Nel gennaio del 1903 otto ampi fogli di carta a mano di Fabriano dall’eccentrica veste grafica irrompono ‘iniziaticamente’ sulla scena filosofica italiana. Si tratta di una rivista dal nome augurale di «Leonardo» (L) costituita da «un gruppo di giovini, desiderosi di liberazione, vogliosi di universalità, anelanti ad una superior vita intellettuale [che] si son raccolti in Firenze (…).» (L, I, 4gen., 1903). Questa, che per Giovanni Papini –suo principale ideatore- doveva essere «la cartuccia delle troppo attese demolizioni, il getto e lo zampillo arcobalenante dei pensieri più temerari»(G. Papini, un uomo finito, Ponte alle Grazie, Firenze, 1994, p.73), fu impresa tanto esuberante quanto effimera. Solo cinque anni dopo sotto i colpi della sua eterogeneità e inconcludenza interna ben ammantata, però, dall’eroica veste di una kalos thanatos, la rivista chiude i battenti: «Il Leonardo nostro, quello che tutti conoscono odiano o amano, scompare oggi per nostra volontà e per sempre[…]. Il Leonardo è costretto a sparire perché troppi si interessavan di noi» (L, XXV, ago., 1907, pp.258-259). Tuttavia il fenomeno fiorentino, involuto nella paralisi da eclettismo, è stato per certi aspetti una eco, a tratti feconda, di un movimento di portata ben più vasta come il pragmatismo americano di matrice jamesiana e peirceana. È sotto questa direttrice che il volume in oggetto, pubblicato per i tipi di Alboversorio nella collana Pragmata diretta da Carlo Sini, si propone di indagare i ‘pensieri’ dei leonardiani. Per i curatori del libro uno studio sul Pragmatismo italiano si inscrive nell’utilità che ancora ai nostri giorni il pragmatismo suggerirebbe come «alternativa filosofica capace di conservare allo stesso tempo le esigenze di precisione proprie del pensiero analitico e quelle di totalità di significato tipiche del pensiero ermeneutico» (p.14). Come ricorda l’introduzione di G.Maddalena e G.Tuzet, la raccolta di questi tredici saggi, certamente senza pretese esaustive, si configura come uno tra rari contributi di studiosi di pragmatismo, italiani e stranieri, che si sono dedicati a tale ricerca in quanto pragmatisti. Si tratta, infatti, di un primo esito dell’attività dell’Associazione Pragma volta allo studio delle tematiche pragmatiste, sorta ad opera di R.M. Calcaterra, C.Sini, R.Fabbrichesi e G.Maddalena nella rete dei dipartimenti di filosofia di Roma Tre, Milano, e dell’Università del Molise.
Gli autori dei saggi, a più di un secolo di distanza dal fenomeno-meteora, tentano una rivalutazione del «Leonardo» come espressione feconda, poliedrica e tutta italiana di una messa in crisi del positivismo sotto i colpi di un forte anti-intellettualismo. Come ravvisava Ugo Spirito nella prefazione de Il pragmatismo nella filosofia contemporanea (Firenze, 1921), il carattere anti-intellettualistico è l’aspetto in cui risiede tutta la forza e allo stesso tempo tutta la debolezza della breve stagione pragmatista. La riconduzione della verità entro l’orizzonte umano della contingenza, il monito verso l’individualità radicale, tanto cara alla propaggine papiniana e prezzoliniana, il ricorso ad una equipollenza di cognizione e azione, capace di trasmutare il mondo e svegliare la narcotizzata cultura italiana, con audace stile espositivo si fanno largo su un terreno che ben presto rivelerà tutta la sua debolezza e la mancanza di una compattezza teoretica di fondo. Questo aspetto spiega al contempo il disinteresse storiografico e la facilità con la quale la critica ha potuto imputare al movimento fiorentino un’identità più forte solo a posteriori, come triste presagio delle successive ideologie novecentesche a cavallo tra le due guerre. Ad inserire il «Leonardo» e la sua principale figura catalizzatrice, Papini, nella casella dell’irrazionalismo protonovecentesco non si sottrasse Croce che nel 1927 vi ravvisava uno dei riflessi di un «torbido stato d’animo, tra avidità di godimenti, spirito di avventure e conquiste, frenetica smania di potenza, irrequietezza e insieme disaffezione e indifferenza, com’è proprio di chi vive fuori centro, fuori di quel centro che è per l’uomo la coscienza etica e religiosa.» (B.Croce, Storia d’Italia dal 1871-1915, Laterza, Bari, 1977, p.229). L’incapacità di connotare una vera e propria ragione di vivere per far largo ad una volontà ingenua a cui verrebbe a mancare il terreno sotto i piedi, è la critica tradizionale, largamente condivisa, che fa del pragmatismo, soprattutto jamesiano, un rovente bersaglio. Tuttavia, sulla scorta degli intensi studi che negli ultimi quarant’anni hanno reso possibile la pubblicazione dell’opera omnia di W.James e J. Dewey, e la catalogazione e pubblicazione dei manoscritti peirceiani, l’atteggiamento attuale riapre la riflessione sulla stagione pragmatista tentando di ponderare con più attenzione l’eventuale originalità della ricezione italiana e se sia lecito riscontrarne una unità di fondo.
Dalla complessiva lettura dei saggi la consueta interpretazione che farebbe della schiera Papini-Prezzolini il riflesso del pragmatismo jamesiano e di quella Vailati-Calderoni il riflesso del pragmatismo peirceano, risulta pressoché condivisa, sebbene non manchino, soprattutto in sede introduttiva, accenni alla cruciale amicizia di Gian Falco, pseudonimo di Papini nella rivista, con il logico Vailati e il parziale accordo, almeno in una prima fase, tra l’impostazione metodologica di S.C.Peirce e l’ampliamento in chiave psicologica della stessa da parte di W. James.
Il primo saggio, Giovanni Vailati e l’arte di ragionare di G.Maddalena, ricercatore di filosofia teoretica presso l’Università del Molise, indaga i luoghi comuni che si sarebbero cristallizzati intorno alla figura di Vailati, riscontrandone criticamente la valenza senza per questo minarli del tutto alla radice. Il filosofo italiano, allievo di Peano, per sua stessa formazione vicino a Peirce nella condivisione del metodo e nel riconoscimento del potere euristico della deduzione, si sarebbe rivolto alla psicologia di brentaniana memoria per dirimere la domanda sulla scelta dei postulati, rompendo la presunta non comunicabilità del filosofo cremasco con il cosiddetto pragmatismo “cattivo” à la James. In direzione storiograficamente più ortodossa si profila il saggio successivo di Susanna Marietti: Grammatica algebrica, grammatica geometrica: Vailati e Peirce. Il contributo di questa studiosa verte sulla valenza del segno algebrico nei due autori, avvistando nel filosofo americano l’attribuzione di un valore iconico e “diagrammatico” al segno matematico che nel filosofo italiano verrebbe a mancare.
Uno dei saggi più interessanti per le questioni proposte e per la sua strutturazione è quello dell’altro curatore del libro, G.Tuzet, docente di Filosofia del diritto presso l’Università Bocconi di Milano, dal titolo: Ha senso fare previsioni normative? Pragmatismo ed etica in Calderoni. A questa domanda Tuzet cerca di rispondere tracciando un percorso che da Peirce, passando per il giudice Holmes, giunge a Calderoni. Lo stigma del pragmatismo americano, legato alla celebre massima peirceana secondo cui «il significato di un concetto è nei suoi effetti concepibili e praticamente rilevanti»(p.54), viene messo in crisi nel momento in cui si tenta di applicare tale massima a concetti normativi. La teoria predittiva del diritto di Holmes (1841-1935) è piuttosto vicina alla massima pragmatista del Peirce. Il giurista, non diretto esponente del pragmatismo, ma certamente espressione di tale temperie, affermava che il diritto non sia ravvisabile in altro che nella predizione di ciò che le corti decideranno in merito al reato commesso. Tuttavia, il diritto consiste di prescrizioni e non di previsioni, infatti non si può ridurre l’avere un obbligo alla previsione della sanzione. Se si vuole mantenere l’applicazione della massima pragmatista in campo etico ne viene l’impossibilità di catturare le conseguenze normative in quanto tali, ma quelle rilevabili dalle decisioni delle corti. Di conseguenza, in Holmes viene effettuata una problematica quanto inaccettabile riduzione della dimensione normativa (le massime) del diritto a quella fattuale ed empiricamente individuabile delle decisioni giuridiche. Calderoni, consapevole dell’eterogeneità del pensiero dei pragmatisti italiani (cfr Le varietà del pragmatismo, L, XIV, novembre 1904; Variazioni sul pragmatismo, L, XV, febbraio 1905), propone la sua via personale. Dal momento che a determinati concetti corrispondono certe aspettative, tutte le nostre credenze formate da concetti così definiti consistono in previsioni o aspettative. Fin qui, forse con un’enfasi più marcata, non emerge nulla di nuovo, salvo considerare il prosieguo della proposta di Calderoni. Egli estende il piano d’applicazione del pragmatismo all’etica. Il problema inizia a porsi a partire dalla venuta meno del consenso nell’uso di tale parola. Dai «casi difficili»(p.61) nasce la domanda sul senso precipuo della morale o del diritto, ma tale domanda non può non tessersi attorno alla declinazione storica che empiricamente la tal parola ha indicato. Presupposto di questa posizione è l’impossibilità, anche per la filosofia, di giungere ad una forma ideale del concetto, indipendente dal suo darsi, proprio come «il presupposto di ogni viaggio è non essere ancora arrivati» (L, XVIII, ottobre-dicembre 1905, p.204). Su questo sfondo Calderoni prospetta un’etica descrittiva che si limiti a prevedere le scelte degli uomini sulla base delle loro abitudini. Non c’è alcuna pretesa di indicare i fini, sebbene se ne riconosca la necessità, poiché non è possibile deliberare razionalmente sui fini, ma solo sui mezzi. La strategia di Calderoni si basa sulla possibilità di spiegare la formazione delle abitudini e delle attitudini morali tramite gli strumenti forniti dall’economia. Qui si innesta un tema estremamente discutibile, se non inaccettabile, contenuto in uno scritto del 1906 Disarmonie economiche e disarmonie morali secondo cui molte qualità morali cesserebbero di essere tali se fossero realmente seguite da tutti. Il filosofo ferrarese opera nuovamente la riduzione del normativo al fattuale, pur nella pallida consapevolezza che non tutte le norme possono derivare da credenze. Calderoni considera la volontà un effetto di credenze, poiché è proprio a partire dalla credenza nella previsione delle conseguenze dei nostri possibili atti che la volontà ne indirizza con la sua azione lo svolgimento. La norma si comprende, dunque, in virtù delle conseguenze fattuali della medesima. Tale riduzione da molti ritenuta implausibile, è il perno su cui ruota il tentativo di Calderoni. Per aggirare un indebito riduzionismo, Tuzet rifiuta un’applicazione della massima pragmatica alle norme per spostarla alle credenze sull’obbligatorietà delle norme. Le previsione normative, se non hanno senso a scopo definitorio negli stretti riguardi della norma (concetti morali), lo hanno a fini conoscitivi, e cioè allo scopo di sapere che cosa probabilmente accadrà in base all’applicazione o meno di certe norme.
I tre saggi successivi ad opera dei docenti americani Paul Colella, Vincent Colapietro e Cornelis De Waal, si soffermano intorno alla questione, principalmente dibattuta da Prezzolini e Calderoni, su cosa debba intendersi per pragmatismo. Il saggio di Colella, già apparso insieme a quello di Colapietro in «Transactions of the Charles Sanders Peirce Society», XXX/4, 1994, descrive la disputa interna al «Leonardo» fino al suo momento conclusivo nel numero dell’aprile 1905. Calderoni ritiene che il vero pragmatismo sia stato distorto dai difensori della “Volontà di Credere” a cui Prezzolini, dopo aver abbracciato la filosofia di Bergson e l’umanismo di F.C.S.Schiller, approda. Questa fazione si sarebbe allontanata dalla massima pragmatica conferendo al volere un peso troppo grande rispetto alle credenze. Le risposte di Prezzolini viaggiano su correnti “conciliariste” che lo stesso Peirce non smentisce nei confronti di James. Dopo il V Congresso internazionale di psicologia tenutosi a Roma nel 1905, occasione di incontro tra i pragmatisti italiani e W. James, i leonardiani sembrano tesi alla risoluzione della disputa che avverrà puntualmente con il contributo di Papini firmato “the Florence Pragmatist Club” dal titolo Pragmatismo messo in ordine (L, XVI, aprile, 1905). Qui si sancirà il Pragmatismo come “metodo” e la famosa teoria-corridoio. Di lì a poco il Pragmatismo italiano sarebbe rapidamente tramontato a dimostrazione della fragilità e frammentazione teoretica del loro pensiero: Prezzolini si sarebbe rivolto all’idealismo crociano e Calderoni sarebbe scomparso poco dopo a soli trentacinque anni. Il saggio di Colapietro riscontra in quello di Colella una scarsa attenzione nei confronti della peculiarità sociale, tutta italiana, che avrebbe investito le polemiche interne al Leonardo. «L’opposizione di Papini e Prezzolini al materialismo e al positivismo è un unicum con la loro opposizione al socialismo» (p. 102) e la forma di pragmatismo da loro sostenuta fu uno strumento d’azione per risvegliare l’Italia dal suo sonno culturale identificato con la cultura borghese e il socialismo. Una tale opposizione finì per svolgere un’involontaria campagna pubblicitaria per il fascismo. La tensione verso l’Uomo-dio, l’irrefrenabile lotta per la liberazione delle forze creatrici nell’uomo, comportava un conseguente assalto ad ogni idea di “limite”. Il senso della “finitezza”, la lucida consapevolezza dei propri confini, spesso ha svolto la funzione di ammonimento contro l’assolutizzazione del potere di contro ad un’elevazione della volontà umana fino all’illimitato, triste indizio di duri tempi a venire. Questa sorta di «forma degenerata di entusiasmo jamesiano»(p.109) è lo scoglio contro cui volle scontrarsi Calderoni, e riflette le riserve peirceane che lo studioso di oggi nutre rispetto a troppo scoppiettanti quadri di esaltazione di Gian Falco e Giuliano il Sofista (Prezzolini). Il saggio di De Waal sfrutta la divisione italiana tra “maghi” e “logici”, per rileggere la differente atmosfera pragmatista tra James e Peirce, ancora una volta mettendo in luce l’originalità della ricezione italiana in dialogo con H. Bergson e l’inglese F.C.S. Schiller.
Il contributo di Maria Teresa Russo, Dolore, credenze, azione: Papini e il dibattito tra psicologia e filosofia nell’Italia di inizio ‘900, muove dall’incontro, esemplarmente rappresentato dal pragmatismo, di filosofia e psicologia agli inizi del XX secolo. Firenze, polo di fermento della questione insieme a Napoli, vedrà sorgere uno dei primi laboratori di psicologia della penisola e sarà scenario di un’interessante disputa tra Papini e il suo amico psicologo Regàlia. In un primo momento Gian Falco è teso a dimostrare una sua legge secondo cui la previsione è il fine ultimo della costruzione psichica, successivamente, invece, l’attenzione si volge alla volontà, e dunque all’azione come manifestazione di vita creativa. Egli è interessato alla frontiera dell’inconscio ed alimenta tale ricerca anche con una certa simpatia per i fenomeni occulti. Regàlia aveva elaborato una legge secondo la quale il dolore è l’antecedente costante e immediato dell’azione. Il filosofo fiorentino, animato da grande stima per il suo amico psicologo, non si esimerà dal criticarlo nel «Leonardo», ritenendo la sua legge incompleta e certamente non assoluta. Papini continuava ad indicare la pluralità dei moventi dell’azione, annoverando tra questi la volontà. Tutta la disputa riveste un notevole interesse per il rapporto tra conoscenza, emozioni, volontà che è al centro del pragmatismo italiano.
Il saggio successivo di Izaskun Martinez, insieme agli ultimi due di Marta Torregrosa e Antonio Gonzalez, docenti dell’Università di Navarra, si inscrivono all’interno di una ulteriore domanda che la raccolta di saggi qui proposta lascia sottesa: è possibile parlare di una comunità mediterranea di pragmatisti? L’attenzione prestata alla figura di Miguel de Unamuno nel primo articolo e a quella di Eugenio d’Ors negli altri due, lascerebbe intendere di sì. Pur non essendo mai approdato in Spagna, è noto il fascino che la cultura iberica aveva esercitato su Papini. Come emerge dal loro scambio epistolare, poco intenso ma costante, il filosofo fiorentino e Unamuno riponevano talmente tanta fiducia nella forza rappresentata dal pensiero pragmatista, che abbracciarono entrambi l’impresa di trasformazione della cultura dormiente dei loro paesi. Torregrosa ricostruisce brevemente il debito verso il pragmatismo che il filosofo catalano d’Ors contrasse soprattutto con la ricezione fiorentina, mentre Gonzalez con estrema perizia ritrae l’importanza simbolica che la città di Roma rivestì all’interno del pensiero del catalano.
Il saggio di Maria Luisi, Conoscenza ed esperienza nel Leonardo: il rapporto con James e Bergson, punta ad una rivalutazione positiva dell’originalità dei pragmatisti italiani, in particolare di Papini e Prezzolini, nella ricezione di H.Bergson e W.James. L’anti-intellettualismo, la ricerca della creatività e libertà umana, insieme all’esperienza della novità, divincolata per se stessa dalla previsione, sono alcuni dei temi principali che i leonardiani trassero dallo studio della filosofia bergsoniana. A questi aspetti l’incontro con il pensiero jamesiano di matrice psicologica, aggiunse una nuova riformulazione del rapporto tra conoscere e agire, implicati a vicenda dall’esigenza di un possesso più profondo della realtà. Questa miscela diventa il preludio alla comparsa dell’uomo-dio del cosiddetto pragmatismo magico. Come suggerisce l’autrice, la volontà di James si ammanta di concretezza attraverso le vesti dell’intuizione bergsoniana nella cogenza di trasformare, trasmutare, cambiare la realtà. Il motivo propulsore che dirige ad una lettura tutta leonardiana sia di James che di Bergson, risiede, infatti, nella forte repulsa della realtà che non voleva affatto essere accettata così com’era. Questa la cifra generale che segna anche il saggio di S.Franzese: Realismo o umanismo. Il pragmatismo di William James nella lettura di Antonio Aliotta. Lo studiosooffre una lettura critica del pragmatismo italiano attraverso le pagine estremamente accorte di Antonio Aliotta, allievo di De Sarlo, pioniere della psicologia sperimentale in Italia. Il primo approccio di Aliotta al pensiero di James coglie subito il bersaglio, ovvero l’esigenza di definizione della realtà, il rapporto conoscitivo tra soggetto e mondo e il problema della verità. Tuttavia –secondo Franzese- la sua lettura non rende conto fino in fondo della prassi come elemento costituente del processo conoscitivo, e non come semplice controprova di una verità compiuta a livello ideale. La resistenza di Aliotta è forse suggerita dal timore che si possa ammettere una coscienza capace di piegare arbitrariamente il mondo, ma non è certo questo l’esito, se non papiniano, certamente jamesiano dell’attività del soggetto secondo il pragmatismo, che viene attentamente proposto.
Infine il saggio di Anna Maria Nieddu indica negli studi su E. Juvalta una delle strade che indirettamente hanno contribuito all’emersione dal dimenticatoio delle avanguardie filosofiche italiane di inizio ‘900. Vailati e Calderoni, saranno i primi ad esprimersi in toni positivi su Juvalta. La sua proposta logica, sulla scorta di una razionalità pratica individuale, concreta e motivata al perseguimento di ideali e valori, approda in quello che l’autrice chiama kantismo trasfigurato (p.224). Il dovere fine a se stesso e l’obbligo categorico, è in realtà, secondo la lettura juvaltiana, un obbligo sempre ipotetico, che vale solo in relazione alla validità delle ragioni che giustificano la norma. Il filo rosso che lega Vailati e Juvalta è nella difesa di un’autonomia della morale in riferimento ai limiti della razionalità umana.
Il volume si conclude con un’appendice storica curata da Mario Quaranta, esperto studioso di Pragmatismo, che riporta alcuni degli scambi epistolari tra Prezzolini e uno dei filosofi europei più presenti tra le pagine del «Leonardo»: F.C.S.Schiller.
In conclusione rileviamo che la stessa modalità composita e plurivoca del testo in oggetto, ci induce a riflettere su un fenomeno, a torto o a ragione, tanto dimenticato, con la medesima inafferrabilità che, in fondo, lo stesso Papini rivendicava al suo indirizzo di pensiero (cfr. Introduzione al pragmatismo, in L, XXIII, febb. 1907). Un multiverso riecheggiare di voci non solo italiane, che ci introducono in alcune delle questioni principali che videro per protagonisti alcuni dei nostri irrequieti filosofi agli inizi di un secolo difficile come il Novecento, e che seppero farsi conoscere non solo in Europa ma persino oltreoceano. |