanza della cristologia, Bruno, invece, si definisce (fastosamente) “amante del mare”, amante di quella via immanentiae che rappresenta il frutto supremo e pregiato della nuova età che la nolana filosofia inaugura. E ciò ai danni del cristianesimo che, condannando la potenza di Dio alla trascendenza e proiettando escatologicamente ogni contatto fra Creatore e creatura, si rivela indegno di manifestare la bontà divina. All’orrore scandaloso, sgradevole e deforme della croce, Bruno oppone la luce della “divina beltade” che “sì dolce impiaga”: fra la theologia eminentiae (Cusano), la theologia crucis (Lutero) e la theologia immanentiae (Bruno) rimane solo una incommensurabile asimmetria, la stessa che intercorre fra il cielo, la croce e il mare. |