Scritti vari da Omero ad Arnobio è un elegante volume collettaneo curato da Paolo Cosenza che raccoglie alcuni contributi di Renato Laurenti (1921-1994). Laurenti ha insegnato per molti anni Storia della Filosofia Antica presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Napoli “L’Orientale” e la medesima Università (in particolare il Dipartimento di Filosofia e Politica) ha voluto celebrare la sua memoria selezionando alcuni contributi non più facilmente reperibili della sua vasta produzione. L’intento celebrativo del volume e l’accurata selezione di scritti riescono a fornire un quadro esauriente di quello che è stato il metodo storico-interpretativo dell’attività scientifica di Laurenti; a completare questo quadro è utile anche l’appendice curata da Carlo Santaniello in cui è raccolta l’intera produzione bibliografica di Laurenti.
È senz’altro impresa ardua tentare una sintesi efficace di quelli che sono stati gli interessi scientifici di Renato Laurenti, data la complessa e articolata varietà di campi di cui si è occupato nell’ambito del pensiero antico. Per questo motivo il modo migliore è quello di menzionare alcune fra le sue pubblicazioni più significative, esulando, ovviamente, dai saggi raccolti nel presente volume. Certamente Laurenti è celebre tra gli studiosi del pensiero antico per aver curato l’edizione in due volumi de I frammenti dei dialoghi di Aristotele (Napoli 1987) in cui, insieme agli studi di Enrico Berti (in particolare La filosofia del primo Aristotele del 1962, recensito da Laurenti nel 1964), veniva presentata al pubblico italiano la produzione giovanile di Aristotele. Numerosi i testi antichi tradotti e commentati, come ad esempio Le diatribe e i frammenti di Epitteto (Bari 1960), I sette libri contro i pagani di Arnobio (Torino 1962), Le diatribe e i frammenti minori di Musonio Rufo (Roma 1967), i due volumi de I dialoghi di Seneca (Roma-Bari 1987), alcune opere di Aristotele (il volume XI delle Opere di Aristotele edite da Laterza contiene le sue traduzioni della Costituzione degli Ateniesi e dei Frammenti) e le traduzioni dei frammenti del Diels-Kranz di Talete, Anassimandro, Anassimene, Ippone, Anassagora, Archelao, Diogene di Apollonia raccolte nei due volumi de I Presocratici curati da Gabriele Giannantoni. Ricchissimo, inoltre, il panorama dei suoi articoli scientifici di filosofia antica che vanno dalla crematistica antica (si ricordano gli Studi sull’Economico attribuito ad Aristotele – Milano 1968 – e Filodemo e il pensiero economico degli Epicurei – Milano 1973) alla politica, dalla medicina antica all’atomismo democriteo, dalla “scuola” milesia agli studi eraclitei, empedoclei e platonici, dalla nozione di piacere (si ricorda in questa sede il fortunato volume Il piacere nella filosofia greca – Napoli 1993 – curato insieme a Paolo Cosenza) e agli studi sul primo cristianesimo e agli interessi plutarchei che, in particolare, sono stati sempre molto vivi nell’attività di Laurenti. Degne di nota anche le sue pubblicazione in ambito specificamente letterario: Laurenti ha curato alcune voci (Ira, Res, Vir, Decus, Virtum, Vitium, Voluptas) per la pregiata Enciclopedia Virgiliana edita dall’Istituto dell’Enciclopedia Italiana e lo studio Il problema morale in Orazio per l’Enciclopedia Oraziana curata dal medesimo Istituto. Infine va ricordato il profondo interesse nutrito da Laurenti per la didattica scolastica della filosofia e della letteratura greca; a lui si deve la cura di testi scolastici quali il Filottete di Sofocle, un’antologia platonica e un volume dedicato al pensiero presocratico.
Da questa breve presentazione si comprende facilmente il forte impulso che l’attività scientifica di Laurenti diede al panorama italiano negli studi di filosofia antica. Il presente volume, pertanto, non vuole essere una silloge completa degli studi di Laurenti ma intende fornire quelli che sono stati i caratteri fermi e stabili dell’approccio storico di Laurenti: l’informazione e l’approfondimento bibliografico costantemente aggiornato, l’abilità mostrata costantemente nelle traduzioni e, soprattutto, l’originale possesso di un metodo storico-ermeneutico che lo ha sempre accompagnato nella ricerca fino al raggiungimento di risultati indiscutibilmente cospicui.
Nel primo saggio, dedicato a Bellezza e piacere in Empedocle (pp. 3-24), lo studioso ripercorre il cuore metafisico della filosofia empedoclea ossia il contrasto armonico tra Philia e Neikos dove Laurenti intravede anche una probabile influenza pitagorica: la bellezza in Empedocle si dà solo quando c’è una struttura che risulta dall’armoniosa aggregazione degli elementi. È per questo che il piacere, secondo il filosofo agrigentino, si ritrova solo nello Sfero in cui le quattro radici sono raccolte e contenute da Philia, laddove Neikos è respinto ai margini. Il secondo studio riguarda Socrate: la morte, l’immortalità (pp. 25-34); Laurenti, esaminando con perizia l’Apologia platonica, conferma la “veridicità socratica” del resoconto redatto da Platone non senza lesinare alcune interessanti “proposte” sul nucleo centrale della filosofia di Socrate. Grazie alla comparazione con altri dialoghi giovanili di Platone, Laurenti è del parere che il pensiero della morte e dell’immortalità non fu al centro del filosofare di Socrate: tutto è in funzione del bene, per questo l’uomo che agisce bene è amato da Dio e non viceversa, ossia l’uomo non è buono perché amato da Dio. Il terzo contributo concerne Il piacere della tragedia, secondo Aristotele (pp. 35-49); considerando alcune delle sezioni più celebri della Poetica, Laurenti sottolinea come il piacere della tragedia conseguito dal “rientrare” purificato dei pathe sia sempre legato al sollievo che pervade l’anima dello spettatore che, non più forzato dai pathe, sarà in grado di agire con moderazione nei confronti degli uomini e delle cose. Il successivo studio si occupa della Critica alla mimesi e recupero del pathos: il de poetis di Aristotele (pp. 51-67). Qui l’autore mette in luce come già in quest’opera giovanile di Aristotele, il peri poieton appunto, siano condensate le critiche mosse alla nozione platonica di imitazione successivamente presenti nella Poetica. Basandosi su alcuni frammenti del de poetis conservati dal Commento alla Politeia di Platone di Proclo e dal Sui Misteri di Giamblico, Laurenti sostiene che Aristotele in polemica con Platone colse già la “potenza” della catarsi dovuta al fatto che lo spettatore, provando i sentimenti di eleos e phobos, è coinvolto nell’azione drammatica che, tuttavia, egli non vive nella realtà ma nell’imitazione scenica, quella stessa imitazione che procura piacere. Presenza dell’energeia nelle cosiddette opere giovanili di Aristotele (pp. 69-96) si lega de facto al successivo contributo Questioni sul piacere in Aristotele (pp. 97-117); Laurenti è convinto che il termine energeia sia fondamentalmente ignoto o non usato come terminus technicus dalla filosofia precedente Aristotele. Per queste ragioni energeia è, sin dalle opere giovanili (si pensi, ad esempio, al Protreptico), un termine specificamente aristotelico che, connesso alla kinesis, assume un significato tanto cinetico che statico: cinetico in quanto l’energeia è attualità, statico perché essa rappresenta la realizzazione di tale attualizzazione. La nozione di piacere, legata a quella di energeia, è senza dubbio uno dei nuclei centrali del pensiero pratico di Aristotele sin da prima della composizione dell’Etica Nicomachea che riferisce, tuttavia, dibattiti sulla natura del piacere all’interno dell’Accademia. Si pensi, ad esempio, alla critica aristotelica alla aochlesia di Speusippo (la cui repulsione del piacere come movimento e divenire discendeva direttamente dal Filebo platonico) o alla condivisione da parte di Aristotele della teoria edonistica di Eudosso (cfr. quindi eth. nic. X 2) che, non solo valutava positivamente il piacere, ma lo attribuiva a Dio, dottrina questa che avrebbe influenzato Aristotele nella teorizzazione del Primo Motore che, in quanto gnosis gnoseos, vive la vita più piacevole di tutte (il che venne prontamente registrato da Tommaso tanto nella Summa contra Gentiles – I 100-102 – che nella Summa Theologica – I 26). Visto che il piacere è obiettivamente presente negli esseri dotati di sensazione, si comprende la centralità della questione in Aristotele; contrariamente alla posizione del Filebo platonico – in seguito fatta propria da Speusippo – il piacere per Aristotele non è né movimento né divenire ma attività (energeia) o, se non sussiste piena identità fra i concetti, quanto meno legato all’energeia. Già Michele di Efeso (IX secolo) nel suo Commento all’Etica Nicomachea rilevava come in Aristotele senza dubbio il piacere non perfeziona l’atto ma esso si configura come un fine che si accosta insieme, sopravvenendo all’atto. Anche il successivo contributo (Riflessioni sulla questione del piacere nel mondo greco pp. 119-141) è dedicato al piacere nella riflessione filosofica greca. Laurenti si concentra ancora su Aristotele senza tuttavia tralasciare gli sviluppi successivi epicurei e stoici e quelli precedenti. Interessante in questo caso la ricostruzione proposta della dottrina del piacere di Aristippo e l’attenzione che Laurenti dedica ad un suo “discepolo”, Aristippo Metrodidatta cui le fonti attribuiscono una particolare metafora della condizione umana: il dolore che l’uomo sperimenta è come il mare in tempesta, il piacere è simile ad un leggero increspamento delle onde, mentre la condizione né di dolore né di piacere è come la bonaccia. Grazie ad Aristippo e al suo indirizzo il piacere diviene il problema filosofico capitale e il tutto accade in non più di un sessantennio (di qui l’arguto titolo di J. Rist, Pleasure, 360-300 b. C.). Pagine molto chiare sono ancora dedicate ad Aristotele; secondo Aristotele (metaph. IX 6) mentre la kinesis non può che esistere nel tempo, l’energeia è una sorta di “completezza” che si compie nell’istante a-temporale (to nyn); per questo motivo i verbi di movimento sono intrinsecamente temporali e temporalizzati (non posso dire “costruisco” e simultaneamente “ho costruito”) mentre i verbi legati all’energeia non necessitano per la loro esplicazione di alcun riferimento al tempo.
Il piacere, come già si evince dal Protreptico, è legato ai verbi dell’energeia e non di kinesis. Solo parzialmente condivisibile, invece, la sezione che Laurenti dedica all’ataraxia epicurea (p. 139) collegandola de iure alla aochlesia/alypia di Speusippo, all’athambie di Democrito e all’akataplexia di Nausifane; l’assenza di turbamento in Epicuro non è come la bonaccia di Aristippo Metrodidatta o l’aochlesia di Speusippo, ossia assenza di piacere o dolore, ma si configura come piacere, ovvero come assenza di dolore (tarache = turbamento, quindi dolore; ataraxia = piacere). Un cospicuo contributo è poi dedicato alla presenza di Omero in Aristotele e nell’Anonimo autore del de sublimitate (Omero in Aristotele e nell’Anonimo pp. 143-173). Sebbene secondo l’Index Aristotelicus di Bonitz il filosofo più citato da Aristotele sia Empedocle, anche Omero ricopre un ruolo di primo ordine nella produzione aristotelica. Certamente l’immagine di Omero che si deduce da Aristotele non concorda con quella presentata dall’Anonimo; Omero è riconosciuto da entrambi come fonte imprescindibile (si pensi agli sviluppi della critica omerica – già tuttavia ben radicata in Anassagora e Metrodoro di Chio – in età alessandrina e in Porfirio), ciononostante, mentre per l’Anonimo la poesia omerica proprio per la sua tensione verso l’incredibile e il meraviglioso è la sorgente del sublime poetico, Aristotele è convinto che anche nella poesia l’incredibile e l’illogico debbano essere riportati al credibile e al verosimile (poet. 24). L’Anonimo fa della “meraviglia” il fulcro e il cardine della poesia: non così per Aristotele che pur accetta il meraviglioso limitandolo, però, con il terminus del verosimile. Dopo uno stimolante studio sul significato di “sangue” nella produzione plutarchea (Spunti per lo studio di aima in Plutarco pp. 175-197) dove Laurenti condensa buona parte della medicina greca di età ellenistica e oltre (il tema del sangue, infatti, gli era assai caro, avendolo affrontato anche in Sofocle e in Orazio), non poteva mancare uno degli autori più studiati da Laurenti: Epitteto. Proprio di Epitteto si occupa il saggio successivo (Epitteto e lo scetticismo pp. 199-212) che è la rielaborazione della relazione pronunciata al Convegno su Lo scetticismo antico organizzato dal Centro di studi del pensiero antico del C.N.R. di Roma nel novembre 1980. Di certo il tema dello scetticismo non è così centrale nella filosofia di Epitteto, tuttavia, in due o tre luoghi delle Diatribe il filosofo dedica qualche pagina pros tous Akademaikous (I 5). Secondo Epitteto, considerando che gli scettici eliminano la validità di ogni katalambanein e aisthanesthai, è impossibile intavolare con uno di loro un dialogo fondato su domande e risposte; il problema scettico, pertanto, non si configura solo come un rischio teoretico ma soprattutto morale in quanto negare la verità significa assenza di aidos. A diatr. II 20 Epitteto ritorna sul problema scettico in una sezione significativamente intitolata “contro gli epicurei e gli accademici”; è degno di nota il fatto che il filosofo tenti la confutazione degli accademici sulla base delle “armi” logiche aristoteliche (cfr. infatti anal. pr. II 15). Chi nega la verità di una proposizione particolare affermativa (x) afferma automaticamente la verità della proposizione universale negativa (y); pertanto affermare y significa negare x proprio in virtù di y. Per questo Epitteto accusa il metodo accademico di “semplicismo”: gli accademico non si accorgono che negando x affermano y e affermando y negano x, pertanto non si accorgono «di ammettere implicitamente quel che credono di negare» (p. 206). L’accostamento degli epicurei con gli accademici si fonda sul fatto che entrambi negano le funzioni fondamentali dell’uomo, sebbene gli epicurei non abbiano eliminato i desideri e gli infelici accademici (atalaiporoi akademaikoi) si sforzino di rigettare le loro percezioni sensoriali: ciò significa che la filosofia epicurea e accademica è rischiosa prima moralmente e poi teoreticamente. L’ultimo contributo, il più cospicuo dell’intera raccolta, è dedicato a Il platonismo di Arnobio (pp. 213-267) e rappresenta, ad avviso di chi scrive, una delle più significative ricostruzioni storiche raggiunta da Laurenti. L’Adversus Nationes di Arnobio e la figura stessa di Arnobio sono stati al centro di un ricco dibattito storiografico che, oltre a tentare una plausibile contestualizzazione storica, ha cercato di riflettere più approfonditamente sulla vexatissima quaestio del platonismo/cristianesimo di Arnobio. Il chiaro contributo di Laurenti si occupa specificamente della presenza platonica in Arnobio soprattutto in merito alla sua dottrina dell’anima. Spesso si ritiene che Arnobio sia più platonico o neoplatonico che cristiano (ad esempio per via dei tanto discussi dei minores ammessi da Arnobio), eppure su questo punto Laurenti è categorico nell’affermare il cristianesimo di Arnobio e nel limitarne il platonismo. Ciò chiaramente non significa eliminare del tutto l’influenza di Platone su Arnobio: un’azione del genere sarebbe assurda e priva di fondamento storico considerando che la presenza di Platone insieme a quella di Varrone era indispensabile nell’economia dell’Adversus Nationes. La questione dell’anima è, come è noto, al centro della filosofia di Platone: in essa vi sono interi dialoghi incentrati sulla sua immortalità e comunque accenni all’anima sono presenti nell’intero Corpus Platonicum. Si pensi al Fedone, al Gorgia, al Fedro, alla Repubblica, al Timeo, solo per citarne alcuni. Ora è chiaro che una dottrina così centrale nel filosofo che de iure e de facto più di tutti venne inglobato dalla prima filosofia cristiana non poteva non suscitare interesse e riflessione. Anche Arnobio ne è influenzato, così come Tertulliano che scriverà un de anima, opera questa che da subito raggiungerà una notevole notorietà. Arnobio, assiduo lettore di Platone, trovava proprio nel Fedone – uno dei dialoghi che la vulgata potrebbe considerare il più “cristiano” di tutti – una contraddizione insanabile. Nelle ultime pagine del dialogo, come si sa, Socrate/Platone tratta del mito relativo alla sorte delle anime dopo la morte: alcune anime che nella vita hanno operato infamie e ingiustizie precipitano nel Tartaro. Arnobio a tal proposito (XI 14) si chiede come sia possibile che un’anima immortale ex corporali soliditate privata possa subire punizioni e quindi percepire dolore. Secondo Arnobio ciò che davvero è semplice e immortale non può subire né punizioni né dolori. Per risolvere questo problema Arnobio, spiega Laurenti, teorizza una nozione di anima del tutto ignota al pensiero antico, l’anima mediae qualitatis. Cristo stesso ha insegnato che le anime sono di media qualità; secondo Arnobio (in questo caso fedele al Timeo) il Dio supremo unico e immortale elargisce agli dei minores e agli angeli l’immortalità; l’anima viene creata da divinità di secondo ordine (che hanno ricevuto l’immortalità), pertanto l’anima non è di per sé immortale ma può diventare tale mediante la conoscenza di Dio e la rivelazione di Cristo. Ciò significa che l’anima se non conosce Dio e la sua bontà è condannata necessariamente alla mortalità. Dio/Cristo può rendere immortale ciò che è mortale, per questo la morte apparente è la separazione del corpo dall’anima mentre la morte autentica è l’ignoranza di Dio da parte dell’uomo. Quest’idea dell’anima mediae qualitatis trova degli antecedenti teorici in Taziano, Giustino, Teofilo di Antiochia e particolarmente in Tertulliano che, dovendo giustificare in termini metafisici la parabola di Lazzaro e il ricco (Lc. XVI 22), è costretto ad unificare la corporeità dell’anima con la sua immortalità (il che avrebbe fatto impallidire un platonico). Arnobio, leggendo il passo di Mt. X 28 in cui Cristo mette in guardia i discepoli da colui che può distruggere l’anima e il corpo nella Geenna, segue il medesimo ragionamento con il quale ha contrastato le contraddizioni platoniche nel Fedone: se l’anima può essere distrutta (come dice Cristo) è mortale, se mortale è corporea e quindi generata. Di conseguenza si comprende bene come la dottrina dell’immortalità/incorporeità dell’anima (di matrice genuinamente platonica) sarà un’acquisizione tarda in ambito cristiano; ciò significa che Platone, sebbene venga preso come modello filosofico, sia in realtà contraddetto o, come nel caso di Arnobio, del tutto frainteso, come si può constatare nella disinvolta e semplicistica critica alla dottrina dell’anamnesi. È evidente che il Platone del Fedone non poteva ricadere nella banale contraddizione additata da Arnobio che, tuttavia, rielabora autonomamente e personalmente il materiale platonico riportato in auge dagli ignoti novi viri citati nell’opera. Al di là dei motivi esegetici e specificamente teologici Laurenti individua nella dottrina dell’anima mediae qualitatis un significato filosofico profondissimo, lo stesso che successivamente opporrà mutatis mutandis Agostino ad Origene e al (neo)platonismo metafisico, Lutero ad Erasmo. Una dottrina che vede nell’anima la possibilità della sua immortalità o mortalità a seconda della conoscenza o ignoranza di Cristo presuppone la centralità di Dio e la conseguente mediocrità dell’uomo; certo, all’uomo è dato l’arduo compito della scelta che però è permessa solo dalla rivelazione di Cristo. E questo significato filosofico conduce alla diversità di approccio antropologico fra l’Adversus Nationes di Arnobio e le Divinae Institutiones di Lattanzio, suo discepolo secondo Girolamo (de vir. ill. LXXX); nell’una l’uomo non è superiore agli animali, nell’altra le proprietà umane sono elogiate e stimate grandemente superiori a quelle animali. L’“umanesimo greco” di Lattanzio si contrappone al “pessimismo” arnobiano in cui, forse, non è da escludersi una chiara radice semitica.
In conclusione il volume, nato da intenti celebrativi, ha il grande pregio di presentare una preziosa silloge di scritti che dimostrano la chiarezza espositiva, la pluralità degli interessi scientifici e, in particolare, la lucidità del metodo di Renato Laurenti che questa pubblicazione ha contribuito ancora di più a ricordare come uno dei più importanti studiosi italiani del pensiero antico. |