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F. S. Trincia - S. Bancalari (éds), Perspectives sur le sujet – Prospettive filosofiche sul soggetto , OLMS, 2007
di Nicola Zippel

«[…] si tratta di smascherare la falsa modestia e la pretesa neutralità di ciò che in generale viene chiamato “descrizione”». In questa affermazione asciutta e radicale di Marco Maria Olivetti (p. 23), si può rinvenire lo spirito che ha guidato l’elaborazione del volume Perspectives sur le sujet – Prospettive filosofiche sul soggetto, edito da OLMS a cura di Francesco Saverio Trincia e Stefano Bancalari. La stessa irregolarità tipografica, che si ha qui, di iniziare un commento con la lettera minuscola, rivela, insieme alla sua necessità legata a una citazione, l’altrettanto necessario collocarsi di una riflessione collettiva e variegata sul soggetto, qual è il testo in questione, nel mezzo di un percorso già iniziato e sempre già in corso. «In effetti – prosegue Olivetti- l’uso del termine “descrizione”, con la sua evocazione della scrittura, si rivela significativo e, anzi, si rivela del tutto adeguato ad esprimere la posteriorità dell’operazione rispetto a ciò che viene descritto» (ibid., c. m.).
In Intersoggettività e religione (pp. 22-29), il saggio che apre il volume, il quale riproduce i testi delle relazioni tenute nel febbraio 2005 al convegno Il problema del soggetto nella filosofia contemporanea a “La Sapienza” di Roma, Olivetti attua fin da subito un’operazione concettuale mirata a depotenziare la nozione eminentemente teoretica del soggetto, in favore di una sua rielaborazione in chiave etica, che ne individua la cifra fondamentale nella dimensione personale. Pensare la soggettività come “persona”, oltre a rinunciare a un preteso primato metafisico-ontologico, che abbia, quindi, nell’essere del soggetto il suo nucleo, implica collocare il soggetto «prima dell’essere» (p. 22), il che, a sua volta, significa detronizzare la relazione sincronica “cogito-sum”, ed eleggere in sua vece la dimensione diacronica “io-tu”. Il ribaltamento dell’inferenza cartesiana, mediante l’assunzione del nesso kantiano tra soggetto e persona, comporta la possibilità di compiere «il passaggio dall’indicativo all’imperativo» (p. 25), espresso dalla formula “tu devi, dunque puoi”, la quale fa «sì che io sono originariamente una seconda persona, sono un tu, e debbo in considerazione di altre persone […].» (ibid.). Il dovere, quindi, non testimonia un mero obbligo (non c’è nulla di “semplice”, sine plica, nella propria considerazione, rimarca a più riprese Olivetti), bensì conduce immediatamente a un potere, al poter, cioè, rispondere al richiamo imperativo cui si presta ascolto (ob-audire). Tale potere, poi, è già da sempre “in atto”, accade ogni volta nell’intervallo, nell’interim fra il prima e il poi, denotando così la libertà incondizionata, “un-be-dingt”, della persona, che «non presuppone nulla, cioè non presuppone aliud, né l’essere, né alcuna cosa […].» (p. 26). 
Il porsi nell’intervallo, osserva Olivetti, è dovuto alla condizione originaria della seconda persona, alla «certezza di essere dovente, debitore, [che] risponde ad una temporalità diversa da quella di cui si ha coscienza interna e di cui la coscienza è sede» (p. 29); questo collocarsi nell’interim è dovuto, quindi, a quel passaggio dall’“io sono” al “tu devi”, in cui la differenza di tempi è il riflesso linguistico (ma non per questo secondario) della differenziazione diacronica legata all’esperienza dell’altro.
La temporalità, di cui è intessuta la vita del soggetto, costituisce la traccia delle considerazioni di Stefano Bancalari (Phenomenolgie et mythe de l’hypostase. Subjectivite, objectivite, a priori, pp.30-50), il quale si fa guidare principalmente dalle intense riflessioni del Lévinas di Le temps et l’autre, al fine di esporre il fallimento del tentativo di pensare la relazione all’alterità a partire dalla solitudine del soggetto. Solitudine, che, secondo la lezione di Lévinas, si produce nel momento in cui il soggetto compie l’ipostasi, ossia irrompe quale coscienza nell’esistere indifferenziato dell’il y a, attuando quella «prise de possesion de l’existence anonyme par un existant déterminé» (p. 32). In quest’irruzione volta all’instaurazione di una solitudine esistenziale, l’ipostasi oggettiva la dimensione temporale, cristallizzandone quei caratteri diacronici che, originariamente, fondano la relazione di temporalità e alterità e che, quindi, sono portati a spezzare dall’interno il richiudersi in sé del soggetto ipostatizzato.
Già lo Husserl della Quinta Meditazione Cartesiana, osserva Bancalari, ha cercato di derivare la Fremderfahrungdalla condizione artificiosa della “riduzione primordiale”, la quale si fonda proprio sull’annullamento di qualsiasi temporalità estranea, a favore di un ego sempre presente a se stesso. Proprio «comme l’ego primordial, qui est le résultat de l’abstraction de la temporalité immanente, la radicale solitude de l’hypostase implique sa relégation dans pur présent qui n’est pas encore temporalité» (p. 36). E proprio come l’ego primordiale è destinato a racchiudersi in una dimensione priva di alterità, così l’ipostasi è condannata alla privazione del mondo e del tempo, che rappresenta il prezzo, troppo caro da pagare anche in una prospettiva fenomenologica, della situazione “privilegiata” dell’osservatore. È possibile uscire dal mito dell’ipostasi, in cui la mancanza di un passato e di un futuro implica l’assenza, ben più grave, della storia, della socialità, della morte come esperienze fondanti – e insieme destrutturanti - la soggettività, seguendo l’ispirazione autenticamente fenomenologica di Lévinas, la quale comporta la rinuncia all’a priori, in favore di una riaffermazione dell’“antropologico” sull’“ontologico”, del “naturale” sul “trascendentale”. Sulla scorta delle osservazioni del Derrida di Violenza e metafisica, Bancalari sostiene che «en effet, cet empirisme constitue une radicalisation cohérente de la phénomenologie par Lévinas» (p. 49), poiché è sulla base di questo empirismo che si è in grado, con Lévinas, di riconoscere l’istanza “anti-fenomenologica” della riduzione primordiale, e, quindi, di ogni tentativo di isolare il soggetto nella solitudine di un’ipostasi, e di riscoprire il valore costitutivo della quotidianità, luogo originario del darsi dell’esperienza del tempo, della morte, dell’altro.  
È sempre una prospettiva fenomenologica quella che guida il saggio di Rudolf Bernet (Autocoscienza affettiva, pp. 51-63), nel quale l’autore si propone di cercare una definizione di autocoscienza che esalti il ruolo delle sensazioni, oltrepassando così la dimensione della pura presenza. A tal fine, Bernet indaga i fenomeni della “cinestesi” e del “trauma”, che si caratterizzano entrambi, pur nelle rispettive differenze essenziali, come “non-intenzionali” nel senso di “pre-egologici”. Già questo implica superare la descrizione husserliana, che lega le sensazioni cinestetiche al solo corpo percettivo, ed estendere i processi corporeo-motori al respirare, all’agire, al giocare, finanche al pensare, considerando che «la vita umana è da intendere essenzialmente come motilità» (p. 53). La cifra “motoria” della coscienza, individuata già da Aristotele nella sua equivalenza, rilevata da Heidegger, di kinein e krinein, induce Bernet a individuare nell’affezione costantemente vissuta (erlebt) dal corpo ciò che caratterizza il passaggio all’auto-coscienza, che si realizza nei modi precipui di un comportamento “pulsionale”, «la cui dinamica motoria sia unita per essenza alle sensazioni affettive del piacere e dell’assenza di piacere» (p. 55).
Per quanto originaria, questa “autocoscienza sensibile”, implicando una congenita incapacità percettiva, non riesce ad esprimersi in piena consapevolezza soggettiva nei moti corporei e ancor meno in quell’altra esperienza fondamentale, che Bernet identifica con il “trauma”. Nell’esperienza traumatica, anzi, al deficit di controllo soggettivo fa da contraltare la crescita di originarietà dell’autocoscienza, intesa come fenomeno di una consapevolezza che non si riduce alla riflessività intenzionale, ma che, al contrario, se ne discosta, poiché appartiene ad «esperienze coscienziali dotate di una potentissima autoreferenzialità, ma [che] non per questo producono un senso» (p. 59). È proprio qui che Bernet svela nella maniera più chiara il significato “pre-intenzionale” dell’autocoscienza affettiva, là dove, cioè, la perdita del Sé, che caratterizza esperienze come il dolore, indica l’assenza di un senso, ovvero, nel contesto intenzionale in cui ci si sta muovendo, di un conferimento di senso da parte di un soggetto, senza per questo rinunciare alla dimensione autenticamente coscienziale. Nella sensazione traumatica, infatti, in luogo di un’oggettualizzazione estraniante o di un comprendere concettualizzante compiuti da una soggettività pienamente consapevole, si ha un divenir-coscienti nella forma peculiare del ricordo interiorizzante (inteso hegelianamente come Er-innerung), in cui avviene una riappropriazione “postuma” (nachträglich) del proprio esser-stati, che oltrepassa il Sé immediato e presente. Ciò comporta una distensione temporale del soggetto, che consente altresì la possibilità di individuare nell’alterità l’espressione e il riconoscimento del proprio vissuto traumatico.   
La centralità dell’aspetto non-teoretico del soggetto è messa in evidenza anche nell’intervento di Jocelyn Benoist (Le funzioni del soggetto, pp. 64-76), che, seguendo le considerazioni contenute ne Le complément du sujet di Vincent Descombes, mira ad approfondire il carattere “d’azione” della soggettività. Benoist si propone di “completare” l’affermazione di Descombes, secondo cui “è soggetto chi fa qualcosa” e chi, come tale, si espone alla responsabilità, ossia alla condizione di rispondere delle proprie azioni.
Accentuare il nesso tra soggetto e azione permette di elaborare un’immagine della concretezza della soggettività, di presentarne adeguatamente l’aspetto reale, effettivo, giacché «il riferimento all’azione funziona come un principio di realtà. Sottolineare la funzione di principio del soggetto in quanto agente – prosegue Benoist – significa introdurre non un principio astratto […] ma un principio reale, che, in un certo senso, fa parte dell’azione stessa» (p. 65). Immergere il soggetto nella dimensione effettiva della sua esistenza, mediante il tratto originario della “agentività”, consente di ripensarlo in modo adeguato nella sua relazione all’oggetto, restituendogli nel contempo «qualche contenuto fenomenologico, esperenziale» (p. 66). La rivalutazione del tratto agente, ossia del fatto che la soggettività, vivendo, produce effetti, non solo evita una riduzione di tipo fisicalistico della concezione della vita soggettiva, ma comporta altresì la conseguenza, più importante in una prospettiva fenomenologica, di leggere i rapporti intenzionali non solo come puramente tali, bensì «sempre anche [come] rapporti reali» (p. 69). Per quanto la posizione di Descombes permetta di superare «l’illusione dell’evanescenza della coscienza pura» (ibid.), essa, secondo Benoist, rimane bisognosa di un’integrazione essenziale, di un completamento.
Il concetto di “recessività”, già presente nelle analisi di Descombes, consente, se differenziato al suo interno, di completare la figura del soggetto agente; attraverso una minuziosa analisi semantica, Benoist individua in alcuni forme verbali, casi in cui v’è apparentemente solo il soggetto, quando, di fatto, il soggetto stesso «occupa la funzione reale di un oggetto nella frase» (p. 71), la quale, quindi, esprime non qualcosa che compie il soggetto, ma ciò che accade al soggetto. Mediante due esempi tratti dalla lingua tedesca, Benoist mostra efficacemente l’esistenza di questo caso di “inaccusatività” o “intransitività”: nell’espressione “es wird getanzt” (si balla), il passivo impersonale esprime comunque l’azione di un soggetto, laddove, nella frase “es wird gestorben” (si muore), «non c’è più nessun agente, ma un puro paziente (un “oggetto”); dunque il complemento di agente non è più possibile» (p. 73). L’esperienza della morte, quindi, testimonia un genere sì di azione, in cui, tuttavia, il soggetto non è tale o, più precisamente, è già sempre oggetto. Quello che nella morte assume un tratto radicale, ossia l’intrinseca e co-originaria passività di ogni agire, deve essere estesa alla descrizione della soggettività descombiana, secondo l’idea che fa parte «della struttura dell’agentività stessa, che accade qualcosa al soggetto nel suo fare […], che è lo stesso soggetto ad agire e soffrire. Perché non si soffre da nessun’altra parte che nell’azione (nella sua risacca)» (pp. 74-75). In tal modo, Benoist fa molto di più che relativizzare il ruolo dell’atteggiamento teoretico del soggetto, mettendone in risalto quella cifra di vulnerabilità congenita che, come tale, accompagna ogni istante della sua vita activa.  
Con il saggio di Francesco Saverio Trincia (L’angolo oscuro della soggettività, pp. 159-177), le riflessioni si mantengono saldamente nel solco della fenomenologia, non solo perché il titolo richiama esplicitamente l’espressione husserliana di dunkler Winkel, ma anche e soprattutto per la chiamata in causa, fin dall’inizio, di una «operazione trascendentale che compiamo nei confronti della soggettività per afferrarla concettualmente […].» (p. 159). Tale gesto inaugurante l’analisi di Trincia ha lo scopo dichiarato di enfatizzare la lacerazione tra chi domanda e chi su cui si domanda, di affrontare, quindi, senza remore o inutili indugi, quella Spaltung che si crea originariamente nel soggetto, allorquando questi decide di indagare su se medesimo. Se, quindi, si dà come assunta l’unità del soggetto, essa non è con ciò un presupposto, bensì un problema.
La scelta della nozione di “trascendentale” è compiuta da Trincia nell’intento di indicare non «un’entità impersonale e indeterminata», ma «una funzione di un io penso, se non l’io penso stesso in funzione» (p. 163). Essendo pur sempre una categoria fondamentale della filosofia della storia, per quanto si possa trattare di una vicenda hegelianamente ed heideggerianamente giunta alla fine, la soggettività conserva il suo carattere “epocale”, che legittima ogni nuovo tentativo di farne il cuore di una (o, forse, della) riflessione teoretica. Tale riflessione, svolgendosi introno a una figura concettuale in sé scissa e non più componibile, trova nella psicoanalisi una preziosa modalità di “esperienza vissuta” di questa scissione, che vede nella soggettività una categoria «aperta all’accoglimento di una frattura, di una lacerazione, di un trauma psichici reali, storici ed esistenziali […].» (p. 168). Accolto nella prospettiva filosofica declinata in senso fenomenologico, il soggetto psicoanalitico trova a sua volta il proprio completamento necessario, inserendosi nella più ampia struttura “circolare” della soggettività, in cui da ultimo si gioca la possibilità di un’auto-comprensione “evidente”.
La struttura vivente del soggetto fenomenologico, incarnata dalla dimensione intenzionale, non consente, però, di parlare a tal proposito di evidenza “adeguata”, che presuppone una coincidenza statica dell’Io con se stesso, bensì di evidenza “apodittica”, giacché, come scrive Trincia citando Gerd Brand, il «problema della fondazione apodittica concerne la vita-che-esperisce-il-mondo nella sua totalità» (p. 172). Proprio perché si conforma all’esigenza dinamica, genetica della vita soggettiva, il carattere apodittico dell’evidenza non annulla la lacerazione, ma ne fa, invece, il centro del “lavoro del concetto”, che, fondandosi, come propone Trincia, sull’immagine hegeliana, nella rilettura di Heidegger, della “calza lacerata”, permette alla soggettività di esperire fino in fondo la coscienza di sé. Consapevole dell’eterogeneità delle prospettive filosofiche assunte, Trincia utilizza la chiave dialettica per gettare luce sulla circolarità fenomenologica del soggetto, mettendo in risalto la dimensione vivente di questa circolarità, che fa della soggettività «null’altro che l’esperibilità della scissione, che viene vissuta e riattivata» (p. 177). 
Le riflessioni di Jean-Christophe Goddard (La figure du sujet sans objet dans la philosophie contemporaine. Derrida lecteur d’Antonin Artaud, pp. 77-95) seguono ancora il corso della fenomenologia, al fine, però, di criticarne l’esito “trascendentalista”, incapace di rinunciare al primato del senso. Proprio per inseguire tale primato, la filosofia, spiega Goddard sulla base delle considerazioni derridiane, crea la figura del cogito cartesiano, sempre presente a se stesso, privo di intervalli, senza residui, «l’être purement subjectif, absolument non objectif, l’être au-delà de l’être objectif […].» (p. 80).
L’operazione che compie allora Derrida lettore dell’arte di Artaud, è quella di rendere fecondo il tratto di follia, che questa forma di cogito ambisce a – o, piuttosto, s’illude di – espellere da sé, opponendo al continuo desiderio della piena presenza dell’identità a se stessa, che caratterizza il percorso della teoresi occidentale, il pensiero destrutturante della “differanza”, che scompone l’unità granitica cui aspira qualsiasi rappresentazione in una molteplicità di momenti disseminati an-archicamente. Unire l’opera e la follia, ovvero quel che l’Occidente vuole mantenere separato al fine di proteggere la prima dalla seconda, significa distruggere gli assunti fondanti la filosofia del cogito e «consiste bien ainsi à faire oeuvre, mais à faire une oeuvre cruelle, dont la précision, l’écriture minutieuse, ne protège plus du chaos, mais espose, dont la “restance” n’est pas la restance d’un objet, mais d’une violence, d’un acte sans reste – d’un pur sujet sans objet» (p. 90).
Al fine di mostrare esempi radicali di questo superamento e insieme annichilimento della pretesa soggettivistica – rappresentazionale - della metafisica occidentale, nella sua duplice versione filosofica e artistica, Derrida accosta il “teatro della crudeltà” di Artaud allo spirito dionisiaco di Nietzsche, in quanto fenomeni accomunati dall’esplodere spontaneo, incontrollato di una festa dai marcati connotati politico-rivoluzionari, che mette al centro la vita, in luogo della sua imitazione.  L’“omicidio”, attraverso cui Artaud si è esposto dinanzi alla civiltà occidentale, alla religione e alla filosofia, ha nello stesso tempo rivelato le loro strutture obliate, minandole dall’interno e ponendo il pensiero dell’Occidente, questa volta, di fronte all’irriducibile follia di un soggetto senza oggetto.  
Una lettura critica dell’approccio fenomenologico alla questione della soggettività si trova anche nel contributo di Roberto Brigati (La place des pratiques dans un monde de données, pp. 106-125), che confronta l’orientamento husserliano basato sulla datità del mondo, con l’impostazione “pragmatista” accompagnata dal pensiero di Wittgenstein, la quale fa precedere la conoscenza al conosciuto. La filosofia dell’autore viennese, in particolare, è perfettamente compatibile con la possibilità che si dia una solo forma di vita in cui far convergere la pluralità delle prospettive, «unicité qu’on pourrait aussi  bien comprendre comme un universal anthropologique, voire comme engendrée par la structure de la condition humaine» (p. 109).
Tuttavia, il punto di vista wittgensteiniano è percorso da un tratto di “tragicità”, essendo il suo gesto filosofico rivolto a un esterno irraggiungibile, ciò che rende la prospettiva, da cui attuiamo la conoscenza, solo una prospettiva, appunto, la nostra. Qualora, però, si volesse prediligere comunque il nostro vantaggio rispetto alla realtà, l’agire pratico può, a questo punto, assumere un ruolo normativo decisivo proprio in quanto nostro, con la conseguenza, tuttavia, avverte Brigati, che in tal modo «[les pratiques] se substituent à la pensée, ce qui est fatale pour tout espoir d’accueillir le noveau», com’è dimostrato dal recente dibattito sulle radici cristiane dell’Europa, incapace di sfuggire «à cette tournure accablante» (p. 111). L’analisi dell’imporsi normativo delle pratiche permette, ad ogni modo, di portare alla luce la questione “epistemologica” della fondazione e, attraverso la considerazione dell’origine convenzionale e contrattualistica della modernità, la soggettività è restituita alla propria dimensione storico-temporale.
Dal canto suo, la fenomenologia affronta la questione del soggetto a partire dalla datità del dato, guidata dall’ambizione “ideologica” di coniugare la ricezione della “donnéè” con la sua comprensione. «L’idéologie de la donnée tend à constituer le réel comme une anomalie, une ecceitas, devant laquelle l’intelligence baisse la tête ; par contre, nous comprenons par analogie» (p. 113). Laddove il pragmatismo vede nel pensiero un intervento attivo nei confronti del mondo, nelle forme di un’azione che affetta la realtà, senza bisogno di rifarsi all’istanza di una presa intenzionale di coscienza, la fenomenologia, invece, nonostante quella che Brigati definisce l’“astuzia trascendentale” della riduzione, da una parte non riesce a spiegare la connessione tra ordine reale e ordine ideale, dall’altra risulta inefficace anche sul livello pratico. L’ostacolo, che il pensiero fenomenologico non riesce a superare, consiste nell’incapacità di considerare il “vedere” (voir) come un gesto, ossia come un “guardare” (regarder) colto nella sua dimensione pratica.  Tuttavia, nel suo sviluppo in senso genetico, con il conseguente privilegio accordato alla sfera iletico-passiva del conoscere, la fenomenologia trova al proprio interno un importante viatico per la valorizzazione della prassi, evitando di far derivare la conoscenza dal dato, ma, al contrario, fondando «le signifié de la donnée sur la possibilité de l’avancement de la connaissance» (p. 120).
Solo nel pragmatismo, però, tale progresso può svilupparsi nella maniera più efficace, là dove l’“eccedenza epistemologica” del soggetto istituisce quel vantaggio della conoscenza sul conosciuto, che, pur rifiutando la pretesa fondazionalista della prassi, le riconosce la capacità di “fare la differenza”.
Un’altra lettura della soggettività svolta attraverso un fertile confronto con la fenomenologia è quella proposta da Carlo Scognamiglio sulla scorta delle riflessioni di Hartmann (Il problema del soggetto nell’ontologia critica di Nicolai Hartmann, pp. 126-145), il quale sceglie di seguire la via empirica tracciata dal soggetto kantiano, dissolvendo qualsivoglia paradossalità trascendentale. Se si pone la condizione d’esistenza degli oggetti al di fuori del momento conoscitivo in cui sono dati, si viene «a sostituire il trascendentale […] con un’analisi categoriale dell’essere» (p. 128). In tal modo, Hartmann slega il concetto di a priori dalla relazione alla soggettività, escludendo che l’oggetto possa esaurirsi nella coscienza e concependo quindi la conoscenza come «ein Erfassen von etwas, das auch vor aller Erkenntnis und unabhängig von ihr vorhanden ist» (p. 129, n. 13). Marcare l’indipendenza reciproca di soggetto ed oggetto implica dotare entrambi i termini di un surplus di significato (il soggetto è “più-che-soggetto”, l’oggetto è “più-che-oggetto”) e collocarli su di un livello di relazione reale, proprio della sfera dell’essere e non limitato a quella della conoscenza.
L’opzione “realista” dell’ontologia hartmanniana ambisce così a rappresentare una sorta di completamento della prospettiva fenomenologica, troppo sbilanciata nel senso di una soggettività assoluta, e si fonda sulla consapevole assunzione dell’aspetto critico dell’idea kantiana «di un fondo “irrazionale” (non intelligibile, noumenico) e problematico del reale» (p. 134). Asserire, quindi, che il solo «soggetto pensabile, secondo la prospettiva dell’ontologia critica, è unicamente il soggetto empirico reale» (p. 135), non significa negare il tratto spirituale dell’Io, ma, al contrario, immergere questa stessa spiritualità nella concretezza dell’empiria mondana, dove non si parla più di Io-originario (Ur-Ich), bensì di un Io-persona, di cui ha il delicato compito di occuparsi la riflessione etica. Il tratto personale del soggetto è dato dal suo esporsi alla sfera dei valori, in una relazione, che non vede il soggetto determinare i valori, secondo quella che sarebbe ancora una prospettiva trascendentalista, ma «questo [il soggetto], in quanto persona, dipende dal suo rapporto con la sfera assiologica» (p. 138).
Il carattere fondante la personalità del soggetto è la libertà, la quale determina l’emergere della vita spirituale dalla sua base psichica, in conformità alla “tetralogia ontologica” elaborata da Hartmann, dove l’ultimo stadio, quello dello spirito obiettivato, presenta il complicato enigma di una materia «portatrice di un contenuto spirituale non vivente, che esiste soltanto per uno spirito vivente» (pp. 144-145), enigma la cui complessità è messa bene in luce da Scognamiglio e che ha un sapore, di nuovo, squisitamente fenomenologico.                            
Sebbene si collochi fuori del terreno della fenomenologia, il contributo di Remo Bodei (Gli avatars del soggetto, pp. 96-105) riprende la domanda che il soggetto pone a se stesso, da cui muoveva il saggio di Trincia, quantunque, come s’è visto, in direzione differente. Dopo un rapido excursus delle posizioni “classiche” espresse nelle filosofie di Hume, Kant e Fichte, Bodei si chiede se sia realmente possibile evitare i rischi impliciti nell’esercizio teoretico dell’autoriflessione, che sono quelli «di uno sdoppiamento all’infinito dell’autocoscienza in osservatore e osservato, rispecchiamento incessante dal soggetto all’oggetto e dall’oggetto al soggetto» (pp. 99-100). Nella ricerca di un’alternativa alle teorie della riflessione e alle ipotesi di un cogito pre-riflessivo, Bodei illustra tre possibili modelli “analogici”. Il primo è rappresentato dall’idea freudiana di “condensazione”, in cui si sovrappongono differenti io, all’interno di un processo diacronico, dove ciò che si lascia alle spalle viene custodito nel dirigersi verso ciò che ci aspetta, in un equilibrio sì precario, ma che ci consente di «bilanciare continuità e discontinuità» e di  «ritrovare il tortuoso cammino che riconduce a tutte le nostre successive incarnazioni in una sola vita» (p. 102). Il secondo modello consiste nella reciproca interazione del livello psichico “inferiore”, composto dai continui e irriflessi momenti di coscienza, con il livello “superiore”, quello della coscienza desta; entrambi gli stadi «intrattengono un’intima collaborazione conflittuale, una complementarità antagonistica» (p. 103), in cui coesistono immobilità e successione. Il terzo schema, infine, interpreta la nozione di identità personale mediante i concetti, decontestualizzati, di “eterotropia” ed “eterocronia”, «che, da un altrove spaziale o temporale, rinviano a un luogo e a un tempo presenti» (ibid.), secondo un gioco di riferimenti, in cui l’hic et nunc reali trovano la loro ragion d’essere in rapporto a un non-luogo e a un non-tempo ideali.
Dall’unificazione dei tre modelli proposti, è possibile per Bodei evitare l’impasse dell’alternativa tra cogito pre-riflessivo e auto-riflessione, in quella che, tuttavia, rimane un’intrigante dichiarazione d’intenti che l’autore, però, non svolge ulteriormente.  
In forma di argomentazione non sistematicamente sviluppata, bensì presentata per sommi capi, si presenta anche l’intervento di Giacomo Marramao (Relazione, costituzione, narrazione. Lo statuto pluriversale del Sé, pp. 146-158). Rifacendosi fin dal titolo al concetto di multiple self sviluppato da Jon Elster, Marramao prende le mosse dalla constatazione che uno «dei principali motivi conduttori della riflessione contemporanea è costituito dalla scoperta […] della dissoluzione dello statuto sostanzialsitico del Sé» (p. 146), che implica la concezione “relazionale” dell’identità: passato e presente, percezione e memoria, l’io e l’altro.
L’adozione di questa visione che esalta la molteplicità dell’identità soggettiva, sia nel suo aspetto individuale sia in quello comunitario, rappresenta un importante punto di contatto tra la filosofia analitica ed ermeneutica, le quali entrambe mettono così in discussione il «presupposto atomistico soggiacente alle filosofie moderne del soggetto» (ibid.) Posta la premessa generale, Marramao elenca schematicamente le sue tesi, che vanno dall’assunto di Parfit, secondo cui l’io non ha una identità, ma è una pluralità di identità, alla nozione già citata di Elster, dalla sfida che la filosofia analitica lancia alla comprensione ermeneutica di un io “situato”, alle rinnovate possibilità di rapporto all’altro contenute proprio in questa sfida, dal rifiuto della logica identitaria, alla rivalutazione di ciò che agisce alle spalle della coscienza razionale, dall’importanza della dimensione narrativa dell’identità, alla proposta di un “cosmopolitismo della differenza”, alternativo sia al paradigma universalista che a quello multiculturalista.
Quest’ultimo passaggio, in particolare, compiuto anche sulla base delle riflessioni di Slavoj Žižek, «non intende affacciare una soluzione, ma soltanto una…morale provvisoria», che s’inserisce «nell’attuale interim filosofico tra il passato della grande metafisica moderna e il futuro di un’ontologia postmetafisica […] così come nell’interregno politico-giuridico – che da quell’interim direttamente discende – tra il non-più del vecchio ordine leviatanico o interstatale e il non-ancora di un nuovo ordine sopranazionale […].» (p. 155).          
La varietà delle prospettive in cui ciascun autore ha scelto di affrontare la questione del soggetto, al pari delle affinità e delle divergenze tra le diverse posizioni teoretiche, non solo offre un ampio spettro di commenti, ciò che impreziosisce l’importanza di questa proposta editoriale, ma dimostra altresì quanto la categoria di “soggettività” sia ancora vitale nel pensiero contemporaneo.

È degno di nota, in particolare, il fatto che, anche quando la riflessione sembra volersi allontanare dal soggetto, o, più radicalmente, miri a scomporlo nella molteplicità delle sue versioni, esso riemerge ogni volta dalle sue ceneri, imponendosi come terminus a quo e ad quem dell’analisi filosofica. Il perché della persistenza di questa poliedrica nozione, può rinvenirsi nelle parole che Enzo Paci riserva alle sue annotazioni fenomenologiche - per citare un non casuale riferimento a Husserl, il pensatore che, in maniera più o meno esplicita, è presente in tutti gli interventi - : «L’individuo è unico e pure è il tutto. La filosofia comincia quando questo uno-singolo scopre che ha in sé relazioni tipiche, essenziali, con tutto il resto […]. Il fatto primo sono io, il soggetto […]. Io, come uomo, come l’uomo che ha in sé il mondo, anche il mondo che ignora» (E. Paci, Diario fenomenologico, Il Saggiatore, Milano 1961, p. 11).  
PUBBLICATO IL : 12-12-2007
@ SCRIVI A Nicola Zippel