« Noi siamo il nostro linguaggio ». Tratta dal libro che ci accingiamo a recensire, quest’affermazione, che ha dalla sua la densità semantica ed espressiva dell’aforisma, può esser considerata come punto di partenza e convergenza della riflessioni garganiane, non soltanto per quanto concerne il volume qui in oggetto, ma anche in relazione all’intero percorso del pensatore italiano, perlomeno a partire dall’opera che in un certo senso lo inaugura, Il sapere senza fondamenti (1975). Un percorso che anche una semplice presentazione come questa deve tener presente, nel tentativo di far emergere, con tutti i limiti del caso e del recensore, le specifiche connotazioni assunte dal pensiero di Gargani, riscontrabili anche in un testo, prima facie, di letteratura secondaria, dedicato com’è alla lettura della filosofia di Wittgenstein, continua fonte di spunti per il pensatore italiano. Buona parte della sua produzione è infatti dedicata all’autore del Tractatus, dall’opera degli esordi a quelle di più recente pubblicazione (si veda in particolare l’interessantissimo Wittgenstein. Dalla verità al senso della verità, risalente al 2003). Stante questo, sarebbe però perlomeno riduttivo collocare Gargani semplicemente nel - sempre crescente - novero degli studiosi di Wittgenstein, se non altro perché la filosofia di questi non è soltanto oggetto di studio, ma termine di riferimento essenziale nel pensiero del filosofo italiano, tanto che il suo profilo rassomiglia di più a quello, sit venia verbo, dell’allievo e dell’epigono piuttosto che a quello dell’interprete e dello studioso. E sarà nostro compito quello di tener presente e far emergere la specificità del ruolo ricoperto dalla filosofia di Wittgenstein nella riflessione garganiana, a partire e attraverso la presentazione del volume in oggetto.
La citazione di cui in apertura ci siamo avvalsi condensa, come in parte accennavamo, i contenuti costitutivi del nucleo della riflessione garganiana, tra i quali spicca la centralità del linguaggio. Non stupisce allora che il riferimento privilegiato venga a essere Wittgenstein e che lo stesso pensatore viennese sia, al tempo medesimo, oggetto dello studio di Gargani e paradigma di una nuova frontiera della filosofia del linguaggio, se non proprio dell’irrevocabile destino della filosofia tout court. In particolare è la tarda riflessione del filosofo austriaco a esser presa più decisamente in considerazione, quella fase che si concretizza in opere quali le Philosophische Untersuchungen, gli scritti sulla filosofia della psicologia e gli aforismi raccolti in Über Gewissheit. In tali scritti il ruolo privilegiato che il linguaggio ha sempre rivestito nella speculazione wittgensteiniana si presenta in una nuova dimensione, sfrondato degli ultimi residui sostanzialistici – come il concetto di relazione interna – perché più decisamente calato nel suo fattivo operare nei contesti della vita umana. Gargani prende atto con soddisfazione di questa svolta definitiva e ne rileva con indiscusso acume le conseguenze. A esser primario non è più il linguaggio nei suoi aspetti cognitivi, nella sua dimensione epistemologica e fondazionale, nei termini di una struttura permanente e imperitura che dirige dall’alto qualsiasi transizione linguistica perché garante e in possesso di un senso che si comunica su qualsiasi termine o atto linguistico possa mai presentarsi; a venire in primo piano è infatti il carattere operativo, prassiologico del linguaggio, il modo in cui esso è agito piuttosto che pensato e interpretato. A esser centrale è dunque sempre il linguaggio, ma in veste nuova, come prassi linguistica che non abbisogna di fondamenti, che è anzi di per sé infondata, in quanto è proprio per sua virtù che qualcosa come un fondamento può darsi, è a partire cioè da essa che si può riscontrare ciò che è da considerarsi come un che di fisso e immutabile ed è sempre a partire da essa che può aprirsi lo spazio in cui - soltanto - può dimorare la conoscenza: proprio in tal senso Gargani parla di un ordine pre-cognitivo come radice e apertura del cognitivo. Concetti come “identità”, “differenza”, “regola”, non attengono a un ordine ideale che diriga dall’alto gli usi linguistici, discriminando il lecito da ciò che non lo è, poiché essi stessi si manifestano solo a partire dalla prassi linguistica, sono affisabili e riconoscibili solo osservando i modi in cui si opera con il linguaggio: «l’identità, la concordanza sono paradigmi che non governano la prassi linguistica, ma che al contrario noi apprendiamo dalla nostra pratica linguistica ». Il richiamo alla prassi, suggellato dall’aforisma goethiano im Anfang war die Tat caro al Wittgenstein di Über Gewissheit, vale in Gargani a sconfessare la necessità di processi interiori responsabili del significato e della comprensione, sì da rompere con le teorie mentaliste e psicologiste del significato fondate per l’appunto su quei processi: esse operano, a detta del filosofo italiano, un’illecita duplicazione del termine con sé stesso, rimettendo il significato a un suo, spesso non meglio precisato, correlato mentale, oppure al soggetto come entità psicofisica in grado di animare il percetto segnico. Gargani ribadisce invece la primarietà del linguaggio nei suoi caratteri anche ‘materiali’, sonori e pratici, invita a fermarsi alla superficie di quel che accade, ad operare, sulla scia di Cavell, un riconoscimento piuttosto che un atto cognitivo, a guardare alla prassi linguistica come a ciò che è primario e intrascendibile, dove risuona l’invito delle Philosophische Untersuchungen a osservare piuttosto che a pensare. Gli aspetti materici a cui poco fa accennavamo fanno capo al Satzklang come fonte del significato, per cui il significato di una proposizione risulta già dal suo semplice percepirla con l’orecchio; tutto ciò è reso possibile dal rapporto di viscerale immediatezza e familiarità che gli individui intrattengono con il linguaggio, esplicitato nell’affermazione che ha aperto questo scritto e che induce Gargani a parlare di una ‘pelle linguistica’ dalla quale è pressoché impossibile uscire. Se “noi siamo il nostro linguaggio”, va da sé che non vi sarà alcuna spiegazione o giustificazione di esso, potendo quelle darsi solo in virtù del linguaggio medesimo, ma solo una sua descrizione accurata e perspicua. Un’impostazione come quella or ora descritta non vale però soltanto a liberare i significati da una presunta e inalterabile dipendenza da occulti processi mentali; l’autosufficienza del linguaggio presenta un carattere di assolutezza tale che neanche la realtà esterna è in grado di porle dei vincoli. I significati infatti non rispondono del loro operato alla realtà esterna poiché è anzi questa a non potersi presentare se non in virtù di un filtro semantico, linguistico, o, per citare direttamente Gargani « la connessione fra linguaggio e realtà è fondata all’interno del linguaggio» per cui « il linguaggio è una struttura chiusa autonoma che non porta responsabilità rispetto alla realtà ». L’aver liberato il linguaggio dai suoi (presunti) vincoli verso l’esterno e verso l’interno è uno dei meriti più importanti che Gargani riconosce a Wittgenstein, un’operazione che assieme al carattere di visceralità con la vita umana sopra rilevato indirizza a una concezione del significato - e del linguaggio - come fisionomia, un’idea che sottolinea con ulteriore forza l’autonomia del linguaggio: i suoi termini e proposizioni sono infatti significanti “di proprio pugno”, non rimandano a ulteriorità decisive, ma come volti o gesti si comprendono a partire da sé stessi, dalla loro specifica fisionomia; una fisionomia che traggono dal loro collocarsi nel linguaggio e dalla visceralità di questo con la vita umana, dalla familiarità, dall’aderenza non esitante con cui gli individui vi si rapportano, caratteri che illuminano ulteriormente su quanto sopra si diceva a proposito del Satzklang. “Familiarità”, “aderenza non esitante”, ma anche “gestualità”, “ritmo”, “musicalità”, termini essenziali nel novero di questo libro nonché riformulazioni ulteriori di tematiche oramai classiche nel Denkweg garganiano, trovano però un’adeguata collocazione e connotazione solo introducendo un altro termine-chiave della filosofia wittgensteiniana e non solo: la forma di vita (Lebensform). Con questo termine, di cui Gargani rileva molto opportunamente gli echi spengleriani, ci s’intende riferire a quella comunione di interessi, valori, pratiche, usi e abitudini sociali e d’esistenza che costituiscono una comunità delineandola come espressione di una propria cultura, di una specifica Weltanschauung. Il richiamo alla forma di vita è essenziale anche per comprendere appieno il discorso che siamo venuti svolgendo: l’accento posto sulla prassi linguistica come fondamento infondato, sulla descrizione come unica modalità d’approccio adeguata per la chiarificazione del linguaggio - condensata nella nozione di rappresentazione perspicua - l’indipendenza assoluta del linguaggio medesimo, l’insistenza sul significato come fisionomia, caratterizzazioni che possono riassumersi nel tema garganiano dell’esternalismo – ovvero nell’adesione all’aspetto ‘esterno’ del linguaggio, per cui il linguaggio esprime ciò che esprime solo sulla base delle sue risorse; tutto questo, dicevamo, dev’esser letto e considerato a partire dalla nozione di forma di vita. Solo in virtù dell’appartenenza a una determinata Lebensform siamo in grado di comprendere, mercè la nostra “adesione”, un termine o una proposizione, in ragione delle relazioni che quel termine o quella proposizione intrattengono col contesto umano e vitale di cui siamo - e sono - parte; “familiarità” e “aderenza non esitante”, tratti essenziali della nostra comprensione, si giustificano e sono rese possibili solo dal contesto di pratiche e usi condivisi rappresentato dalla Lebensform e dai giochi linguistici che in certo senso la compongono. Del resto la prassi medesima, col suo primato, è pur sempre la prassi specifica di una certa forma di vita che ivi si manifesta, tant’è che la stessa infondatezza caratterizzante la prassi va (ri)declinata proprio a partire dall’intrascendibilità della Lebensform, come suggerito dal celebre aforisma wittgensteiniano, che Gargani fa decisamente proprio, secondo cui « ciò che si deve accettare – il dato – sono forme di vita ». L’antifondazionalismo che il filosofo italiano riscontra in – e mutua da – Wittgenstein si avvale e si certifica delle connotazioni socio-antropologiche della Lebensform come rimando ultimo di qualsiasi catena argomentativa, elemento decisivo di una filosofia volta a desublimare concetti quali “pensiero”, “verità”, “significato”, in virtù della loro originaria scaturigine dai contesti - e dai bisogni - quotidiani, esperenziali, pratico-comunicativi della vita umana. Resta però da chiarire il rapporto che intercorre tra Lebensform e linguaggio. Gargani definisce il linguaggio come il contesto istituzionalizzato di pratiche appartenenti a una certa forma di vita; il linguaggio, in altri termini, manifesta, è il depositario della Lebensform come Weltanschauung, come cultura, come comprensione del mondo, come ‘strutturazione metodica del caso’, in quanto i suoi elementi, nei loro legami reciproci, richiamano nel loro comporsi la figura dell’organismo sociale piuttosto che quelle dell’insieme o della classe, o, nella terminologia più propriamente wittgensteiniana, rassomigliano a un filo la cui robustezza è data dal sovrapporsi di molte fibre, e non dal fatto che una sola di esse corra per tutta sua lunghezza; o ancora, citando direttamente Gargani, si tratta « di segni, tracce ed eventi che coesistono insieme anziché implicarsi reciprocamente e necessariamente ». Quanto detto rafforza e delinea con più chiarezza la primarietà e l’assoluta autonomia rivendicate al linguaggio e la conseguente declinazione in termini di esternalismo e descrittività del tema della comprensione; ma consente di venire ulteriormente in chiaro sulla particolare visione che Gargani ha del linguaggio e della sua primarietà. Spogliato anche solo del ricordo di una qualsiasi architettura trascendentale - in virtù della desublimazione dei termini con essa storicamente impegnati -, osservato nei suoi concreti modi di operare, il linguaggio si manifesta come produzione sorgiva, continua e inesauribile di forme, di significati, in virtù della sua stessa azione nei contesti umani e vitali che continuamente delinea e riconfigura; si presenta, krausianamente, come valore assoluto in forza della sua assoluta libertà, per la quale non delega altri che non sé stesso per il suo senso, secondo quel carattere espressivista che Gargani, sulla scia di Wittgenstein, riconosce al linguaggio e che coincide per l’appunto «con la circostanza che il linguaggio non porta alcuna responsabilità verso la realtà, che esso esprime ciò che esprime di proprio pugno». Le stesse ‘novità’ semantiche si spiegano, come ogni altro significato, a partire dal linguaggio come depositario e ‘sismografo’ della Lebensform: i nuovi significati nascono e si comprendono in virtù della sua assoluta autonomia, si presentano come precipitati semantici composti dal semplice, nuovo e inaudito ‘stare insieme’ (Zusammenstellen) di elementi diversi, sono costellazioni simboliche in cui si registra e si delinea l’emergere di nuovi scenari della nostra vita. Ma si tratta di novità, per così dire, impreviste e imprevedibili, originate dal caso - che Gargani intende, ne Lo stupore e il caso, come l’improvvisa apertura di una fessura in una certa codificazione del mondo -, la cui rilevanza è soprattutto etica, in quanto espressioni che sopravvengono agli individui, che gli individui d’un tratto, senza un’apparente giustificazione, sono inclini a usare: proprio da ciò, a detta di Gargani, risulta salvaguardata la libertà umana, o perlomeno quella espressiva, in quanto in tal maniera gli uomini rimodellano continuamente i loro moduli espressivi, sottraendosi a quella logiche Mechanisierung di cui parlava Musil e che era invisa allo stesso Wittgenstein. Tematica questa, nei suoi neanche troppo impliciti richiami a “rompere la crosta della convenzione”, in cui risuona l’eco del compianto amico - e maestro - di Gargani, il filosofo statunitense Richard Rorty. |