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Guido Verucci, Idealisti all’Indice. Croce, Gentile e la condanna del Sant’Uffizio , Laterza, 2006
di Stefania Pietroforte

 Con lo studio intitolato Idealisti all’Indice. Croce, Gentile e la condanna del Sant’Uffizio Guido Verucci, studioso già noto per i suoi lavori relativi alla storia della Chiesa in Italia in età contemporanea, ci offre la ricostruzione di una vicenda esemplare, quella appunto della messa all’Indice delle opere di Benedetto Croce e Giovanni Gentile da parte della Congregazione per la dottrina della fede, altrimenti nota come Sant’Uffizio.
La condanna, che accomunava i due filosofi, fu promulgata nel giugno 1934 e l’ “Osservatore romano” ne diede notizia il 23 giugno pubblicando i due distinti verbali con i quali la Congregazione metteva all’Indice rispettivamente l’ opera omnia di Benedetto Croce e quella di Giovanni Gentile, verbali distinti ma perfettamente identici, la cui perfetta coincidenza anche temporale stava a sottolineare che non vi era differenza nel trattamento ad essi riservato. Quest’ultimo particolare, come si vedrà, non era affatto irrilevante e perciò Verucci ha intenzionalmente indugiato nel metterlo pienamente in luce.
Ma perché la condanna dell’opera di Croce e di Gentile può essere definita una vicenda esemplare? Di che cosa questo evento, oggi sostanzialmente dimenticato e che anche quando avvenne non suscitò grande scalpore, sarebbe esempio significativo? Nella Premessa l’Autore definisce la cosa così: «una delle vicende più interessanti e probabilmente più importanti che hanno caratterizzato gli anni del fascismo: lo scontro fra la neoscolastica da una parte, l’idealismo e l’attualismo gentiliano dall’altra». Tuttavia il lettore del volume si rende conto ben presto che la trama che si ricostruisce non è quella dello scontro tra due filosofie, ma piuttosto quella del tentativo di «riconquista», da parte della Chiesa, di una posizione predominante nell’ambito della formazione intellettuale, nell’ambito cioè della Bildung delle coscienze. In altre parole, utilizzando ampiamente i documenti dell’Archivio segreto del Sant’Uffizio da pochi anni reso accessibile agli studiosi, Verucci ha potuto esplorare tutto un universo di fatti relativi alla censura di manuali scolastici, procedimenti di messa all’indice di volumi, dialogo e pressioni esercitate sugli autori, che mette ampiamente in luce come negli anni Venti e Trenta la Chiesa cattolica seguisse, se non un preciso disegno, certo almeno una politica marcatamente contraddistinta dallo scopo di riconquistare il prestigio perduto nel campo dell’educazione, della formazione e della cultura, e ha  mostrato come la censura fosse un momento importante di questa battaglia. E’ su questo orizzonte, allora, che si staglia il senso della condanna delle opere di Benedetto Croce e di Giovanni Gentile ed è alla luce di questo sfondo che essa appare esemplare.
La riconquista cattolica, come la definisce a più riprese Verucci, adottava una tattica del doppio binario: quello di contrastare il dominio dello Stato e della cultura laica nella formazione dell’individuo (ipotesi) e quello di affermare che in tale ambito solo la Chiesa era titolare di un legittimo ed esclusivo diritto, e solo ad essa spettava stabilire cosa si dovesse e cosa non si dovesse fare (tesi). A seconda delle circostanze, ci si servì di un atteggiamento o dell’altro; talvolta li si mise in atto entrambi contemporaneamente, quando era possibile trarne maggior vantaggio. La scuola era il  perno strutturale di questa strategia, cioè il centro d’interesse massimo attorno al quale si concentravano tutti gli sforzi per vincere la battaglia: era questa l’istituzione che presiedeva all’educazione dei giovani e alla formazione della loro forma mentis; era nella scuola che si formavano coscienze fedeli allo Stato liberale, alla cultura laica, oppure moralmente orientate al cattolicesimo e obbedienti alla sua autorità e ai suoi dogmi; era nella scuola che si creavano i futuri insegnanti e la nuova classe dirigente. Tutto ciò non sfuggiva affatto alla considerazione della Chiesa cattolica che ben sapeva, quindi, come proprio il controllo dell’insegnamento scolastico fosse momento saliente della sua riconquista.
Non a caso, allora, tanta parte dello studio di Verucci è dedicata proprio a illustrare quanto forte fosse l’interesse dei rappresentanti cattolici e quanto alta l’attenzione per i diversi aspetti che caratterizzavano la politica scolastica. Così apprendiamo allora come il Sant’Uffizio intervenisse con i metodi brutali della censura per evitare che manuali di storia o di filosofia o di pedagogia sostenessero teorie contrarie alla dottrina della Chiesa, o diffondessero interpretazioni storiche che la ponessero in subalternità rispetto al potere civile, o, ancora, descrivessero il cristianesimo come  un fenomeno storico senza tenere in alcun conto il valore soprannaturale. Così apprendiamo che le riviste cattoliche organizzavano vere e proprie campagne di stampa per reclamare la libertà d’insegnamento, sostenendo il  carattere pubblico anche della scuola privata, chiedevano una proporzionale ripartizione di fondi statali tra tutti i tipi di scuole, reclamavano un esame di Stato che equiparasse gli alunni delle private a quelli della scuola statale e volevano commissioni d’esame con rappresentanti degli istituti privati. In questo quadro, una parte speciale fu quella che ebbe la questione dell’insegnamento religioso. La vicenda viene delineata da Verucci muovendo dai congressi degli insegnanti dove Gentile, fin dal 1907, si dichiarava favorevole alla reintroduzione dell’insegnamento religioso obbligatorio nella scuola primaria pubblica. Posizione, questa, che rimase a lungo minoritaria e che venne di fatto a imporsi solo grazie alla riforma della scuola introdotta dallo stesso Gentile quando poté farlo come ministro. Proprio l’illustrazione del dibattito interno al corpo insegnante offre a Verucci l’opportunità di mettere in luce da una parte che l’orientamento degli insegnanti, niente affatto in sintonia con le richieste della Chiesa, era espressione di una cultura laica, o quanto meno indipendente dai dettami dell’autorità ecclesiastica, di impostazione probabilmente positivistica, dall’altra che la posizione di Gentile, in aspra polemica col positivismo, mentre nei principi era fortemente contrapposta alla scuola confessionale, di fatto finiva per coincidere, per quanto concerneva il punto dell’insegnamento della religione nella primaria, con le richieste pressanti dei cattolici. Gentile, dice Verucci, «rimproverava alla scuola positivistica di non aver saputo elaborare una nuova etica che sostituisse l’ideale religioso, e di aver perciò prodotto nella scuola stessa indifferentismo e scetticismo. Alla scuola pubblica mancava secondo Gentile una fede, e questa fede si esprimeva nella libertà assoluta della ragione; la laicità della scuola, che sottolineava essere carattere intrinseco della scuola stessa, doveva avere come contenuto un concetto sintetico della vita, quello cioè che la ragione della vita è dentro e non fuori della vita stessa. La scuola laica si contrapponeva così alla scuola confessionale, che Gentile arrivava a definire “non scuola … anzi negazione della scuola”. Peraltro egli riteneva essenziale che nella scuola vi fosse una unità spirituale indotta dall’alto, dai maestri sugli scolari, e constatava che nella scuola confessionale questa unità era data dalla “fede che essa inculca” e di cui fa come il centro dell’anima. Poiché però pensava che nella scuola primaria pubblica non poteva entrare la filosofia, lo spirito critico, che vi sarebbe entrato nei gradi successivi dell’insegnamento, era necessario, sosteneva in contraddizione con quanto aveva detto sulla scuola confessionale, che vi entrasse la religione … Gentile sosteneva insomma che la scuola primaria pubblica italiana non aveva un’anima, che era assurdo pensare che vi potesse entrare una ispirazione come quella che egli aveva indicato, e che quell’anima gliela potesse fornire l’insegnamento religioso … Egli affermava la necessità “che fin dalla scuola primaria si miri a formare una coscienza, e promuovere il senso vero della vita. E questo senso della vita, dacché mondo è mondo, l’ha dato all’uomo o la religione o la filosofia; sicché dove non può entrare la filosofia, dev’essere, deve restare, la religione”»(pp. 11-12).
Il fatto che la posizione sostenuta da Gentile costituisse un cavallo di Troia per il quale poteva affermarsi la richiesta cattolica non deve però indurre a un giudizio superficiale. E’ senz’altro vero che quando la riforma del 1923 reintrodusse l’insegnamento religioso limitatamente alla scuola primaria questo non potesse non essere visto come un importante punto messo a segno dalla Chiesa, un rientrare in gioco direttamente su un terreno che fin lì era stato ad esclusivo appannaggio dello Stato. Ma è altrettanto vero che l’ispirazione complessiva della riforma stessa, e quindi anche di quell’aspetto dell’insegnamento, era tanto divergente rispetto alle mire della Chiesa cattolica che sarebbe insensato accreditare Gentile di una intenzione compiacente nei confronti del cattolicesimo quando tutt’altro doveva esserci nella sua testa. Per la verità Verucci non è parco di riferire, a questo proposito, le motivazioni del filosofo. Ci sembra, invece, un po’ troppo stringata la conclusione che sembra trarre quando, a conclusione del discorso che definisce la posizione teorica di Gentile, Verucci ritiene di poter dedurre che «così, appare evidente una corrispondenza fra l’atteggiamento assunto dai due filosofi idealisti di fronte al modernismo e la posizione presa da Gentile –che sarebbe stata fatta propria anche da Croce- sulla questione dell’insegnamento religioso nelle scuole. In entrambi i casi il cattolicesimo poteva svolgere una funzione storica solo se veniva assunto in modo monolitico e totalitario, e sempre come elemento di conservazione, prima che fosse superato da una filosofia in un certo senso altrettanto totalitaria, la filosofia idealista»(p. 12). Eccessivamente stringata questa conclusione perché stabilisce un sillogismo, una proporzione, secondo una modalità che avrebbe essa bisogno di spiegazione. Qui infatti è come se si dicesse: Gentile (e con lui Croce è d’accordo) come si è schierato a favore del Papa nella questione del Modernismo, così si schiera a favore della Chiesa nella questione dell’insegnamento religioso; o altrimenti: nel confronto tra Chiesa cattolica e Modernismo la ragione stava dalla parte della prima, dunque anche nella questione dell’insegnamento religioso la ragione può stare almeno in parte dalla parte della Chiesa. In effetti, però, le cose non possono essere messe in questo modo, per il semplice fatto che per Gentile, nonché per Croce, la ragione, quella vera, quella filosofica, non è mai stata identificabile con la Chiesa. Tutto al contrario. Proprio negli scritti sulla religione e il Modernismo appare chiaro che per Gentile religione vuol dire dualismo, primato dell’oggetto, cioè esattamente quel rovesciamento della verità che l’attualismo avrebbe cercato di correggere alla radice mostrando come quella visione delle cose fosse solo il rovescio, appunto, della verità, e niente affatto questa nella sua pienezza razionale. E la famosa battuta con la quale sembra dire ai modernisti che, se non si è capaci di cercare la verità per il  verso giusto, allora è meglio starsene alla posizione del Papa, è una battuta, appunto, non lieve, certo, ma neanche tale da lasciar spazio all’idea che la ragione, la verità, potesse davvero trovarsi incarnata nelle vesti del Papa il quale rappresentava, invece, il massimo di distanza concettuale dalla posizione della verità. Dunque la “simpatia” che è stata accreditata a Gentile nei riguardi della Chiesa è, in effetti, tutta da indagare e da ripensare. Così come da indagare e ragionarci su sarebbe che il cattolicesimo poteva svolgere un ruolo positivo, ai suoi occhi, proprio in quanto caratterizzato da monolitismo e totalitarismo: che altro era tale monolitismo per Gentile se non l’espressione del più alto dogmatismo e che altro era il dogmatismo se non l’affermazione, pregiudiziale e del tutto contraria alla ragione e al vero, della trascendenza dell’oggetto? Che altro volle essere la filosofia di Gentile se non la negazione della verità dell’astratto che era configurata proprio dall’oggettività intesa come trascendente? Contro questa idea l’attualismo ingaggiò una battaglia senza scampo, una critica senza appello. E anche quando con il Sistema di logica l’astratto sembrò recuperare terreno, il punto di vista astratto dell’astratto restò sempre quello dell’errore di contro alla verità. Perché allora pensare che sul serio Gentile potesse riconoscere nel cattolicesimo, nella Chiesa di Roma, un valore, cioè un elemento di verità, sia pure provvisorio?
Allora,come resta il fatto che la riforma del 1923 reintroduceva l’insegnamento religioso nella scuola pubblica, così resta pure che ciò che la ispirava idealmente era tanto distante rispetto al cattolicesimo che le correzioni e demolizioni dei ministri succeduti a Gentile, tutti momenti che Verucci allinea puntualmente nella sua narrazione, furono indispensabili per far posto alle richieste che con sempre maggiore insistenza, perché netta era la consapevolezza del momento favorevole, venivano avanzate da parte della Chiesa. Fu un lavoro di erosione veloce, incessante, che puntava ad allargare gli spazi che la riforma aveva aperto al cattolicesimo e che trovò poi in un atto politico di altissimo profilo, quello dei Patti Lateranensi, un ancoraggio solido e definitivo.
Proprio i Patti del 1929 segnarono un punto importantissimo nella vicenda che si concluse con la messa all’Indice delle opere di Croce e di Gentile. Se essi costituirono, più che un riavvicinamento di Stato e Chiesa, un vero e proprio patto stretto in nome di una logica prettamente politica, che spingeva il regime fascista di Mussolini ad ampliare la base di consenso servendosi di quanto poteva offrire appunto la Chiesa, e che guidava la Chiesa a ricercare il consolidamento di un ruolo significativo nella vita civile dell’Italia fascista, è proprio alla luce di questa nuova situazione che la Chiesa sembra abbia voluto riconsiderare, con intenti niente affatto conciliatori, il rapporto con quella cultura laica e indipendente che era sentita come l’ostacolo più forte alla riconquista. Di questa cultura Croce e Gentile erano senza dubbio i rappresentanti più autorevoli, esprimendone l’autocoscienza più chiara. Ebbene, dopo i Patti, fu chiaro che non solo Croce, rappresentante dell’antifascismo, era ormai del tutto fuori dall’area di potere, ma anche Gentile, che ben altro rapporto aveva avuto e aveva ancora col fascismo, attraversava una fase di declino politico. Verucci rimarca con convinzione che il “fiuto” politico portava la Chiesa a colpire i suoi nemici nel momento della loro debolezza. E’ nel 1932, con la Storia d’Europa nel secolo decimonono di Benedetto Croce, che ha inizio l’istruttoria che porterà alla condanna.
Il processo alla filosofia idealistica cominciò quindi con Croce e in particolare da quel volume nel quale egli rivendicava all’idealismo un valore estremamente ampio, non solo in ambito filosofico ma anche in campo politico e culturale. Già dal primo resoconto di padre Sales, consultore incaricato dalla Congregazione dell’esame del libro di Croce, apparve chiaro che la filosofia della libertà di cui Croce parlava doveva essere esaminata anche nelle precedenti opere del filosofo e che quanto di offensivo e ingiurioso essa comportava rispetto alla Chiesa doveva essere compreso nella completezza del pensiero del suo sostenitore. Apparve chiaro, altresì, che si sarebbe dovuto esaminare anche l’opera filosofica di Gentile, di cui Croce era ritenuto il “maggiore”, e giudicare il fenomeno così nella sua interezza. Non vi fu esitazione, insomma, a riconoscere da subito che le valutazioni storiche che Croce dava nella Storia d’Europa avevano la loro radice nella concezione filosofica che egli propugnava e questa, si riteneva, era sostanzialmente non dissimile da quella di Giovanni Gentile che aveva camminato sulle orme del primo. Dunque l’esame e la condanna di Croce avrebbe portato con sé l’esame e la condanna di Gentile: l’errore si annidava nel sistema filosofico e su quel piano i due idealisti non si differenziavano. Non solo. Alla mente accorta dei prelati fu subito lampante che accomunarli nella condanna avrebbe avuto il vantaggio di far apparire la Chiesa equidistante rispetto al fascismo, perché infatti mentre si condannava un suo autorevole oppositore, si condannava pure un suo altrettanto autorevole sostenitore (di qui l’importanza, sopra segnalata, della perfetta coincidenza dei due provvedimenti di condanna). Nel ricostruire, documenti alla mano, questo andamento degli eventi, Verucci mette un punto fermo rispetto alla tesi, già da altri sostenuta, secondo la quale l’obiettivo vero della condanna sarebbe stato Gentile, mentre «quella di Croce fosse stata aggiunta per equilibrare la posizione della Chiesa riguardo al fascismo e all’antifascismo»(p. 198). I documenti provano una estrema circospezione dei consultori e soprattutto dei membri della Congregazione nel procedere e la maggiore prudenza nei confronti di Gentile non deve far dimenticare, dice Verucci, «che l’avversario da combattere e da battere, per i sostenitori della neoscolastica e del tomismo, per la cultura cattolica, era l’idealismo, di cui Croce in Italia era stato il fondatore ed era comunque il maggiore esponente»(p. 200).
E’ interessante, a questo punto, dire qualcosa anche a proposito di neoscolastica e tomismo che Verucci cita distintamente non a caso. Egli infatti mette bene in risalto il diverso ruolo avuto dagli esponenti dell’una e dell’altro nella vicenda. Sebbene nella narrazione degli eventi Gemelli appaia come colui che potrebbe aver dato la prima spinta all’avvio del processo ai due filosofi (ma pare di capire che su questo punto anche Verucci non può pronunciarsi con assoluta certezza), le sue dichiarazioni ufficiali, quelle testimoniate dai documenti della disamina nella quale fu coinvolto, mostrano che Gemelli non dovette mai essere entusiasta dell’idea di una condanna. Non solo sapeva bene che la sua creatura, l’Università cattolica del Sacro Cuore, era debitrice verso Gentile che ne aveva permesso la fondazione, ma per di più Gemelli aveva alle spalle una storia, quella della “Rivista di filosofia neoscolastica”, che era la dimostrazione de facto di come la neoscolastica italiana, di cui egli era il capo indiscusso, avesse non solo dialogato con la filosofia di Croce e di Gentile, ma da quel dialogo avesse tratto elementi essenziali che ne segnavano il carattere. Non che questo impedisse a Gemelli di guardare all’idealismo come ad un nemico assai pericoloso. Ma certo questo nemico era anche stimolante e autorevole, e comunque assai diverso da quello che p. Cornoldi fino a qualche decennio prima sentiva puzzare di zolfo. E se gli anni di Chiocchetti e del confronto con la filosofia di Croce sulle colonne della rivista erano ormai lontani, c’era però in quegli stessi anni Venti-Trenta un nuovo confronto, quello di Bontadini con la filosofia di Gentile, confronto forse non meno entusiasta del primo, che Gemelli pubblicava senza remore sulle stesse colonne. Insomma, l’atteggiamento di Gemelli non era pregiudizialmente negativo né nei confronti di Croce né nei confronti di Gentile. E infatti Verucci rileva che l’intervento dei neoscolastici già fin dalle battaglie per la scuola era stato più cauto, meno aggressivo di quello dei tomisti. E malgrado che il pronunciamento di Gemelli fosse inequivocabilmente negativo (ma sarebbe interessante sapere anche di quanta libertà godessero i consultori, una volta che fosse stato affidato loro il compito di redigere il voto), il suo parere fino all’ultimo fu che fosse più opportuna una Enciclica papale rispetto alla messa all’Indice, una Enciclica che avrebbe potuto avere un obiettivo analogo ma meno circoscritto, il cui effetto sarebbe risultato senz’altro più sfumato rispetto alle persone dei due filosofi. Ben diverso sembra essere stato il ruolo svolto dai tomisti. Essi, con “Civiltà cattolica”, furono i propulsori della riconquista e dalle colonne della rivista guidarono nella battaglia in corso, con accenti talvolta estremistici e sempre fortemente rivendicativi, le richieste che in altre sedi la Chiesa metteva sul tappeto. Sempre vigili per segnalare nuovi pericoli da rintuzzare o nuove opportunità che consentissero di allargare l’egemonia cattolica nella scuola, sempre i primi nel sostenere principi che significavano il primato della Chiesa per ogni aspetto della vita che riguardasse direttamente le coscienze e la cultura, gli scrittori di “Civiltà cattolica” di fatto fungevano da battistrada rispetto alle mosse successive della Chiesa, rendendo indistinguibile fin dove fosse la rivista dei gesuiti a tirare la volata, a fungere da vero e proprio elemento trainante, e fin dove, invece, fosse lo strumento di cui la cautela niente affatto remissiva della Chiesa di quegli anni si serviva per sondare il terreno sul quale avrebbe poi poggiato i suoi passi. Insomma, nella narrazione di Verucci, i tomisti appaiono come una sorta di partito interno “più avanzato”, se così si potesse dire, sulla strada della riaffermazione del potere della Chiesa in ambito temporale.
La condanna dell’ opera omnia di Croce e Gentile avvenne, dunque, dopo laborioso esame e ripetute consultazioni. Non suscitò scalpore e fu accolta da Croce con sufficienza, come un pachiderma urtato da un moscerino, con risentimento invece da Gentile. I giornali stranieri diedero alla cosa più risalto di quelli italiani. Non mutò nulla nello stato delle cose. Ma proprio perché i due filosofi erano i rappresentanti della cultura più alta e raffinata che ci fosse in Italia, la loro messa all’Indice doveva suonare come un colpo maldestro, un colpo inferto con strumenti che, dice Verucci, «non erano più in grado di ottenere risultati»(p. 225). Bisogna però rifuggire dagli schematismi e intendere bene che quella inadeguatezza, quell’anacronismo, non erano il risultato di uno scontro tra la filosofia idealistica e il neotomismo più o meno intransigente sostenuto dalla Chiesa. L’inadeguatezza, l’anacronismo erano piuttosto l’effetto, il risultato ottenuto dalla politica della Chiesa rimasta sorda e refrattaria al cambiamento avvenuto nella società italiana. Nel trarre le conclusioni del suo saggio, Verucci lo fa intendere bene, anzi lo dice a chiare note: era avvenuto qualcosa nella società italiana, nella sua compagine culturale, che non consentiva ritorni. La battaglia della Chiesa per la riconquista era destinata a fallire perché il movimento delle cose, degli eventi, andava in senso contrario al suo: «nella scuola pubblica, nell’insegnamento superiore, nell’insegnamento della storia, della filosofia, della pedagogia, la vittoria non era solo e non tanto, probabilmente, dell’idealismo crociano e dell’attualismo gentiliano, quanto di quei contenuti di cultura laica e moderna che l’influenza di Croce e la riforma di Gentile avevano veicolato nella scuola superiore e nell’università … La vittoria era, in particolare, al di là di singoli giudizi e affermazioni, di una cultura storicistica fondata sulla rigorosa ricerca scientifica, sempre nuova e sempre rinnovabile, autonoma e libera da qualsiasi presupposto esterno alla ricerca stessa, e che considera naturalmente anche il cristianesimo, il cattolicesimo, le chiese, le altre religioni, manifestazioni fondamentali della vicenda culturale e spirituale umana»(p. 225).
Non è questo il luogo per dire se la conclusione di Verucci sia del tutto vera, se cioè sia vero che lo storicismo abbia vinto la sua battaglia una volta per tutte. Ci sembra non del tutto inutile, però, a quell’esemplarità della vicenda accostarne  un’altra. La riconquista cattolica aveva a che fare con la politica e con la dimensione secolare. Ma il diritto della Chiesa era rivendicato in nome della verità, di quella verità di fede che la sua dottrina aveva poi organizzato. Il fatto che essa, come già era avvenuto in altri casi, si contrapponesse direttamente ad una filosofia poneva un interrogativo di non facile soluzione: era legittimo per una fede, e cioè per una verità che è tale solo in quanto creduta, contrapporsi alla filosofia, e cioè a una verità affermata razionalmente? Non ha la fede una sua peculiarità che, se la rende inattaccabile dalla ragione, rende però la ragione altrettanto libera rispetto alla fede? Il senso di disagio che si prova di fronte a vicende come la messa all’Indice delle opere di Croce e Gentile, e che non si dovrebbe provare se fossimo in presenza semplicemente di un fatto che fa da spia allo scavalcamento di un modello culturale rispetto ad un’altro, non ha forse a che fare con questo conflitto impossibile che pure la storia della Chiesa ha spesso messo sotto i nostri occhi? Se questa domanda è plausibile, se ha dalla sua delle ragioni, allora la storia narrata da Idealisti all’Indice non è esemplare soltanto dello scontro politico di due culture, ma è esemplare anche di quell’autoritarismo della Chiesa che invano ha tentato di far credere che il rapporto tra fede e ragione fosse da sempre risolto e bisognoso solo di disciplina.

 

*Recensione già pubblicata su «Rivista di storia del cristianesimo» 2008.

PUBBLICATO IL : 18-06-2008
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