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Pietro Chiodi, Esistenzialismo e filosofia contemporanea , Edizioni della Normale, 2007
di Daniel Catte

Il volume in oggetto raccoglie, a cura di Giuseppe Cambiano (che firma anche la bella Introduzione, pp. 7-45), oltre alla riproduzione del volume Esistenzialismo e fenomenologia (Milano, Edizioni di Comunità 1963), i più importanti tra i saggi, originariamente apparsi in varie riviste («Rivista di filosofia», «Aut Aut», «Archivio di filosofia»), che Pietro Chiodi volle dedicare, tra gli anni cinquanta e gli anni sessanta, alla determinazione del significato storico e teorico di alcune significative vicende di pensiero svoltesi all’interno del mobile orizzonte della contemporaneità filosofica. Dal problema relativo all’essenza del nichilismo a quello circa la ‘natura’ della tecnica, a quello del senso di una possibile ‘connessione’ tra filosofia e storia; dalla questione relativa allo statuto del ‘discorso filosofico’ a quella concernente il senso da attribuire al Denkweg percorso da Martin Heidegger, da quella relativa ai complessi rapporti intrattenuti da quest’ultimo con la fenomenologia husserliana e il gioco delle ‘influenze’ instauratosi  tra l’uno e l’altra, al confronto istituibile, intorno al difficile nodo essere-linguaggio, tra l’autore di Sein und Zeit e quello del Tractatus logico-philosophicus, fino ad arrivare alla discussione intorno al possibile significato di un dialogo tra esistenzialismo e marxismo, passando attraverso le analisi dedicate al concetto di ‘alienazione’ tra idealismo, marxismo ed esistenzialismo: questo, in forma di arida enunciazione, il ventaglio di problemi teorici e storiografici cui Chiodi venne rivolgendo il proprio impegno di interprete, scrivendo pagine che, per la loro forza chiarificatrice di complicati intrecci semantici e per la nettezza e la coerenza delle tesi proposte, meritano ancora di esser lette e meditate.
Ora, se è al lettore esperto che, volendo evitare il rischio di banalizzazione implicito in ogni tentativo di riassumere percorsi concettuali e storiografici complessi e tematicamente diversificati, deve essere affidato il compito di verificare e valutare da sé il valore specifico degli accostamenti tematici e delle proposte interpretative di volta in volta formulate da Chiodi su questo o quell’autore, su questo o quel giro ‘problema’, non sarà inutile, in questa sede, attirare l’attenzione su alcune peculiari modalità del suo ‘metodo’ di lettura dei testi filosofici. Un metodo mosso dalla spiccata esigenza di un confronto teorico con gli autori studiati, che lo portava a volte ad effettuare, come si vedrà, non scontati accostamenti tra pensatori apparentemente anche molto distanti per linguaggi, istanze metodologiche e impianti concettuali, quando, nelle pur diverse prospettazioni e articolazioni di un medesimo nodo teorico, gli appariva lecito e necessario rilevare una più profonda identità di connessione tra i presupposti strutturali e le strutturali conseguenze operanti nelle differenti posizioni prese in esame.
      A tal fine, un significativo esempio, atto a far emergere le peculiari movenze dell’ermeneutica chiodiana, può essere individuato nelle considerazioni svolte nel breve scritto che apre la raccolta, e dedicato a L’essenza del nichilismo (pp. 47-52). Da esse apparirà evidente quanto l’esegesi chiodiana venisse assumendo il profilo di un costante impegno critico, volto all’esercizio di un comprendere costantemente teso nello sforzo di non farsi mai subalterno al proprio ‘oggetto’, ma che anzi veniva ad essere orientato, nel proprio progressivo realizzarsi, da un preciso sfondo di istanze categoriali, ‘criticamente’ impiegate.
In queste poche pagine, dunque, Chiodi prendeva le mosse dal tentativo di delucidare la nozione di nichilismo, nella convinzione che l’equivocità presente nell’uso del termine all’interno del dibattito filosofico-culturale contemporaneo (un’ambiguità tale da determinare un suo impiego in funzione spesso puramente polemico-ideologica, per esempio nell’equazione, da alcuni proposta, tra esistenzialismo e nichilismo), fosse già rintracciabile nel pensatore, Nietzsche, cui era in gran parte attribuibile la fortuna del lemma in questione. Nei confronti della distinzione nietzscheana tra un nichilismo ‘incompiuto’, insorgente dalla crisi della relazione che nella metafisica stringeva in un nesso necessario esistenza e trascendenza del valore, e uno ‘compiuto’, progettato come superamento dell’incompiutezza del primo e costruito sulla volontà di una radicale abolizione del senso stesso della trascendenza – su di una ‘trasvalutazione’ in cui «l’essere stesso del valore subirà un ‘rivolgimento radicale» (p. 48) –, l’analisi di Chiodi si poneva con l’intenzione di mostrare come essa, la distinzione, e il criterio fornito da Nietzsche per teorizzare il transitus tra le due ‘fasi’ del nichilismo (concepito quest’ultimo quale ‘destino’ in cui si troverebbe ineluttabilmente ad essere coinvolta l’intera civiltà dell’Occidente), non fossero ciò che pretendevano di essere. Se, infatti, da una parte, l’‘incompiutezza’ della prima forma di nichilismo risiedeva nella particolare ‘situazione’ consistente nell’impossibilità, da parte dell’esistenza finita – ormai priva dell’antica fede in una trascendenza ontologica capace di garantirne lo stabile radicamento in un ubi consistam e perciò abbandonata alla pura presenzialità del suo non-valer-niente – di attingere il valore; e se, dall’altra parte, la ‘compiutezza’ della seconda forma dell’insorgenza nichilistica non poteva che assumere, nietzscheanamente, il significato di una piena e necessaria coincidenza tra la presenzialità della vita in quanto ‘volontà di potenza’ e il valore in quanto suo immanente autocondizionamento –  cosicché ad essere impossibile sarebbe stata una vita che, in quanto tale, fosse priva di valore –, allora tra le due forme tematizzate da Nietzsche – e da questi messe nella sequenza per cui il compiersi del nichilismo avrebbe dovuto costituire il positivo oltrepassamento della ‘negatività’ intrinseca alla sua forma incompiuta – la differenza si sarebbe rivelata, contro l’apparenza immediata, soltanto una pretesa. E questo perché «alla base dei due nichilismi è una medesima categoria: quella della necessità; un medesimo atteggiamento: quello della impossibilità; un medesimo orizzonte esistenziale: quello della presenzialità. Necessità, impossibilità e presenzialità definiscono il nichilismo come tale. I due nichilismi non sono l’uno negativo e l’altro positivo, ma ambedue, senz’altro, nichilismo nel senso di negativismo radicale» (ivi). A questa analisi di struttura della concezione nietzscheana di nichilismo, Chiodi ne accostava poi un’altra, concernente questa volta la trattazione che del tema era venuto elaborando lo Heidegger posteriore alla Kehre.  Ma nel far ciò il Nostro non si esimeva dal ricordare brevemente (riassumendo il senso dell’interpretazione che aveva formulato in L’esistenzialismo di Heidegger, Torino, 1947) quelli che erano stati, a suo avviso, i tratti essenziali, i risultati e i limiti che avevano caratterizzato il Denkweg heideggeriano prima che esso sfociasse nell’aperta teorizzazione della necessità di una ‘svolta’ in direzione di un seinsgeschichtliche Denken. Scriveva Chiodi: «il primo momento della filosofia heideggeriana si era risolto in un’analisi dell’esistenzialità quale insieme delle strutture caratterizzanti l’essere dell’Esserci umano. Il problema dell’essere era sì, per esplicita dichiarazione, il problema fondamentale; ma l’impostazione che Heidegger aveva dato a questo problema aveva portato alla sua scomposizione in una serie di problemi dell’essere dei singoli enti, fra i quali l’Esserci vantava semplicemente un “rango primario” in virtù dei suoi rapporti particolari col proprio essere. L’analitica dell’essere dell’Esserci confinava quindi apriormente e surrettiziamente l’Esserci nei confini del proprio essere» (p. 50). A scaturire da questa che gli appariva come un’indebita ‘chiusura’, come una ‘riduzione’ della problematica ontologica sul piano di una comprensione dell’essere irrimediabilmente affetta da ‘onticità’, Chiodi faceva derivare gravi conseguenze: la prima era che l’analitica esistenziale così come era impostata in Sein und Zeit finiva per «sospingere l’essere in quanto tale in un’ulteriorità definita dall’impossibilità del suo raggiungimento da parte dell’uomo»; la seconda era che in questo modo essa non poteva che portare  a «contrarre l’Esserci in una immediatezza presenziale per cui i caratteri esistenziali della sua ontologicità si risolvevano nelle determinazioni ontiche della sua effettività [...] Lo sforzo di scindere effettività (Faktizität) e fatticità (Tatsächlichkeit) naufragava e, con esso, l’esistenzialità dell’Esserci. L’effettività diveniva la forma della presenzialità dell’Esserci, come la fatticità la forma della presenzialità di ogni ente difforme dall’Esserci» (ivi). L’ultima parola dell’analitica esistenziale, nel quadro dischiuso di una tale lettura, non poteva che essere l’assunzione dell’impossibilità, lo Sein-zum-Tode,  e nella definizione heideggeriana dell’Esserci come «nullo fondamento di una nullità», così come nella «risoluzione dell’esistenzialità in presenzialità» - che vale quanto dire, in termini modali, risoluzione della possibilità in realtà-necessità – che in essa si esprimeva, si rivelava da ultimo, «in tutta la sua inquietante presenza, il nichilismo» (ivi). Riguardato da questa prospettiva, il pensiero dell’autore di Sein und Zeit poteva essere interpretato come il fallito tentativo di risultare all’altezza, salvaguardandone il senso radicale, di uno dei suoi assunti più essenziali, quello concernente il ‘primato’ del ‘possibile’ sul reale ed espresso dalla celebre ‘formula’ heideggeriana: «Höher als die Wirklichkeit steht die Möglichkeit».
 L’esito ‘nichilistico’ riscontrato dall’esegesi chiodiana nel congegno concettuale dell’analitica esistenziale, lo spingeva a chiedersi se, operata la ‘svolta’ consistente nella ‘traslazione’ del Denken sul piano della Seinsgeschichte, la riflessione di Heidegger fosse stata in grado di realizzare quel radicale oltrepassamento del nichilismo da essa intenzionato. E la risposta suonava drasticamente negativa. Perché? Dopo la Kehre, scriveva Chiodi, «il piano su cui si muove il pensiero non è il piano dell’uomo, ma il piano dell’essere. Non già dell’essere dell’uomo, ma dell’essere in cui l’esistere deve “star dentro”, dell’essere che – Chiodi citava Heidegger – “determina e regge ogni condizione e situazione umana”. L’esser-essere di questo essere è il suo non-esser-nascosto come auto rivelazione nella parola. L’uomo deve assumere e custodire la verità dell’essere, esserne il pastore e non il padrone. Ogni possibilità umana, la stessa possibilità dell’errore è, come tale, una possibilità dell’essere. L’essere è il possibilante assoluto (das Vermögende). Ogni possibilità esistenziale è come tale garantita in quanto necessariamente riportata all’essere» (pp.50-51). E concludeva: «Possibilità e presenzialità coincidono nell’essere come necessità» (p.51). Come Chiodi ebbe modo di scrivere una volta, proprio riferendosi agli esiti da lui ritenuti intrinseci all’impostazione heideggeriana della problematica ontologica, «Diodoro Crono ha trionfato su Kierkegaard» (Cfr. L’ultimo Heidegger, Torino 19693, pp. 33, 35). In questo senso, il ‘pensiero dell’essere’, scrutato nell’obbiettiva scansione dei concetti modali che ne articolavano il senso, lungi dal costituire qualcosa come una radicale alternativa agli esiti imposti alla Daseinsanalyse dalla ‘riduzione’ in essa operante del problema dell’essere, di essa non faceva che riproporre, sul fondamento del ‘necessitarismo ontologico’ parimenti sotteso all’uno e all’altra, gli esiti nichilistici, addirittura potenziati: «se nel primo Heidegger l’ente era necessariamente essere, nel secondo l’essere è necessariamente ente. La presenzialità come necessità riattualizza un nichilismo più radicale del precedente. […] La presenza immediata dell’essere all’esistenza non sottrae quest’ultima al nichilismo, ma le sottrae semplicemente ogni orizzonte di possibile valutazione, di possibile impegno, di possibile responsabilità; ed in primo luogo: l’orizzonte di una possibile discriminazione fra essere e nulla» (ivi). Evidente appare allora come sia in Nietzsche sia in Heidegger ad agire fosse, nel profondo e al di là delle intenzioni, una medesima declinazione del plesso modale, una declinazione che a Chiodi appariva ‘nichilistica’ perché fondata, in ultima e decisiva istanza, sul predominio della categoria di necessità, in radicale alternativa a quella di possibilità. Da questo punto di vista, nichilistica – di quel nichilismo che, autenticamente tematizzato, «si rivela veramente come la grande minaccia incombente sul pensiero contemporaneo» (p. 49) – era «allora ogni filosofia che pon[esse] alla sua base la categoria della necessità» (p. 48), annientando ab imis quella radice trascendentale di ogni libertà che è l’esser-possibile. E nichilistica, in questo senso e nonostante l’apparente paradossalità intrinseca a questo giudizio, «ogni filosofia che pretenda espellere il nulla dalla realtà», ogni filosofia in cui «il non, la nullificazione, il nulla, sono espulsi come irreali, come fittizi, come astratti» e nel cui ambito «l’essere si accampa in una presenzialità – non importa se di natura immediata o dialettica –, nel cui quadro il valore è in ogni caso garantito» (p. 49), come accade, secondo il Nostro, e sempre sul filo di un’acuta paradossalità, in filosofie come quella di Spinoza o in quelle appartenenti al ciclo idealistico, ‘varianti’ radicali del logo spinoziano, o, ancora, nella concezione del linguaggio esposta nel Tractatus di Wittgenstein.
Nella formulazione di questi giudizi Chiodi era mosso, come sottolinea Cambiano, dalla preoccupazione «di lasciare uno spazio, anche se esiguo, all’iniziativa umana, sottraendolo al dominio bruto della attualità e della presenzialità, quale ne fosse la provenienza, l’essere o il mondo» (Introduzione cit. p. 25). Ecco allora che per lui il compito di un’oltrepassamento del nichilismo veniva ad assumere la forma di un tentativo di «fondare la filosofia nell’oltrepassamento della necessità» (p.48, c.n.), e cioè, coerentemente all’inversione semantica realizzata, in quella dinamica di «nullificazione della presenzialità» che, adeguatamente calibrata – ovvero in quanto «nullificazione della necessità come struttura dell’essere» e quindi come ‘possibilizzazione’, e non mera Vernichtung, della presenzialità – avrebbe potuto realizzare l’afferramento teoretico «della realtà nella sua genuina struttura ontologica: la possibilità» (p. 49). Solamente una tale calibratura del discorso ontologico, infatti, avrebbe consentito di parlare sensatamente di qualcosa «come una normatività ontologico-esistenziale» – inteso il valore come «l’orizzonte ontologico della possibilità dell’esistenza», come il poter-valere del suo trascendersi progettante –, perché «dove la realtà coincide con la presenzialità e quindi con la necessità non c’è posto per l’essere impresenziale del dover-essere […] e quindi per l’oltrepassamento del nichilismo» (pp. 51-52) E sulla base di una tale prospettazione critica del problema e della sua soluzione, appariva coerente anche l’appassionata conclusione: «La dignità umana non riposa – come vuole Heidegger – nell’assunzione d’un presunto essere necessario, ma, all’opposto – come disse Schiller – nelle nostre mani. Esso si solleverà o si annichilirà con noi» (p. 52).
 Nelle pagine di questo breve ma assai denso saggio, pubblicato nel 1953 – che abbiamo voluto citare con una qualche ampiezza proprio per la sua esemplarità – sono presenti alcuni dei tratti più significativi dell’ermeneutica chiodiana, sia dal punto di vista dello ‘stile’ dell’analisi, sia da quello dei nodi categoriali chiamati sul proscenio del discorso a decidere della praticabilità di una proposta teorica, tratti che sarà dato ritrovare in tutti i saggi raccolti in questo volume, come d’altronde negli altri lavori pubblicati da Chiodi, e che individuano la fisionomia di uno studioso che nel leggere e interpretare i documenti in cui il pensiero lascia traccia di sé, non si esime da un confronto in prima persona con le istanze da essi emergenti.
    In queste pagine, dunque, ad emergere è innanzitutto l’esigenza di una scrupolosa chiarificazione semantica dei filosofemi di volta in volta tolti ad oggetto di analisi, unita all’esercizio di una ‘riduzione’ dei termini e dei problemi alla specifica intelaiatura categoriale in essi immanente. L’analisi filosofica, assunta nella sua irriducibile specificità nei confronti delle altre modalità di ‘discorso’ (scientifico, comune, estetico etc.) che costituiscono il piano linguistico della storicità dell’esistenza, era concepita infatti da Chiodi come analisi critica di schemi ricorrenti di connessione e di argomentazione, come individuazione di quei ‘luoghi’ strutturali rintracciabili come costanti nel pur vario atteggiarsi delle formulazioni teoriche di una questione, e la messa in rilievo dei quali si poneva come fondamento di possibilità di un loro confronto. Particolare rilievo, tra i ‘luoghi’ di cui parlava, assumevano poi i ‘luoghi modali’, nei quali si ‘decideva’ del senso da attribuire alle categorie modali e al loro intreccio.
Con l’assunzione, poi, della ‘possibilità’ come concetto cardine di una filosofia ‘dal punto di vista del finito’, il problema dell’essere trovava la propria genuina configurazione nei termini del rapporto problematico tra ente ed essere, in cui secondo Chiodi poteva trovare adeguata soddisfazione l’esigenza di salvaguardare tanto la struttura costitutivamente relazionale dell’esistenza – il suo libero poter-trascendere il presente ogni volta dato in vista di un progetto autonomamente, anche se sempre condizionatamente, delineato e assunto, negando sempre di nuovo la sua pretesa interpretabilità in termini di inoltrepassabile datità – quanto il  carattere processuale e imprevedibile delle sue concrete realizzazioni, alla radice delle quali lo sguardo filosofico avrebbe sempre dovuto saper cogliere la loro ‘provenienza’, in nessun modo garantita, dall’originario esser-possibile che ne costituisce l’orizzonte, esso sì, intrascendibile. Il maggiore sforzo teorico messo in atto da Chiodi, infatti, riguardava proprio il senso da attribuire alla categoria di possibilità. Tanto che lo smarrimento del senso del ‘possibile’, mediante una sua subordinazione al ‘reale’ o al ‘necessario’, rappresentava per lui il rischio supremo cui poteva andare incontro l’esperienza filosofica, quando non avesse saputo ‘liberarsi’ dalla pretesa metafisica di declinare la ricerca del fondamento nei termini della ricerca di una ‘realtà incondizionata’ (l’Io, il mondo, Dio), inevitabilmente destinata a rendere impensabile quella ‘totalità condizionata’, formula nella quale per Chiodi trovava adeguata espressione la struttura del ‘mondo umano’, da lui indicato quale ‘campo’ del ‘discorso filosofico («Il campo del discorso filosofico deve […] avere la struttura di totalità condizionata. Nulla gli è a priori estraneo; la ‘totalità’ della realtà deve poter cadere in esso, ma secondo il suo condizionamento originario» Filosofia e discorso, p. 143). Per realizzare questa ‘liberazione’, e svolgere così il proprio compito ‘critico’, sarebbe stato necessario imparare ancora dalla ‘lezione’ kantiana sul fondamento: «Una realtà assolutamente incondizionata è una realtà riposante unicamente in se stessa, nella propria ‘presenzialità’ irrelativa. Come può fondare il molteplice delle possibilità condizionate?  Unicamente investendole del proprio fondamento. Ma il fondamento della realtà assolutamente incondizionata è la presenzialità del non-poter-non, della necessità. La ‘realtà’ fonda la ‘possibilità’ trasferendo nella possibilità la necessità della propria presenzialità. La possibilità è fondata in quanto è ricondotta al non-poter-non della presenzialità, alla necessità come coincidenza di presenzialità e validità. Lo svolgimento storico delle possibilità è ‘fondato’ in quanto è riportato alla necessità della sua derivazione dall’incondizionata presenzialità. Di qui l’obbiezione idealistica che Kant non aveva fondato le categorie nella necessità della loro derivazione da un unico principio. Kant non poteva farlo perché tutto il suo discorso era disciplinato dal ‘luogo’ opposto a quello idealistico. In nessun caso per Kant una realtà assolutamente incondizionata avrebbe potuto stabilire condizioni di validità in virtù della propria presenzialità necessaria. L’assolutamente incondizionato era per lui il “vero baratro della ragione umana”, la “condizione impossibile di ogni validità”» (p. 150). La personale valorizzazione che Chiodi operò dei ‘risultati’ della dialettica kantiana, oltreché del ‘tema’ kantiano concernente il senso del dedurre in prospettiva trascendentale (cui il Nostro dedicò sistematicamente le sue energie in un famoso e importante saggio del 1961), approdavano così al tentativo di rimodulare il senso del fondamento a partire da un’adeguata determinazione della categoria di possibilità. All’equazione metafisica tra fondamento e necessità, infatti, il Nostro opponeva l’alternativa ‘kierkegaardiana’ per la quale il nesso possibilità-fondamento veniva prospettato nel suo carattere propriamente ‘esistenziale’: «Che il fondamento sia una possibilità significa prima di tutto che il fondamento non costituisce un ordine, una struttura tale che la sua natura di fondamento lo ponga al riparo dal fallimento. E ciò perché la natura di fondamento del fondamento non è essenza ma esistenza» (Esistenzialismo e fenomenologia, p. 285). L’essere-nel-mondo in quanto struttura relazionale identica al modo d’essere proprio dell’ente umano, nel cui spazio si disponevano i poli del rapporto intenzionale tra coscienza e oggetto, esistenza e mondo, assumeva così il profilo di una relazione fondatrice costitutivamente sospesa alla possibilità radicale del proprio stesso non-esserci, di una struttura i cui ‘elementi’ non si trovavano a possedere, come scriveva Chiodi, «il carattere di realtà precostituite nella propria essenza, bensì quello di possibilità, rispetto a cui la realizzazione della loro essenza costituisce il termine finale d’una progettazione aperta» (Esistenzialismo e fenomenologia, p. 287).  Fondamento, dunque, come possibilità condizionante ma inevitabilmente condizionata, la cui peculiare necessità non esprimeva più «il non-poter-non-essere dei termini della relazione» ma «il dover esser possibile di una relazione, a certe condizioni», «il dover-poter-essere [si noti la eco kantiana] di un processo, in cui la relazione vale come progetto storicamente controllabile e ripetibile» (ivi). Mentre veniva così kantianamente abbandonata alle secche dell’aporia la pretesa metafisica dell’incondizionato, la ‘necessità’ che in questo quadro continuava a esser nominata, non era se non l’espressione per la richiesta di un fondamento, e cioè il suo dover-poter-essere dal punto di vista di quell’iniziativa ordinatrice attivata dalla decisione umana di progettare l’orizzonte assiologico nel quale poter inscrivere la propria storia; una richiesta che, proprio perché tale, poteva andare incontro alla propria radicale smentita, nella consapevolezza, che spettava alla filosofia di attivare, che un tale ‘esigere’ «non può mai concludersi con l’esibizione d’una realtà fondatrice, che permetta all’uomo di affidare a qualcosa di impersonale – in sé o fuori di sé – la persistenza di fondamento della vicenda umana, individuale e collettiva» (ivi).

     Se ci si domanda ora quale fosse, in un orizzonte concettuale così costituito, il ruolo del ‘discorso filosofico’, si dovrà rispondere che esso veniva in ultima analisi a coincidere, nella sua funzione simultaneamente critica e costruttiva, con quel ‘luogo modale trascendentale’ in cui, secondo il Nostro, si esprimeva «il senso ultimo della filosofia», indicato nell’essere quest’ultima, – nonché discorso ontologicamente privilegiato e per questo gerarchicamente preordinato agli altri –, soltanto «un certo tipo di discorso il cui senso è definito dalla chiarezza circa il discorso stesso, la sua struttura, i suoi orizzonti possibilitanti. Il senso del discorso filosofico è dunque null’altro che il senso del senso degli universi linguistici determinanti una certa situazione storica» (Il discorso filosofico, p. 95). Esso, infatti, «non mette capo a ‘realtà’ soggettive o oggettive, ma progetta una situazione storica come orizzonte di compiti interumani, ossia prospetta il consenso intersoggettivo intorno al senso richiesto all’uomo dal dover essere all’altezza di una certa situazione, dall’ ‘essere libero per’» (p. 96). Concludeva Chiodi: «il senso ultimo della filosofia è in realtà quello di tenere costantemente aperto il discorso, cioè di realizzare la possibilità di discorso e di trasmetterne intatta la dimensione istitutiva. Il senso del senso è la libertà della libertà; non può quindi metter capo alla individuazione di caratteri o situazioni per cui valga il motto di Wittgenstein: “non pensare, guarda”. La filosofia è invece un guardare pensando o pensare guardando. E’ un guardare alla ‘realtà’ pensando alla possibilità. Ogni senso è un ordine possibile e la filosofia è appello alla possibilità dell’ordine. Ma la possibilità d’un ordine è un progetto in cui la storicità umana affronta il rischio della situazione storica. Non diremo dunque la filosofia “sentinella dell’essere” ma istitutrice dell’uomo e sentinella della sua libertà» (ivi). A risuonare, in quest’ultima presa di posizione chiodiana, erano le note di quella costante polemica nei confronti dello Heidegger post Kehre, cui il Nostro imputava derive hegeliane e neoplatoniche, quando non addirittura romantiche, mistiche e, come abbiamo visto, nichilistiche, e che a Chiodi apparivano inaccettabili, in quanto nell’orizzonte concettuale da esse dischiuso, come sottolinea Cambiano, risultava per principio esclusa «ogni considerazione della storia come ordine problematico e come impegno del finito in essa» (Introduzione cit., p. 16).      

     L’emergere, nelle pagine di Chiodi, delle nozioni di «impegno» e di «responsabilità», e il tentativo di ‘fondare’, mediante la ‘deduzione’ della possibilità-libertà come autentica modalità dell’esistere costitutivo dell’ente finito, lo spazio logico-ontologico per un loro sempre e soltanto possibile accadimento, è rivelativo della curvatura ‘umanistica’, ‘positiva’ del suo esistenzialismo, appreso, nel decisivo giro dei suoi Lehrjahre, alla scuola di Nicola Abbagnano. ‘Positivo’ e ‘umanistico’, questo esistenzialismo aspirava ad essere perché, accanto ai temi della radicale finitudine, condizionatezza e problematicità della progettualità umana nella sua intrascendibile storicità, forte era, in esso, l’esigenza di liberare quello che gli appariva essere l’imprescindibile valore antimetafisico, e, in questo senso, ‘demistificatorio’, di quei Grundbegriffe, dal rischio di una loro declinazione in termini di ‘annullamento’ – attraverso l’indebita prospettazione delle modalità deiettive della humana conditio sul piano della necessità ontologica – delle potenzialità istitutrici, e trasformatrici, dell’operare teorico-pratico in cui si esprime la costitutiva storicità dell’ente umano. Un ente sempre rimesso, necessariamente rimesso perché finito, al compito di elaborare sempre di nuovo la libera connessione delle possibilità di volta in volta date, nell’unità, soltanto possibile, di un senso non originariamente dato ma liberamente progettato come valore.
 E’ così che, come accadeva nell’elaborazione, prodotta da Abbagnano, concernente l’esistenza e la sua struttura e, in forme diverse, anche nelle letture esistenzialistiche di un Luporini o di un Pareyson, l’istanza assiologico-normativa veniva a rivestire, in Chiodi, un ruolo assolutamente centrale, in risposta a quella che a lui, come agli altri autori citati, appariva la ricaduta eticamente ‘neutrale’ ascrivibile ad alcune impostazioni, e alle relative implicazioni, proprie della cosiddetta Existenzphilosophie (cfr., per i rimandi essenziali, l’Introduzione cit., p. 13 n. 18), alle cui istanze fondamentali essi erano comunque disposti a riconoscere la capacità di rendere possibile la realizzazione di quella (spesso non meglio definita) istanza di ‘concretezza’ che appariva di contro negata nella Aufhebung hegeliana del ‘finito’ nel ritmo necessario dispiegato dalla sequenza logico-ontologica dell’Assoluto dialettico.
Concludendo questa breve presentazione, può dirsi che alla originaria ispirazione ‘esistenzialistica’ del suo pensiero, e alla connessa critica della filosofia come semplice ostensione dell’ ‘incondizionato’, Chiodi rimarrà sempre sostanzialmente fedele. Da essa, declinata nei termini di una ‘filosofia della libertà’ e di una ‘filosofia critica della storia’, farà sempre  guidare i propri passi, quando, attraverso la riflessione (sollecitata dalla ripresa critica che Enzo Paci ne venne facendo) sul pensiero dello Husserl tardo o inedito (quello, per intenderci, concentrato sull’elaborazione della nozione di Lebenswelt e sull’idea di una ‘teleologia della ragione’) andrà alla ricerca di un positivo incontro tra fenomenologia ed esistenzialismo a partire dal tentativo di determinare il senso genuino della ‘relazione intenzionale’ e del connesso tema della ‘riduzione’, nel tentativo di dar voce a una ‘nuova teoria della ragione’; o quando, in particolare a proposito del concetto di ‘alienazione’, riconoscerà al marxismo – depurato dai dogmatismi di certi suoi interpreti e rappresentanti –  il merito di aver fornito un contributo essenziale alla comprensione della ‘struttura dell’esistenza’ nell’integralità della sua costituzione storico-materiale, e non puramente ‘coscienziale’. Quell’istanza kierkegaardiana del ‘possibile’, che egli aveva visto ‘tradita’ da colui che tuttavia più di tutti gli altri aveva contribuito a disegnarne la centralità speculativa nell’orizzonte del pensiero contemporaneo, rimase per lui fino all’ultimo l’istanza decisiva, il ‘tema’ alla stregua del quale misurare la capacità di una qualsiasi filosofia di scongiurare il dissolvimento dell’umana ‘iniziativa’, e della sua rischiosa libertà, nel ‘destino’ di un’indifferente necessità, e in cui a riflettersi era la cifra essenziale di una testimonianza di pensiero che aspirava a configurarsi, nel proprio disciplinato e sobrio esercizio, come la critica salvaguardia della vigile responsabilità dell’uomo, come il tentativo di tenere aperto un praticabile margine di razionalità all’umanistica passione per le sorti dell’ente finito.

PUBBLICATO IL : 26-02-2008
@ SCRIVI A Daniel Catte