Certamente tra i più noti promotori della cultura evolutiva in Italia, Telmo Pievani presenta con questa Introduzione una guida di sicuro valore al dibattito teorico e alle questioni filosofiche suscitate in biologia a partire dalla teoria darwiniana. Pur nella stabilità di un corpus teorico ormai consolidato, la teoria dell’evoluzione è infatti segnata da interrogativi aperti e controversie accese, come accade per ogni programma di ricerca «che accetti l’evidenza empirica come vincolo» (p. 3). Ogni programma di ricerca è però condizionato dalla natura del suo oggetto di indagine; e la natura peculiare dell’oggetto di indagine della biologia è una natura storica, recante cioè il segno della irreversibilità. Questo significa, da un punto di vista sperimentale, dover rinunciare ad alcune prerogative proprie delle cosiddette scienze «dure». Ripetizione in laboratorio, interpretazione dei dati sulla base di leggi generali, formalizzazione matematica, ecc. tendono infatti a lasciare il posto all’inferenza storica. È da osservare, a tal proposito, che una cospicua parte del dibattito presentato nel testo concerne proprio la possibilità o meno di un «indurimento» della scienza evolutiva intorno al modello fisico-matematico. In tal modo, come annunciato nelle prime pagine, il motivo portante del testo è costituito dall’intreccio fra contingenza e regolarità, fra le singolarità storiche che imprimono nuove direzioni all’evoluzione e i pattern o schemi ogni volta ricorrenti – intreccio rintracciabile in ciascuno degli interrogativi presentati nel corso dei capitoli. Esiste un progresso nella storia naturale? Cosa significa «adattamento»? Che cos’è una specie? Che peso hanno geni e ambiente nell’evoluzione e nello sviluppo? È dunque evidente, come ammesso apertis verbis dall’autore, che la scelta parziale del testo sia quella di trattare la sola biologia evoluzionistica, nel conforto della celebre affermazione di Dobzhansky per cui «nulla in biologia ha senso se non alla luce dell’evoluzione». Illustrare esaustivamente il dibattito relativo a tali argomenti è dunque il sentiero necessario alla comprensione della ricchezza, filosofica e scientifica, insita nel paradigma evolutivo, «a dispetto di chi, anche in Italia in tempi recenti, condivide la tentazione di eliminare l’evoluzione dai programmi di insegnamento» (p. XII). La filosofia della biologia promossa dall’autore si basa dunque sulla convinzione che sia importante una adeguata comprensione della struttura argomentativa della teoria evolutiva «prima di farla propria o di criticarla o di limitarne l’insegnamento» (p. XV). Ma la filosofia della biologia così caratterizzata, si prosegue, è destinata a diventare una disciplina sempre più cruciale anche in questioni di natura etica, dalle dinamiche ecosistemiche che fanno della specie umana la principale causa delle estinzioni di massa del pianeta, sino alle più delicate dispute bioetiche che imperversano sulle pagine dei giornali e nei dibattiti televisivi, anche e soprattutto nel nostro paese. In tal senso, l’autore può a ragione affermare che la filosofia della biologia ha «una ricca agenda di lavoro dinanzi a sé» (p. XIII). Occorre infine notare che l’illustrazione di tale panorama di ricerca è svolta «per temi chiave», imperniata cioè su singoli problemi o ambiti di riflessione (ciascuno dei quali corredato da una specifica e rigorosa bibliografia), piuttosto che su una più consueta ricostruzione per tappe storiche fondamentali. Sia detto che proprio la scelta di tale strategia espositiva garantisce al testo una chiarezza e un ordine maggiori, fermo restando che i puntuali riferimenti dell’autore fanno sì che il lettore non sia mai lasciato nel vuoto cronologico.
La controversia fra gradualisti e puntuazionisti, scelta «come “ingresso” di questa introduzione alla filosofia della biologia» (p. 248), è certamente tra le più note dispute sorte in ambito evoluzionistico, di tale rilevanza da ripercuotersi in praticamente tutte le altre questioni ivi discusse. Per quanto, come detto, nessuno studioso metta più in dubbio il ruolo della selezione naturale quale motore fondamentale del mutamento evolutivo, il peso e le circostanze in cui essa opera sono state tuttavia oggetto di accese discussioni. L’idea forte della Sintesi Moderna degli anni Trenta, consolidatasi attorno ai risultati della genetica di popolazioni, era che i cambiamenti osservabili su grande scala fossero sostanzialmente riconducibili all’accumulo di piccole variazioni nel corredo genetico, sotto la costante pressione della selezione naturale (idea che fu in seguito detta «gradualismo filetico»); la selezione cumulativa era ritenuta tutto ciò che occorreva a spiegare l’evoluzione. Ora, nonostante idee alternative fossero sempre circolate in opposizione a tale assunzione, essa non fu mai apertamente messa in dubbio, talvolta anche a costo di una opportuna distorsione dei dati empirici entro le aspettative teoriche nutrite dagli studiosi. Una esplicita messa in discussione di tale paradigma si ebbe soltanto con la teoria degli equilibri punteggiati di Niles Eldredge e Stephen J. Gould, apparsa nel 1972. I due paleontologi sottoposero all’attenzione degli evoluzionisti un fatto cruciale: la documentazione fossile, anziché mostrare un cambiamento graduale, testimonia una sostanziale stabilità delle forme, protratta anche per milioni di anni; le nuove forme, inoltre, tendono a comparire in maniera piuttosto repentina. Ciò significa che le specie restano stabili finché possono e il cambiamento evolutivo avviene per eventi singolari, puntuazionali. Finché l’ambiente resta immutato, le variazioni individuali tenderanno ad andare perdute per via del rimescolamento genetico; qualora invece un evento geografico intervenga a frammentare la popolazione stessa (speciazione allopatrica), si creeranno le condizioni affinché la selezione naturale possa apportare cambiamenti degni di nota. Ciò significava che i cambiamenti microevolutivi di natura genetica potevano non dar luogo a cambiamenti macroscopicamente apprezzabili. Ora, oltre al fondamentale contributo teorico apportato da tali osservazioni, l’importanza dell’articolo sugli equilibri punteggiati era evidente per almeno altri due ordini di motivi. In primo luogo, i due studiosi avevano confutato il pregiudizio per cui i fossili fossero in grado di parlare per così dire ‘da soli’ o, in altre parole, che lo scienziato si ponesse con sguardo del tutto neutrale di fronte a essi. «Il dato empirico – al contrario – è “colorato” da aspettative teoriche, da immagini influenti. Per Eldredge e Gould, che l’evoluzione fosse un lento accumulo di miglioramenti apparve come un “colorazione” teorica molto accesa della storia naturale» (p. 11). In secondo luogo, i fenomeni macroevolutivi, non essendo più visti come meri epifenomeni dei cambiamenti genetici, potevano finalmente esseri studiati in tutta la loro specificità e peculiarità – un mutamento di prospettiva cruciale, che coincise con la riammissione al dibattito evolutivo di numerose discipline dimenticate fra cui la paleontologia e la paleoclimatologia.
Così, l’eredità della Sintesi fu giocata innanzi tutto sulla riducibilità o meno della macroevoluzione alla microevoluzione. La scelta per l’una o per l’altra alternativa comportava, tra le altre cose, una differente concezione di cosa fosse una specie. Se il cambiamento evolutivo non è altro che il costante accumulo di piccole variazioni, le forme tenderanno a sfumare insensibilmente l’una nell’altra, rendendo il confine tra le specie tendenzialmente arbitrario. La speciazione allopatrica descritta da E. Mayr aveva se non altro fornito un criterio di discriminazione spaziale: dacché una barriera geografica separa una parte della popolazione, questa diverrà soggetta a nuove pressioni selettive che la porteranno a diversificarsi gradualmente dalla specie parentale. La teoria degli equilibri punteggiati, dal canto suo, dovette aggiungere a tale fattore orizzontale un discrimine di tipo temporale, dal momento che la documentazione fossile mostrava la stabilità delle specie nel tempo. Un puntuazionista poteva così concepire le specie come entità biologiche irriducibili, non più arbitrarie, poiché discrete sia nello spazio che nel tempo.
Sul versante gradualista, l’etologo britannico Richard Dawkins è quasi certamente l’esponente più celebre dell’approccio genocentrico all’evoluzione: per Dawkins è il gene, non l’individuo, l’unità su cui agisce la selezione. Di nuovo, la chiave di lettura è la riduzione della macro- alla microevoluzione. Il mondo di Dawkins è costituito da due soli tipi di entità, i replicatori e gli interattori. I primi, i geni, forniscono le informazioni necessarie per la costruzione dei secondi, gli organismi, che sono gli intermediari fra i geni e l’ambiente. La selezione agisce così favorendo quei geni (o lignaggi) in grado di replicarsi in maggior numero per la loro capacità di costruire interattori migliori. I fattori ecologico-ambientali hanno dunque importanza solo nella misura in cui determinano selettivamente quali siano gli interattori migliori. Com’è evidente, l’assunto implicito in tale concezione è che «il codice genetico sia scomponibile in unità di base alle quali corrispondono altrettante unità discrete del fenotipo o unità discrete di comportamento a cui possiamo assegnare un valore quantitativo di adattamento» (p. 76). Nelle mani di Dawkins, dunque, gli organismi biologici diventano i portatori passivi dei geni, semplici collezioni di tratti al servizio della propagazione dell’informazione contenuta nei geni. La sociobiologia avrebbe poi applicato questa idea fortemente funzionalista al comportamento umano, operando il tentativo di scomporlo in atomi e ricondurre questi alle loro specifiche cause adattative.
Il contributo di Dawkins si iscriveva dunque nel dibattito sulle unità di selezione; in particolare, l’obiettivo polemico dello scienziato britannico era stata la posizione di Wynne-Edwards, per il quale determinati tratti, come il comportamento altruistico, non essendo di alcun beneficio per l’individuo, dovettero essere selezionati a livello del gruppo. Nell’ambito di tale controversia, si segnala come particolarmente rilevante la teoria gerarchica dell’evoluzione. Secondo tale visione, la natura manifesta livelli di organizzazione le cui proprietà non possono essere ridotte all’attività dei livelli sottostanti. Ciascun livello è sorretto dall’attività del livello sottostante, ma manifesta rispetto a esso delle proprietà nuove. Così, ad esempio, i geni danno luogo agli organismi, i quali danno luogo alle specie e così via. I cambiamenti che si verificano ai livelli superiori si ripercuotono sui livelli inferiori – ad esempio le estinzioni su larga scala determinano la rimozione di interi pacchetti genetici. Tuttavia, che accada il contrario, che la variazione genetica si rifletta sui livelli alti della gerarchia non è necessario, è soltanto possibile e richiede, come si è visto, condizioni particolari. A partire dal pluralismo esplicativo della prospettiva gerarchica, proprio il fenomeno dell’estinzione era destinato a una forte riconsiderazione, in una sorta di riabilitazione laica del catastrofismo á la Cuvier. Cambiamenti di natura traumatica – l’impatto di corpi extraterrestri, il drastico abbassamento di temperatura, ecc. – possono determinare la distruzione di interi ecosistemi e chiamare le specie limitrofe a ripopolare le aree sgombre, imprimendo nuove direzioni alla storia della vita. In tal modo, la teoria gerarchica individuava un pattern evolutivo fondamentale: l’estinzione seguita da ripopolamento secondo i tradizionali criteri selettivi. Non soltanto la teoria gerarchica riconsiderava così i fenomeni macroevolutivi in quanto irriducibili all’attività delle componenti sottostanti, ma rivalutava l’incidenza di eventi singolari che oltrepassano la mera competizione fra geni o fra individui. Come vide bene lo stesso Darwin, l’evoluzione è una alternanza di «leggi sullo sfondo» e «contingenza nei particolari», di regolarità e casualità, di pattern ed eventi singolari che determinano l’irreversibilità del processo. Si potrebbe dire che mentre la teoria genocentrica predilige, come spiegazione dell’evoluzione, la semplicità e l’eleganza della sola legge della selezione naturale, la visione gerarchica rivaluta l’incidenza di eventi singolari considerati non riducibili a tale legge.
Critiche alla visione genocentrica, tuttavia, giunsero anche dal versante della biologia dello sviluppo, in particolare dalla teoria dei sistemi di sviluppo (DST) di Susan Oyama. Minando alla base il consenso sull’interazione fra geni e ambiente, nature e nurture, persistente in una concezione dualistica del processo ontogenetico, Oyama ritiene che «l’attore principale dell’evoluzione è il “sistema di sviluppo” genetico-ambientale: una eterogenea e causalmente complessa miscela di entità interagenti e di influssi che producono il ciclo di vita di un organismo» (p. 116). Le unità bersaglio della selezione naturale non sono più quei tratti di informazione discreta costituiti dai geni, bensì l’insieme complesso di interactants che include geni, strutture cellulari, ambiente extracellulare, ambiente uterino, fino ai rapporti con il mondo sociale. Replicazione e interazione convergono pertanto in un’unica unità di sviluppo costituita dall’organismo, nel rifiuto del determinismo sia genetico che ambientale: «l’informazione si manifesta nel ciclo di vita di un organismo e si ricostruisce con esso ogni volta; non vi è pertanto alcuna “esecuzione” di un piano prefissato nei geni poiché anche i fattori non genetici contribuiscono all’ontogenesi dell’informazione» (p. 119). All’interazionismo additivo si sostituisce così un interazionismo costruttivista, in cui ogni cambiamento genetico o ambientale sortisce effetti non prevedibili, dovuti all’interazione ogni volta diversa di cause eterogenee. Ancora una volta, dunque, è la storia a fare la differenza – la storia delle interazioni ontogenetiche che sono proprie di quell’organismo e che contribuiscono a plasmarne l’individualità biologica.
Si profilano in tal modo due modalità complementari della spiegazione evolutiva, quella adattativa o esternalista, che tende a spiegare ogni tratto sulla base delle pressioni selettive esterne che lo hanno ‘forgiato’, e quella strutturale o internalista, che tende a spiegare lo sviluppo di un tratto «collocandolo nel piano corporeo complessivo di un organismo di un certo tipo» (p. 137). La dialettica fra queste due chiavi di spiegazione si ripercuote fortemente sul problema dell’adattamento. La Sintesi Moderna aveva indubbiamente preferito la prima tipologia di spiegazione, in base alla quale «la procedura di ricostruzione del processo evolutivo si configura [...] come un “riavvolgimento” temporale a partire dall’utilità attuale» (p. 176). Il passaggio è dunque dalla funzione alla forma; la selezione naturale è ivi vista alla stregua di una forza cieca che mantiene le strutture al livello di ottimalità richiesto dalla funzione che svolgono oggi. Questo approccio strettamente adattazionista comportava però un evidente paradosso: com’è possibile che la selezione naturale abbia costruito per gradi organi così perfetti come l’occhio dei vertebrati? Come possono essere state promosse le gradazioni intermedie, evidentemente sub-ottimali rispetto alla funzione in questione? Darwin, ben consapevole del problema, non potendo ammettere che la selezione naturale avesse previsto un certo target finale di perfezione, ipotizzò che uno stesso organo potesse essere stato ‘cooptato’ per nuove funzioni in differenti contesti. Questo fenomeno, sottovalutato dalla sintesi, venne riscoperto con il nome di exaptation (ex-attamento) in un articolo del 1982 di Stephen J. Gould ed Elisabeth Vrba. Il concetto di exaptation consentiva di separare l’origine storica di un organo dalla sua funzione attuale. Quello che noi consideriamo come il 5 per cento di un occhio è in realtà «un altro organo, con una configurazione, un’utilità e una storia incommensurabili rispetto al suo destino futuro» (p. 149). Il passaggio è dunque dalla forma alla funzione; strutture svolgenti un’altra o persino nessuna funzione possono essere riciclate a seguito di imprevedibili mutamenti ambientali. L’organismo non è più visto come una collezione scomponibile di tratti discreti, ciascuno dei quali individualmente modellato dalla selezione, ma come un’unità integrata che garantisce la plasticità necessaria a fronteggiare un ambiente tendenzialmente mutevole. Anche in questo caso, pertanto, la semplicità della spiegazione adattazionista viene integrata dalla considerazione dei fattori contingenti che ne condizionano gli sviluppi. Questo aspetto è particolarmente presente nell’opera di Stephen J. Gould, in cui l’accento sull’imprevedibilità delle traiettorie storiche si traduce in una visione fortemente anti-deterministica e anti-progressionista dell’evoluzione. Ne La vita meravigliosa, in un’ipotesi tanto fascinosa quanto infalsificabile, Gould afferma che se potessimo riavvolgere il film della vita otterremmo risultati totalmente diversi da quelli che osserviamo oggi. In tal senso, «la storia si fa anche con i se» (p. 244); possiamo ricostruirla a posteriori, ma non possiamo mai prevederla a priori. La sopravvivenza non è quasi mai una questione di adattamento in senso stretto – in fondo, parlare di «sopravvivenza del più adatto» non è altro che una tautologia – quanto una questione di circostanze fortuite, dunque imprevedibili, in cui vengono a trovarsi gli organismi.
In conclusione – fermo restando che in fondo «vi sono tanti darwinismi quanti scienziati darwiniani» (p. 248) – il testo di Pievani presenta due modi fondamentali di concepire l’evoluzione: l’uno, figlio della Sintesi Moderna, focalizzato sugli aspetti più strettamente selettivo-adattativi, pericolosamente situato sull’orlo del determinismo e del riduzionismo, e nostalgicamente ancorato al modello delle spiegazioni robuste delle scienze hard; l’altro, consapevole dell’esistenza di livelli esplicativi differenti, interessato ai vincoli di natura strutturale e attento al peso della contingenza storica nello snodarsi dei tracciati evolutivi. È interessante notare come ciascun approccio colga aspetti differenti dell’eredità darwiniana: da un lato, troviamo il Darwin della struggle for life e della selezione graduale; dall’altro, quello del pluralismo, dell’imperfezione e della storia. L’autore presenta questa dicotomia, ad avviso di chi scrive, non senza tradire con moderazione la sua predilezione per la seconda alternativa (si consideri che Pievani è stato allievo di due pluralisti come Eldredge e Tattersall); tuttavia, tale preferenza non condiziona mai un testo che, come un’introduzione richiede, è scritto in un tono sostanzialmente neutrale, risultando sintetico senza mai essere povero. Se è eccessivo affermare che essa colmi una vera e propria lacuna (altri filosofi della biologia, ad esempio Giovanni Boniolo ed Elena Gagliasso, sono del resto citati dallo stesso A.), è però fuori di ogni dubbio che tale introduzione costituisca un eccellente tentativo di riportare l’attenzione della filosofia italiana su questioni fondamentali, non già di esclusiva competenza della scienza sperimentale, quali la natura degli organismi viventi, il rapporto fra natura e cultura, l’alternativa fra determinismo e indeterminismo e altre ancora cui qui si è potuto soltanto accennare. |