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Andrea Paris, Le radici della libertà. Per un’interpretazione del pensiero di Augusto Del Noce , Marietti, 2008
di Marcello Mustè

Dopo gli studi di altri interpreti – in particolare quelli di Gian Franco Lami (1999), Paolo Armellini (1999) e Tommaso Dell’Era (2000) – questo libro di Andrea Paris offre uno sguardo più analitico sulla prima fase della riflessione di Augusto Del Noce, come si sviluppò negli anni trenta e quaranta del Novecento. Scelta non casuale, perché secondo l’autore (e io condivido la sua persuasione) è proprio in tale fase – attraverso le ricerche su Malebranche, Cartesio, Pascal – che si definisce il progetto filosofico di Del Noce, ossia, spiega Paris, il tentativo di superare una filosofia ancora centrata sulle prove dell’esistenza di Dio in una filosofia della «presenza di Dio» (p. 15). Innumerevoli, e puntualmente ricostruite, sono le suggestioni e le influenze che accompagnano le prime ricerche sul Seicento, in un periodo ancora segnato dalle dispute sul modernismo, dalla querelle tra Gilson e Brèhier, dalla lettura di Maritain e dal precoce confronto con i classici dell’idealismo italiano; a cui bisogna aggiungere le riflessioni destate dall’ambiente torinese, dove Del Noce incontra personalità del calibro di Juvalta, Pastore, Mazzantini, Faggi.
     Però il libro di Paris non vuole essere soltanto una rigorosa ricostruzione degli anni di formazione, ma anche un tentativo di enuclearne (sia pure con ammirevole discrezione e prudenza) l’attualità: parola, come si sa, piuttosto scivolosa in filosofia, ma che pure segnala il fatto che i problemi sollevati da un certo autore meritano di essere ripresi e ulteriormente meditati. Questa attualità è già individuata da Paris nella radicale «incompiutezza» dell’opera di Del Noce, il quale, com’è noto, inseguì per tutta la vita il progetto di un libro teoretico (e ancora nel 1982 lo annunciava in una lettera a Carlo Rizza), senza riuscire mai a realizzarlo, e (per quel che ne so) anche solo a iniziarlo. Aggiungerei che nella sua vasta produzione «incompiute» rimasero molte altre cose, a cominciare dagli studi sul Seicento, che dal primo volume su Cartesio avrebbero dovuto distendersi – secondo la promessa dell’autore, che si legge nella Premessa del 1965 – in ulteriori ricerche sul contrasto tra Malebranche e Bayle e, infine, su Giambattista Vico. Anche in questa «incompiutezza», e nel frammentario disordine che ne conseguì, Paris coglie, tuttavia, un aspetto positivo, di attualità appunto, nella consapevolezza del tramonto di un’«epoca della filosofia come discorso concettuale chiuso» (p. 14) e dunque nell’andamento più mosso e problematico della sua indagine teoretica.
     Se di attualità si vuole parlare, però, essa deve riguardare la sostanza, anche se dispersa e frammentaria, e non può essere limitata alla forma del discorso. L’immagine complessiva che questa ricostruzione di Paris trasmette è rappresentata bene, direi, dal motivo conduttore della «ricerca di sé», di una ricerca morale ancora prima che filosofica, come il tentativo (che forse Del Noce proseguirà sino alla fine dei suoi giorni) di venire in chiaro con sé stesso e di depurare il proprio sentimento religioso da alcune «tentazioni» che lo avevano inizialmente condizionato. Per questo verso, è sorprendente l’analogia che si può istituire tra questo percorso e quello che egli, nei suoi scritti, attribuì a Cartesio, respingendo l’ipotesi interpretativa, che era stata di Laberthonnière, di Blondel, del primo Gilson, centrata sulla «conquista del mondo» e sulla tecnica, e insistendo, invece, sulla centralità della «conquista di sé», dell’«idea di saggezza», nel senso agostiniano dell’interiorità, seppure di una interiorità ormai dissociata dall’ideale di una filosofia cristiana. Il rifiuto della tesi del «Descartes physicien», come l’aveva definita Gouhier, e la lettura delle Meditazioni nei termini di un’ascesi dell’interiorità, rappresentavano anche il proprio progetto di autocostruzione e di approfondimento critico.
     Ora, se proviamo a chiederci in cosa consisteva una simile «ricerca di sé» e dove, in fondo, si costituiva l’unità di questo singolare e frammentato pensatore, mi sembra che il libro di Paris ci inviti a guardare in due diverse, ma convergenti, direzioni. La prima direzione concerne il significato della modernità; e, per questo verso, può forse dirsi che Del Noce è stato tra gli ultimi interpreti di questo nodo essenziale, che non concepì nel segno della banalità o anche solo della semplicità, ma, piuttosto, inseguendone un’immagine variegata e complessa. La seconda direzione di questa «ricerca di sé» (quella per cui ho parlato di «tentazioni» e dunque di «risposta» a una radicata tendenza eretica) riguarda, per dire così, una dissonanza, un contrasto interno che, riconosciuto in alcune correnti della modernità, ben presto trovò un luogo di consistenza nella sua stessa anima, e da cui, forse, egli non riuscì mai a liberarsi del tutto. Questa dissonanza, questa tentazione, questo contrasto, possiamo riconoscerlo in quell’universo di dissociazione, di dualismo, di rischio gnostico o manicheo, che in certo modo venne a costituire l’architrave di ogni suo pensiero.
     Tale motivo della dissociazione – verso cui Del Noce, a detta dei suoi interpreti e biografi, inclinò seriamente negli anni della giovinezza – lo si ritrova in tutti i passaggi cruciali di questa diagnosi della modernità che volle intraprendere. Lo si trova, anzi tutto, negli studi su Cartesio, che era sì, per Del Noce, il filosofo parzialmente agostiniano della «conquista di sé», ma era soprattutto il pensatore che, alle origini della modernità, aveva separato e, appunto, dissociato l’interno dall’esterno, la ragione dalla fede e dalla storia, innescando quel processo di «disgregazione» che toccherà Malebranche e Spinoza, l’illuminismo e infine Vico, il quale in certo modo riuscirà a restaurare l’umanesimo dopo la crisi libertina e la duplice dissociazione cartesiana e machiavelliana. Ma un’analoga dissociazione, un simile contrasto, agisce anche nella successiva critica del marxismo, perché, in fondo, alla così detta linea «metodologica» di Felice Balbo, e quindi a Franco Rodano e, ancor prima, a Benedetto Croce, viene rimproverato di avere separato quello che non si poteva separare: l’ateismo dal marxismo, il materialismo dialettico dal materialismo storico.
     Il tema della dissociazione – di più, della dissociazione illegittima e quindi capace di generare lunghi travagli storici e transpolitici – attraversa tutta la produzione interpretativa di Del Noce, fino a configurarsi come una chiave ermeneutica fondamentale. Come Paris mette in evidenza, questa dissonanza risuonava acutamente nel suo animo, ed egli l’aveva incontrata, nella Torino di quegli anni e nelle sue letture, in personaggi diversi come Adrian Spir, Piero Martinetti, Jules Benda. Ne aveva approfondito lo studio, fino a riconoscervi l’essenza dell’eresia. Forse influenzato dai due libri di Simone Pétrement sul dualisme, che uscirono rispettivamente nel 1946 e nel 1947, Del Noce arrivò a scorgere nel dualismo, e soprattutto nella forma che esso aveva assunto nell’opera di Piero Martinetti, i motivi di fondo dell’estraneità del divino, ossia l’idea di un Dio redentore ma non creatore, di una religiosità che (come accadeva in Martinetti) tendeva a identificarsi con l’ascesi della ragione filosofica.
     Se tutto questo è vero, come risulta dal libro di Paris, se cioè Del Noce si trovò ad affrontare il problema dell’essenza della modernità e a scorgerne il rischio della dissociazione e del dualismo, bisogna chiedersi come egli cominciasse a scioglierlo: ossia come arrivò a configurare la natura della modernità. Ora, qui è facile cadere nell’equivoco di considerare la filosofia di Del Noce come una critica (se con questa parola – critica – si vuole intendere una negazione, un rifiuto) della modernità: equivoco agevolato, bisogna aggiungere, dalle posizioni politiche che via via egli assunse, e anche dal fatto che spesso, come per esempio nell’interpretazione di Gentile, volle vedere iscritta la politica nella filosofia. Tuttavia, seppure critico del razionalismo moderno, Del Noce non fu, in senso proprio, un avversario della modernità. Anzi, egli cercò di salvare, della modernità, alcuni aspetti essenziali, quali l’umanesimo (come si vede, per esempio, nella ripresa dell’idea scheleriana di homo sapiens, come si trovava nel saggio del 1926 su Mensch und Geschichte) e l’idea stessa di soggetto, sia pure di un soggetto depotenziato e non-creatore, che si presenta piuttosto come disposizione e capacità di accogliere il dono o l’appello dell’essere.
     Che Del Noce non fosse, in senso stretto, un critico o un avversario della modernità, lo si vede dal modo in cui rappresentò l’essenza del moderno. È stato scritto giustamente (da Giuseppe Riconda) che il moderno, per Del Noce, non è segnato unilateralmente dal razionalismo o dall’ateismo, ma piuttosto dallo schiudersi di un’alternativa, di un contrasto, di un urto di possibilità dissociate, dal divaricarsi di linee e catene. Il destino dell’Occidente è nel porsi di questo contrasto, già espresso dalla dissociazione interna del pensiero cartesiano, filosofo del cogito e filosofo delle verità eterne. Quella dissociazione, quel dualismo, che Del Noce aveva incontrato e quasi scacciato da sé, erano stati in certo modo trasferiti e proiettati in questo luogo che è l’essenza del moderno. Non propriamente vinti, o superati, ma trasformati in una dualità di opzioni contrastanti, di cui non si dà un’autentica conciliazione.
     È noto che questa immagine della modernità come contrasto venne rappresentata da Del Noce sulla base del pensiero di due autori, appartenenti a epoche e a sensibilità molto diverse: da un lato Blaise Pascal, con il tema della fede come pari, come scommessa, come opzione; d’altro lato Léon Chestov, la cui teoria Del Noce definisce, nel Problema dell’ateismo, «una messa in chiaro del significato pascaliano dell’opzione ateistica». Chestov considerava il peccato originale come un peccato teoretico, e riteneva, perciò, che ogni filosofia restasse condizionata da un atteggiamento iniziale, da una «opzione» appunto, nei confronti della realtà del male. Mentre il razionalismo considera il male come una necessità ontologica, iscritta originariamente nella struttura del finito e nel limite, la tradizione ebraico-cristiana lo avrebbe considerato come l’esito di un atto contingente della libertà umana (del peccato), rendendo così possibile la redenzione delle creature attraverso un nuovo atto di libertà.
     Seguendo Chestov, interpretandolo (lo si è visto) come la «messa in chiaro» del pari pascaliano, Del Noce arrivò a configurare l’essenza della modernità come il persistere di un simile contrasto; e dunque a considerare il razionalismo come la negazione gratuita, senza prove, del dato rivelato e, soprattutto, della natura contingente del male. Se ora avessimo la possibilità di approfondire questa situazione, molte sarebbero le osservazioni che si potrebbero proporre, e che gli interpreti di Del Noce hanno finora, per la verità, piuttosto scansato che affrontato. La prima, ovvia osservazione, è che l’essenza della modernità si presentava in questo modo a Del Noce proprio nel segno di quella dissociazione, di quell’antitesi latamente gnostica e manichea, che egli, negli anni della giovinezza, aveva cercato di sfuggire, indicandone le origini in Cartesio, in Martinetti, nella concezione «metodologica» del materialismo storico. Ora la modernità si presentava proprio nel segno della dissociazione, come un contrasto senza mediazione, e senza possibile soluzione (perché la soluzione non poteva mai apparire come una Aufhebung, come un superamento, ma soltanto come scelta tra le due opzioni), tra due linee, quella del razionalismo e quella dell’ontologismo platonico-cristiano.
     Il secondo contraccolpo di questa impostazione consisteva nel fatto che, interpretato il razionalismo come opzione e come negazione senza prove del dato rivelato, ne derivava che anche l’opzione religiosa, anche la linea dell’ontologismo, non poteva presentarsi nel segno della necessità, o della verità, presentandosi piuttosto, essa stessa, come una opzione senza prove, come una scommessa. L’ontologismo si delineava bensì come filosofia dell’essere, o almeno (e forse meglio) dell’anteriorità dell’essere al pensiero, ma si iscriveva in un contesto – quello, appunto, del moderno – segnato da una originaria gratuità delle opzioni, cioè in un contesto che si deve definire non-ontologico. L’ontologismo rischiava di configurarsi come parte di un contrasto originario, incapace però di superarlo e di includerlo in un proprio orizzonte di significato.
     Infine, aggiungerei, non tutto tornava in questa critica della negatività del finito. Come è noto, Chestov era ricorso, per rappresentare questa visione ontologica della colpa, al frammento di Anassimandro, al passo in cui si legge che gli enti didònai gàr autà dìken xaì tìsin allèlois tès adixìas:  pagano allèlois, l’un l’altro, dìken, la pena e tìsin, l’espiazione, il castigo, tès adixìas, dell’ingiustizia, del torto, dell’offesa. Ma in realtà, ben oltre l’oscuro verso di Anassimandro, il vero interlocutore di questa tesi della negatività del finito era piuttosto Hegel: lo Hegel che, nella dottrina dell’essere, aveva bensì mostrato che l’essenza del finito è nella negatività e nel perire, ma aveva anche cercato di mostrare che l’infinito (e quindi, se si vuole, lo stesso Dio della tradizione) non si può pensare nel segno della trascendenza, perché è proprio l’infinito a costituire l’essere e la positività degli stessi enti finiti, a sostenerli ontologicamente. Ora, sia nel discorso di Chestov che in quello di Del Noce, il livello ontologico della negatività del finito veniva risolto e assorbito in quello etico del peccato e del male morale, con conseguenze, a mio modo di vedere, non sempre ben controllate. Per un verso si considerava il male come il risultato di un atto libero e contingente, del peccato; ma per altro verso si accusava il marxismo di considerare il male come un prodotto sociale e di volerlo, perciò, riscattare. Da un lato si considerava così la negatività del finito come il risultato di una scelta libera, ma per altro verso si vedeva nel molinismo, cioè nella tesi dell’autonomia e della positività della natura creaturale, una distorsione nella storia dottrinale del cattolicesimo.
     Si potrebbe ricordare che Franco Rodano, il quale pure utilizzò variamente (in discorde, molto discorde armonia con Del Noce) il tema della negatività del finito, arrivò quasi a ribaltare quello schema, interpretando l’ontologismo come l’espressione suprema di quella negatività originaria, e persino come radice teorica dell’integralismo. In effetti, quando Rodano si trovò ad affrontare il problema della finitezza umana (come accadde, per esempio, nelle Lettere dalla Valnerina), mostrò di intendere il cristianesimo come una specie di restaurazione della positività del limite naturale, nei confonti della tendenza religiosa di partecipazione all’assoluto. La sfera creaturale intesa, alla maniera di san Tommaso, come «essere partecipato», veniva perciò a significare una «semplice partecipazione», cioè una partecipazione secundum modum creaturae, come accettazione del limite e instaurazione della sua laica autonomia. Per quanto possa sembrare paradossale, il cristianesimo era per Rodano una religione che aveva salvato la dimensione naturale dalla tentazione dell’assoluto (la aveva salvata, ripeto, e questo è l’elemento paradossale, da una ricorrente tentazione religiosa); per questo, l’esperienza di fede non poteva configurarsi né come un orizzontale «essere per gli altri», dove invece doveva manifestarsi una piena autonomia naturale, né come una verticale partecipazione all’essere, secondo il criterio dell’ontologismo e del realismo metafisico: la religione doveva piuttosto essere vissuta in una incerta esperienza di fede, secondo una verticalità non-ontologica che era piuttosto una libera apertura al divino.
     L’ontologismo di Del Noce, che Paris legge nella complessa genesi dei suoi motivi, risulta dunque, in primo luogo, come relativizzato nell’orizzonte del contrasto fra risposte opzionali alla realtà del peccato e del male, che rappresenta l’essenza della modernità: l’ontologismo ne costituisce un lato, una catena, un’opzione, non il superamento. È il contrasto, e non l’ontologismo, a costituire qui l’orizzonte del mondo moderno. Io credo che questa situazione debba essere considerata come il vero motivo che non consentì a Del Noce di operare quel passaggio dal frammento al sistema, che non gli consentì di dare una forma teoretica al suo pensiero e che lo arrestò in quella grande serie di analisi, di ricerche, di spunti che costituiscono la sua opera. Come si diceva, però, questo ontologismo deve anche essere riguardato nella sua fisionomia specifica. E si diceva che esso non rappresenta una negazione della modernità, non solo perché – ripeto – è iscritto nel contrasto che definisce il moderno, ma anche per alcuni suoi caratteri interni. Perché, in buona sostanza, conserva del discorso moderno (e forse dello stesso razionalismo) alcuni connotati ben visibili: l’idea del soggetto, l’umanesimo, la teoria della libertà.
     Solo che questi elementi si ritrovano, nell’ontologismo di Del Noce, in una forma che si potrebbe definire depotenziata rispetto a quella che, in linea generale, caratterizzava la tradizione del razionalismo. Da un lato, seguendo le lezioni di Malebranche e di Rosmini, l’ontologismo si configura qui come una filosofia dell’anteriorità dell’essere al pensiero, e dunque della rottura (anche qui potrebbe dirsi della dissociazione) dell’identità di pensiero ed essere: le espressioni che Del Noce adopera negli scritti giovanili su Malebranche, quando parla dell’«esperienza della vita spirituale come senso di ricevere un dono», e dove parla di un appello dell’essere, sono chiare in questa direzione.

     Più complesso è il secondo lato della questione, quello che riguarda il pensiero, cioè la soggettività. Del Noce è certamente condizionato dalla critica del cogito (perché il suo Cartesio è certamente il Cartesio del dubbio e delle verità eterne, ma quasi salta la centralità del cogito); è condizionato, inoltre, dalla critica dell’idealismo gentiliano, considerato fin dagli anni giovanili (anche con l’aiuto di un libro di Mazzantini) come un solipsismo e un creativismo. In sostanza, ciò che egli critica del soggettivismo è la duplice pretesa che il soggetto costituisca, con Cartesio, il centro della verità indubitabile, e che si sollevi, con Fichte e Gentile, alla funzione di creazione dell’essere. Ma, seppure depotenziato (cioè privato di questi due caratteri), il soggetto continua ad avere un ruolo nell’ontologismo di Del Noce, in quanto disposizione all’essere e libertà dell’assenso: quindi come risposta all’appello dell’essere e soggetto attivo della partecipazione ontologica. Per quanto possa apparire strano, rispetto a filosofie come quelle del secondo Heidegger, o persino rispetto all’idealismo di Hegel e di Croce, Del Noce conserva uno spazio più largo per una teoria del soggetto (di un soggetto che non è solo sostanza, ma pensiero originariamente scisso dall’essere), come deve accadere, d’altronde, nelle dottrine moderne o protomoderne della partecipazione del pensiero all’essere. Questo è il motivo per cui Paris può parlare, fin dal titolo del libro, di «radici della libertà»: che quindi non è soltanto una posizione politica, segnata dai temi dell’antiperfettismo e dell’antitotalitarismo, ma è anche una posizione filosofica, legata, appunto, a questa funzione depotenziata della soggettività.
PUBBLICATO IL : 23-09-2008
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