Siamo purtroppo abituati a pensare che l’enigmatica questione del tempo abbia affascinato esclusivamente le menti dei filosofi e dei fisici; il volume della Zaccaria Ruggiu dimostra come il tempo in realtà sia anche una problematica archeologica o, per meglio dire, di “ermeneutica archeologica”. Il dato archeologico, infatti, non solo testimonia apertamente come dietro le arti figurative del mondo antico – da quella musiva a quella plastica – si nascondano profondi dibattiti filosofici sulla natura del tempo ma anche che non è bene parlare del tempo in modo univoco: per dirla con Aristotele, pollachos legetai, anche il tempo si dice in molti modi. Il mondo antico greco e romano ha fornito la prima seria e motivata riflessione sulle forme del tempo, ossia sulle modalità di declinazione di un concetto apparentemente “monocorde” e unilaterale. Il volume della Zaccaria Ruggiu si propone proprio di considerare le forme antiche del tempo alla luce del dato archeologico che spesso è più chiaro, efficace e immediato di un trattato filosofico peri chronou, ma non per questo più banale.
Annapaola Zaccaria Ruggiu insegna Archeologia e Storia dell’arte greca e romana presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia; si è occupata del tema del tempo già nell’Appendice al volume curato da L. Ruggiu Filosofia del tempo (Milano 1998) dove nel saggio Aion Chronos Kairos. L’immagine del tempo nel mondo greco e romano (pp. 293-343) si interessa delle modalità rappresentative del concetto sempre molteplice o meglio tripartito del tempo nelle arti figurative dell’antichità classica ed ellenistica.
Davvero sterminati sono gli studi specialistici sulla nozione di tempo nella filosofia e nella letteratura antiche; oltre agli ormai classici interventi di R. Brague, R. Chevallier, O. Cullmann, A. J. Festugiere, V. Goldschmidt, P. Philippson, R. Sorabji (ma i rinvii potrebbero ovviamente moltiplicarsi), in questa sede conviene riferire gli studi italiani più importanti. Nel 1919 A. Levi intervenne sulla Rivista di Filosofia Neo-scolastica con alcuni importanti studi sulla nozione di tempo nel pensiero greco fino a Platone. Senz’altro decisivi – soprattutto per l’interesse archeologico di fondo – i contributi di D. Levi, a partire da quello del 1923 sul concetto di kairos nella letteratura greca, pubblicato nei Rendiconti della Reale Accademia Nazionale dei Lincei, lo studio del 1924 (sulla stessa rivista) sul concetto di kairos in relazione alla filosofia di Platone, l’intervento su aion del 1944 sul periodico Hesperia fino allo studio monumentale sui pavimenti musivi antiocheni (Princeton 1947). Non può non essere menzionato a tal proposito Aion da Omero ad Aristotele (Padova 1961) di E. Degani di cui recentemente «Eikasmos. Quaderni Bolognesi di Filologia Classica» (Studi, 5 – Bologna 2001) ha edito una sintesi aggiornata e un prezioso ampliamento dell’analisi terminologica che arriva fino all’età alessandrina, imperiale e alla Scrittura. Sul versante storico-artistico vanno ricordati i contributi di P. Moreno sulla statua di Kairos attribuita a Lisippo mentre su quello filosofico va menzionato l’intervento del 1983 di G. Tortora sulla nozione di kairos nell’etica di Democrito.
Come già ricordato, il taglio del volume è specificamente archeologico ed è organizzato in due saggi, il primo dedicato alla lettura esegetica di un mosaico antiocheno (La polimorfia di Aion: i tempi a simposio. Lettura di un mosaico di Antiochia, pp. 13-53) mentre il secondo si occupa del concetto di kairos sia dal punto di vista storico-etimologico che da quello ancora una volta archeologico (Kairos e la sua immagine, pp. 55-133); il volume si chiude con una serie di utili tabelle cronologiche e tipologiche sulle differenti raffigurazioni di Kairos e con un Catalogo curato da A. Zin che raccoglie la descrizione e le immagini dei rilievi, gemme e mosaici che riproducono Kairos.
Il mosaico di Antiochia della Casa di Aion databile alla metà del III secolo d.C. su cui si incentra il primo saggio si distingue per la sua particolarità; raffigura, infatti, una scena di simposio o comunque tricliniare dove sono presenti quattro figure di sesso maschile giacenti su delle klinai. Mentre le tre figure di destra sono frontalmente distese su una kline, la figura di sinistra che tiene nella mano destra la ruota dello Zodiaco riposa su un’altra kline di cui è evidente solo la testata. Di fronte al letto centrale si erge una trapeza di forma circolare (di cui si intravedono i tre piedi) sulla cui superficie sta un piccolo vassoio verso il quale la figura di mezzo tende la mano. Accanto alla figura di sinistra che giace sul letto di cui si vede solo la testata compare la scritta AION mentre accanto alle tre figure del letto frontale si leggono rispettivamente altre tre scritte, MELLON (futuro), ENESTOS (presente) e infine PAROCHEMENOS (passato). Inoltre tra la testata del letto di sinistra e la trapeza compare un’altra iscrizione che dovrebbe riferirsi alle tre figure maschili osservate frontalmente, CHRONOI (tempi). L’aspetto più curioso della raffigurazione musiva che naturalmente ne rende ancora più enigmatica l’interpretazione consiste nella comunanza simultanea di Aion e dei Chronoi; questa “simultaneità” non può non richiamare alla memoria – anche per questioni cronologiche – il titolo del trattato III 7 delle Enneadi, Sull’eternità e il tempo dove Plotino attribuisce all’Anima la temporalità della durata, essendo tale ipostasi più a contatto con il mondo sensibile, e al Nous l’eternità a-temporale: significativamente Plotino scrive (en., III 7 7-8) che per indagare il tempo si deve discendere (katabateon) dall’eternità. All’altezza cronologica di Plotino e verosimilmente anche del mosaico antiocheno il significato di aion si era ampiamente stabilizzato: infatti con quel termine si indicava, da un lato, l’eternità in opposizione agli aspetti durativi della temporalità, dall’altro, come forse è il caso del mosaico in questione, l’eternità che si declina nella durata del tempo, passato presente e futuro. Ma non è stato sempre così. Sarebbe certamente arduo tentare di ricostruire anche in estrema sintesi la storia di questo termine ma per comprenderne la polivocità lessicale basti pensare che in Omero e nella tradizione epica aion indica la forza vitale e dunque, in senso traslato, la vita, il tempo e la durata della vita. Si tratta di un significato molto frequente nel mondo greco che si trasferirà ben presto al mondo romano; anche in età ellenistica il significato di aion come tempo della vita non scompare ma anzi, intrecciandosi con ulteriori significati di carattere filosofico e religioso, ritorna nel nome della grande processione (pompe) di Alessandria organizzata da Tolomeo II Filadelfo e descritta da Ateneo di Naucrati. La processione era dedicata all’anno (eniautos) e ad Aion; non può stupire, quindi, che anche nel mondo romano Cornelius Labeo riconduca il nome Januar ad Aionarios. La maggior parte degli antropologi e degli storici della religione è del parere che tale processione deve essere posta in connessione con le cerimonie d’inizio d’anno legate alla fertilità e al culto della rinascita. Di certo non meraviglierà che Aion è spesso raffigurato con la cornucopia, simbolo di un tempo colmo di beni e di fecondità; proprio a tale raffigurazione può accostarsi l’immagine di Aion in relazione alle stagioni dell’anno, presente, ad esempio, in un mosaico proveniente dall’Isola Sacra, databile all’età adrianea. Il mosaico rappresenta Aion che tiene con la mano destra la ruota dello Zodiaco attraverso la quale passano le personificazioni delle quattro stagioni dell’anno; Aion dunque è legato al presentarsi delle stagioni e ai frutti che queste portano. Si pensi pure al mosaico raffigurante Admeto e Alcesti nella cosiddetta Tomba della Mietitura della Necropoli di Porto; pur non essendoci traccia di Aion le stagioni sono raffigurate o quanto meno richiamate dai pannelli musivi circostanti e certamente la rappresentazione del mito di Admeto e Alcesti non può non far pensare all’“eterno ritorno” della “fecondità agricola” e del susseguirsi delle stagioni. Ritorna, pertanto, l’idea di un tempo eternamente fecondo contro l’idea di un tempo “saturnino”, edax, divoratore e distruttore. E l’immagine di un tempo fecondo si presenta anche nella struttura dell’antico calendario attribuito a Romolo, il fondatore dell’Urbs, fedelmente ricostruito da A. Carandini; il dato più significativo risiede nel fatto che Romolo organizzò l’anno non tanto sulla base del corso delle stagioni quanto sul periodo di gestazione della donna che, chiaramente, rinvia ad una nozione di tempo legata alla rinascita e alla fecondità della vita piuttosto che alla distruzione o alla corruzione. Si pensi pure al mito cosmogonico mitraico rappresentato in ogni mitreo del mondo antico in cui la scena centrale vede la tauroctonia operata da Mitra. Il sacrificio del toro da cui si genera l’universo e scaturisce la fecondità della natura è presenziato dalle raffigurazioni dello Zodiaco e dai dadofori Cautes e Cautopates che rappresentano il tempo o meglio la sua “bipolarità”; ancora una volta si tratta di un tempo fecondo, legato alla generazione della natura e alle ricchezze dell’universo. Eppure se può essere compreso il legame fra Aion e le stagioni dell’anno e la ruota dello Zodiaco, rimane oscura la relazione con i Chronoi. Zaccaria Ruggiu a tal proposito richiama – in modo cursorio e non sempre preciso – alcune trattazioni filosofiche sul tempo, da quella platonica e aristotelica a quella scettica di Sesto Empirico. Certamente i cinque difficili capitoli che Aristotele dedica al tempo nel libro IV della Fisica sono centrali per l’interessante lettura del mosaico antiocheno fornita dall’A.; una delle (tante) questioni poste dalla trattazione aristotelica è, da un lato, la natura dell’“ora” o, come traduce E. Berti più correttamente, dell’“adesso”, dall’altro, la sua relazione con l’anima. La letteratura secondaria in merito è vastissima ma forse torna utile richiamare almeno l’ultimo importante lavoro sul concetto di tempo di Aristotele, quello di U. Coope, Time for Aristotle. Physics IV. 10-14, Oxford 2005 recentemente recensito da P. Fait «Rivista di Storia della Filosofia» LXIII (2008), pp. 167-171. Coope ritiene che il concetto aristotelico di tempo risulta chiaro se e solo se viene connesso alla nozione di kinesis; il movimento, infatti la continuità del tempo si spiega solo facendo riferimento alla continuità del movimento che a sua volta è giustificata dalla continuità dello spazio. Come è noto, la continuità del tempo risulta perspicua sulla base del rapporto fra linea e punto; il punto è considerato un limite, per questo motivo fra due punti di una linea sussiste sempre un altro punto così come fra due “adesso” vi è sempre un altro tempo. Coope mette bene in luce come i punti della linea si “presentano” solo se la linea viene divisa; la stessa cosa vale per il tempo, infatti, l’“adesso” si dà solo se potenzialmente il movimento viene interrotto. In ultima analisi ciò significa che gli “adesso” sono esclusivamente delle divisioni potenziali del tempo: secondo Coope, come i punti della linea intesi come limiti non possono essere contati, neppure gli “adesso” del tempo intesi come divisioni potenziali del movimento potranno essere contati. Il tempo dunque non può essere numerato ma solo ordinato; proprio qui si innesta una questione complessa che ci riporta direttamente alla lettura del mosaico antiocheno di Zaccaria Ruggiu. Secondo Aristotele gli “adesso” che si susseguono sono identici e diversi; la maggior parte degli studiosi danno un’interpretazione che potrebbe dirsi “fenomenologica”: gli “adesso” sono identici in quanto vissuti “soggettivamente” come presenti ma sono diversi perché, per dirla con E. Berti, si collocano in “date” diverse. Senza entrare troppo in dettagli spinosi, è evidente che non si tratta dell’unica interpretazione possibile dell’identità/diversità dell’“adesso”; è chiaro che Coope ne fornisce una diversa così come fa ad esempio E. Cavagnaro nella monografia su Aristotele e il tempo (Bologna 2002), solo per citare i contributi più recenti. Ritornando al mosaico di Antiochia è molto significativo osservare come la lettura di Zaccaria Ruggiu sia vicina (ma non identica) a quella “fenomenologica” relativa ad Aristotele: «per rappresentare i tempi come esistenti, li dobbiamo collocare nella presenza, cioè ne dobbiamo fare altrettanti “presenti”. In questo caso, non è solo la traduzione del tempo in immagine rappresentata che deve appiattire nella dimensione della coesistenza simultanea, che è la realtà dell’immagine, quanto invece dovrebbe darsi solo in sequenza […] Per evitare questo appiattimento dei tre tempi in un’unica dimensione, il mosaico non ci presenta in modo uguale le tre dimensioni del tempo, bensì cerca di dare rilievo e differenziazione al presente, rispetto al passato e al futuro, attraverso il gesto del braccio destro che, con la mano protesa a cogliere qualcosa dalla mensa, sembra dare rilievo alla dimensione propria di hic et nunc, che è quella alla quale si riconduce infine la presenza del presente» (pp. 39-40). La lettura “presentista” fornita da Zaccaria Ruggiu, inoltre, si sposa bene con il valore dato alla dimensione presente da parte delle filosofie ellenistiche sia in campo gnoseologico che in quello etico; si pensi infatti agli stoici (SVF II 509) e agli epicurei (su cui si incentra soprattutto il recente studio di J. Warren, Epicureans and the Present Past, «Phronesis» LI 4 (2006), pp. 362-387).
Il carattere enigmatico del mosaico di Antiochia, tuttavia, può dar adito a ulteriori letture interpretative non per questo incompatibili con quella “presentista” di Zaccaria Ruggiu; un aspetto certamente significativo è la struttura ad angolo retto delle due klinai su cui giacciono le quattro figure maschili: della kline di Aion è visibile solo la testata mentre la kline dei Chronoi è vista frontalmente. Dietro questa raffinata organizzazione dello spazio c’è verosimilmente una scelta concettuale ben deliberata; le due klinai sono continue e l’una limita l’altra, come a significare non solo la rispettata consuetudine del simposio e la totale “compatibilità” di Aion e dei Chronoi ma anche la loro reciproca e vicendevole limitazione. I Chronoi, dunque, non si danno senza l’azione di Aion mentre l’opera di Aion non può che riferirsi ai Chronoi: «l’Aion in quanto essenza comune è presente nei singoli tempi, e, nello stesso tempo, i singoli momenti del tempo, presente, passato e futuro, non sono altro che il modo concreto nel quale l’Aion si offre agli uomini» (p. 14).
Il secondo saggio del volume di Zaccaria Ruggiu si occupa del kairos e della storia di questo concetto, da “momento propizio” a giudice dell’Oltretomba. Questo contributo si distingue per chiarezza e originalità nonostante la comprensione dei caratteri del kairos risulti senza dubbio impresa non facile; come nel caso di aion anche kairos è un termine di difficile traduzione. Le consuete traduzioni, quali “occasione”, “momento opportuno”, tradiscono almeno in parte la specificità del kairos; nonostante le difficoltà anche di carattere etimologico, Zaccaria Ruggiu ricostruisce esemplarmente la storia concettuale del termine. Kairos è – a differenza di aion – un momento breve, istantaneo, addirittura contratto e per questo quasi irripetibile. Negli Erga (694) Esiodo mette in relazione la sequela delle leggi (metra phylassesthai) con il kairos che è epi pasin aristos, per ogni cosa l’ottimo; con questo termine, dunque, Esiodo intende descrivere una nozione di tempo qualitativa: per ogni cosa esiste un momento di compiutezza e di pienezza. Si comprendono allora le espressioni di Pindaro (Pyth., IX 78-79) secondo il quale kairos è il punto culminante di qualsiasi cosa e di Sofocle (El., 75 sgg.) che lo identifica con l’ordinatore di ogni grande opera.
Questo termine, dunque, va man mano arricchendosi di sfumature sempre nuove e di accezioni precise; indica, infatti, il momento ottimale per ogni cosa, il punto culminante ma soprattutto lo spazio decisionale per un’azione che intende andare a buon fine e, dunque, raggiungere il proprio telos. Ma l’aspetto puntuale della decisione e il carattere culminante di ogni cosa non può essere disgiunto – soprattutto in campo etico – dalla misura. Non a caso ai Sette Sapienti viene attribuita la sentenza gnothi kairon, conosci il kairos, il cui significato può essere reso più intuitivo se accostata alla massima di Solone meden agan, nulla di troppo. Per questo Democrito poteva esclamare kairou labetai invitando ad afferrare l’occasione, il momento giusto in cui l’azione raggiunge il suo scopo perché tutto è a questo proporzionato e commisurato. Come nel caso di Aion anche kairos viene raffigurato, passando, quindi, da concetto a immagine; le fonti antiche attribuiscono statue di Kairos a Policleto, Fidia e Lisippo ma la formazione del modello plastico e soprattutto la scelta dei caratteri propri dell’immagine certamente non furono processi pacifici e immediati ma, anzi, furono oggetto di controversie già nel mondo antico. Se di Fidia non conosciamo al momento alcuna raffigurazione (solo Ausonio gli attribuisce una statua di Occasio) e per ciò che riguarda Policleto è probabile che debba riconoscersi il suo Kairos nell’efebo di Westmacott, con Lisippo siamo più fortunati. Grazie alle fonti letterarie, infatti, è possibile ricostruire la (controversa) formazione del modello iconografico del Kairos di Lisippo su cui ultimamente si è soffermata V. Gigante Lanzara (Kairòs, «La Parola del Passato» CCCL (2006), pp. 337-344); tra le varie fonti letterarie (Imerio; Callistrato) che descrivono con una dose di forte realismo la statua di Lisippo spicca certamente l’epigramma di Posidippo già noto all’Appendix Planudea e profondamente detestato dallo Schott che non si faceva certo scrupolo di definirlo quam inelegans quam insipidus; ciononostante l’epigramma in questione è una testimonianza importante di quell’epoca di forte rinnovamento storico-artistico. Posidippo definisce Kairos pandamator, ossia colui che domina su tutto: è sulla punta dei piedi, ha doppie ali, tiene nella mano destra un rasoio, ha i capelli sulla faccia ed è calvo sulla nuca. Queste le caratteristiche che Posidippo individuava nella statua del Kairos di Lisippo. Come a ragione sottolinea Zaccaria Ruggii, la statua di Lisippo doveva essere caratterizzata da una decisiva tensione dinamica, come se il personaggio rappresentato stesse per prendere il volo. Insomma, nella statuaria di IV secolo ciò che conta è il realismo. Da questo punto di vista Mirone e Lisippo rivoluzionano il canone policleteo in favore di un realismo stringente: l’immagine rappresenta la realtà, il suo dinamismo e non la sua fissità. È evidente che tutto ciò avviene in linea diretta anche con le novità apportate dalla poetica alessandrina. Per questo Zaccaria Ruggiu sente la necessità di ricostruire il contesto storico-sociale in cui Lisippo opera. Lisippo vive in pieno IV secolo, proprio nell’età di Alessandro Magno e, soprattutto, di Aristotele; di conseguenza l’A. si chiede se sia possibile individuare una presenza aristotelica nella statua di Lisippo. In Aristotele il kairos è connesso alla teoria dell’azione e come si legge nell’Etica Nicomachea (1096a 27), kairos è la declinazione del bene del tempo proprio perché «l’agire deve allora riferirsi al kairos, al momento opportuno, cioè deve afferrare il tempo debito quando esso viene a maturazione e decidere l’azione» (p. 88). Ed è per questo che «il Kairos di Lisippo sembra […] tradurre in immagini gli aspetti essenziali di questa dottrina»; la statua di Lisippo, quindi, può essere considerata come l’espressione diretta dell’azione, del tempo, del momento debito che deve essere afferrato non appena ci si presenti di fronte, pena la sua inafferrabilità, quella stessa inafferrabilità del momento propizio irrimediabilmente trascorso che, nei termini iconografici lisippei, si traduce nel Kairos privo dell’appiglio della chioma.
In conclusione il volume di Zaccaria Ruggiu raggiunge pienamente lo scopo che si era proposto, esaminando con notevole acribia e profondità esegetica lo sviluppo storico dei caratteri che hanno definito le “forme del tempo” nel mondo antico. Ma al di là degli aspetti contenutistici del volume, lo sforzo di Zaccaria Ruggiu deve essere oggetto di elogio soprattutto perché ha il merito di coniugare l’archeologia e l’arte greca e romana con il pensiero antico, in un momento in cui nel campo degli studi la stringente divisione dei settori scientifici disciplinari sembra aver definitivamente condannato l’omogenea integrità del mondo antico. E forse ancora una volta non è un caso che proprio da una città antica della Magna Grecia, senz’altro determinante per lo sviluppo della filosofia occidentale, Elea, arriva un cippo datato alla metà del V secolo con l’iscrizione Olympio Kairo che attesta in loco la presenza del culto di Kairos Olimpio. |