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A proposito de "L'illusione di Dio" di Adriana Martino
Una discussione con la regista, gli attori e il pubblico
di Francesco S. Trincia

A proposito de L’illusione di Dio di Adriana Martino, Teatro India, Roma,  16-4-2009
http://www.teatrodiroma.net/adon.pl?act=doc&doc=249

Una discussione di Francesco Saverio Trincia con la regista, gli attori e il pubblico

1. Ogni discorso sulla fede affermata o negata, sul credere o sul non credere, deve prendere le mosse da un riferimento alla prima persona, a colui che dichiara, anzitutto, prima ancora di tentare un’argomentazione a proprio favore, di avere o di non avere fede in Dio, per poi perorare impersonalmente, filosoficamente, il valore di verità, la legittimità concettuale del credere o del non credere in generale. E’ del tutto evidente l’impossibilità che il credente si sottragga ad una ‘testimonianza’ a favore della propria fede,  se intende far valere il valore (di verità, di speranza, di consolazione?) delle fede in quanto tale.
Si noti tuttavia che anche il negatore della fede dovrà comunque partire da un’affermazione in prima persona, dovrà dire: “non credo”, evitando , se è persona sobria e rispettosa della fede per lui inaccessibile, di aggiungere quel che troppo spesso si sente aggiungere da parte degli agnostici. Si tratta di qualcosa che suona come un “purtroppo!” e che è accompagnato non di rado da quello che sembra un sentito rammarico: “vorrei avere la fede in Dio che non ho, perché osservo la maggiore forza spirituale del credente rispetto al laico o all’agnostico”. Rilevo che una persona sobria che si impegni nella difesa delle ragioni della fede partendo, come deve anch’egli, dalla propria esperienza di non credente dovrebbe astenersi da tali espressioni di rammarico, per un motivo che non ha a che fare solo con il buon gusto letterario e psicologico, ma per una ragione teorica molto precisa. Il non credente, infatti, nutrirà nei confronti della fede che egli nega  il rispetto che nasce in lui dal non saperne letteralmente nulla, ossia alquanto paradossalmente dalla consapevolezza di pretendere di negare, respingere, persino confutare, o quanto meno dichiarare assente in sé qualcosa che non conosce. Consapevole della distanza incolmabile che separa ed oppone fede e ragione, capace di intuire il senso della tesi di Leo Strauss che vede i due poli contrapposti al vertice da una sfida non vincibile, il non credente eviterà comunque di ritenere e di far ritenere di sapere qualcosa della fede che non ha, utilizzando  l’espressione del rammarico di un mancato possesso e di una esperienza assente. Di tale atteggiamento il minimo che si possa dire è che esso oscilla tra l’impossibilità pura e semplice e l’inutile ipocrisia.
Se è vero che ogni discorso sul credere e sul non credere, così come ogni apologia della fede o della ragione atea, devono comunque passare attraverso la comune  testimonianza della prima persona, devono cioè iniziare da una sorta di immediato atto dichiarante la propria condizione rispetto all’alternativa che si presenta, è altrettanto vero che subito dopo il punto di contatto che credente e non credente stabiliscono comunque nel dirsi reciprocamente “ io credo” o “io non credo”, si dissolve. Mentre infatti il credente ha in certo senso già detto tutto esprimendo la pretesa che la propria fede si giustifichi con se stessa e chiede il rispetto definitivo che si deve ad un fatto di coscienza  che non può pretendere di essere come tale universalizzato tramite argomentazioni che tentino di convincere il non credente, quest’ultimo si colloca piuttosto entro la prospettiva di una ragione argomentante, che pretende invece di essere riconosciuta universalmente se non nei suoi risultati atei, almeno nel suo argomentare, in quanto cioè ragione discorsiva. Una ragione che argomenta sulla fede e contro la fede è in ogni caso una ragione che pretende legittimamente una condivisione, non accetta dati di fatto che non siano sottoposti a prova, e nel caso in cui giunga a riconoscere le ragioni della fede, lo fa perché incontra una fides quaerens intellectum. Quest’ultima, colta nel rapporto con la ragione, accetta il metodo stesso della ragione, e, qualora esca non annichilita dall’analisi che la ragione ne fa, sarà comunque una fede razionale, e non più la pura fattualità del credere. Essa sarà divenuta comunque un evento che si inscrive entro la ragione illuministica, magari per respingerla e persino rifiutarla, ma pur sempre dopo esser passata attraverso il suo filtro, dopo essersi giustificata con le armi di colei che la fede stessa nega.
Solo la pura fede si oppone dunque alla ragione, non una fede che abbia accettato la sfida con la ragione e che ne risulti, pur nella finale contrapposizione alla ragione stessa, contaminata.
Parlerò ora, come devo, in prima persona. Sono un non credente. Ho fatto ancora una volta qualche giorno fa, in corrispondenza forse non casuale con la Pasqua cristiana, l’esperienza  turistica della religiosità musulmana. Ho ascoltato per varie notti di seguito nella città tunisina di Kairouan il suono gutturale del muezzin, che invoca Allah e ne ricorda la potenza ai credenti. Ho constatato il prodursi in me di una strana e in parte inquietante reazione, che conferma quel che ho osservato fin qui e che testimonia del complesso rapporto tra ragione e fede. Tale rapporto si stabilisce e si mantiene entro la tradizione occidentale, pur quando quest’ultima giunga ai suoi estremi di riduzionismo ateo, à la Sigmund Freud, per intendersi. Avrei potuto reagire al grido strozzato del muezzin  semplicemente  confermando la mia professione di ateo di fronte ad una espressione di fede religiosa di cui a me appariva chiara l’inferiorità spirituale rispetto al  monoteismo ebraico-cristiano. Avrei potuto pensare: questo grido gutturale privo di significato esprime in fondo l’essenza stessa di ogni fede religiosa. Io me ne tengo lontano. Non è cosa mia, come non lo è la religione in generale. Non ho invece reagito così. Mi sono piuttosto ritrovato istintivamente, io non credente, accanto ai credenti ebraico-cristiani, a condividere nella estraneità ad una spiritualità che sentivo non mia una comunanza spirituale che non saprei definire altrimenti che razionale – se della ragione si riesce a fornire una nozione non paurosa della fede, che si attesti bensì nella contrapposizione alla fede, senza tuttavia cessare di considerarla come cosa sua, come suo interminabile problema.

2. Esiste infatti, come ben sapeva il gottloser Jude,  l’“ebreo senza Dio”, Sigmund Freud che mai ritenne il suo riduzionismo nei confronti della fede religiosa capace in qualche modo di confutare il credente, una radicale difficoltà filosofica, persino una impossibilità di fornire al credente una qualche prova della insostenibilità della sua fede. Questo è il punto filosofico centrale di una riflessione  sulla “impossibilità di Dio”, sulla sua illusorietà, sulla sua non verità, che non intenda concludersi con una dichiarazione finale, definitiva, provata, di quell’ateismo che pure l’ateo rivendica a sé, ma tenga criticamente conto della eguale e contraria impossibilità non, si badi, di dimostrare l’esistenza di Dio, ma di sradicare dal credente la sua fede in Dio. Comunque si tenti di compiere un passaggio ulteriore, si è costretti a riconoscere questo punto. Che si riassume nella consapevolezza di una tale problematicità e persino della inutilità, o della superfluità, se non della inanità del compito confutatorio del credente; che impone quale risultato non-conclusivo la constatazione della permanenza del problema, l’impossibilità non di Dio, ma della fuoriuscita filosofica dal problema di Dio, in quanto problema della fede in Dio e non in quanto problema della  dimostrazione concettuale della sua esistenza o inesistenza.
Perché infatti la verità razionale dovrebbe porsi in conflitto con quella che considera la non verità della fede? Vi è una ragione di questo perché? Può la ragione avanzare un qualche suo motivo razionale? È difficile sostenere che sia ovvio, inevitabile, che la ragione deve combattere la fede. Resta quindi necessario fornire una ragione alla ragione stessa, affinché quest’ultima ritrovi non nella differenza radicale dalla fede, nella quale per essenza si colloca e resta, ma nella sconfitta inflitta alla fede, nella fine del credere, la propria identità. Il progetto illuministico del sapere aude, che costituisce la nostra stessa identità moderna, non potrebbe proprio per questo motivo essere abbandonato. Ma è legittimo chiedersi fino a che punto tale identità coincida, resti o cada,  con la sconfitta della fede, con la fine dell’esperienza stessa del credere. Si può forse ritenere che la ragione illuminata possa agevolmente sgravarsi del peso ingombrante di questa dialettica  componente di sé? Si provi a fornire una risposta a quel perchè, al perché si ritenga che la ragione consista nella sconfitta della fede. Si potrebbe naturalmente osservare che la vittoria della ragione sulla fede porta con sé la sconfitta di ogni eteronomia  morale, insieme  alla disfatta, insostituibile per la vita delle liberaldemocrazie, del clericalismo e del fondamentalismo intollerante. Sarebbe una risposta saggia e del tutto opportuna, specie per chi non dimentichi la peculiarità della situazione italiana di oggi.
Ma, qualora si escluda, come pur si deve, che ogni forma del credere, ogni fede ed esperienza religiosa porti con sé tali risultati di illibertà, non si dovrebbe riconoscere che esiste un piano filosofico, teorico, ideale, del confronto tra ragione e fede, che legittima l’obiezione che un laico non sia tenuto a respingere la ricchezza di pensiero, la potenza dello sguardo filosofico che si alza dal mondo a Dio e discende da Dio al mondo, senza chiedersi chi e che cosa concettualmente sia il Dio che pure si nomina?  Non si dovrebbe ritenere che un laico non debba temere, per fare un solo esempio, il pensiero di quella peculiarissima credente che fu Simone Weil, che resta sulla soglia della Chiesa cattolica senza mai entrarvi e che pratica un vero, non chiesastico universalismo, una autentica “cattolicità”, nel cui ambito la ragione stessa serve ad attingere il livello del contatto,  dell’unione passiva con Dio? Perché un laico non credente dovrebbe impegnarsi a confutare il pensiero di una credente che esplicitamente teorizza l’identità dell’amor fati stoico e della verità del Dio cristiano, il quale rinuncia a se stesso e si “decrea” per far essere liberamente lo spazio dove egli non giunge più e dove regna la libertà responsabile degli esseri umani? A che scopo, questo sforzo inane? Perché si dovrebbe temere la fede, nel contesto di una laicità statale costituzionalmente  garantita?

3. Abbiamo dunque di fronte una situazione assai complessa nel contesto del conflitto che comunque oppone i non credenti – gli attori prevalenti in questo spettacolo – e i credenti, che sempre si affacciano qui come di rimbalzo e sui quali incombe la minaccia terribile che la fede sia l’esito della necessità di credere in Dio solo per evitare disastri e mostruosità criminali, giusta la tesi dei Fratelli Karamazov. Nella sfida che, come si è detto, coinvolge entrambi, che li lega inestricabilmente gli uni agli altri è in gioco il senso stesso della ricerca della verità, purché quest’ultima non venga fatta coincidere con la pretesa della unicità della verità rivendicata dalle scienze positive, a ben vedere bisognosa di una verifica e di una dimostrazione almeno altrettanto cogenti di quella che si chiede al credente di esibire per riconoscergli, e anzi per contestargli, la sua fede. Sono in gioco altresì i modi niente affatto ovvi e scontati di questa ricerca, così come e soprattutto è in gioco l’ampiezza semantica della nozione di verità. Una volta fissate distanza e differenze tra ragione e fede, una volta evitati equivoci e compromessi tra loro, quel che si può affermare  è che ragione e fede vanno coltivate dalla critica filosofica in un modo che assomiglia alla convinzione wittgensteiniana che la radicalità della verità  razionale, la sua stessa assolutezza, non escludono che si apra lo spazio che la ragione riconosce a quel che essa stessa legittima come “il mistico”, che questo nome non sia ritenuto equivalente ad un Dio personale verso cui si nutra una fede positiva. Risulterebbe chiaro allora che la sfida che oppone fede e ragione non può, per ragioni filosofiche e non per ragioni di opportunità pratica, fosse anche questa un’opportunità civile e democratica, come vuole Jürgen Habermas, concludersi con la vittoria dei non credenti sui credenti o viceversa. L’apertura problematica che definisce la fisionomia del filosofo laico non coincide né con l’esclusività di una ragione vittoriosa su Dio, né, e a ben maggior diritto, con la esclusività di una fede che pretenda tuttavia di vivere nel confronto con le verità e tra gli affanni del mondo.

4. La domanda che deve restare viva, che non può chiudersi, è dunque quella avanzata da Jacques Bouveresse, lo studioso di Wittgenstein e del rapporto di Wittgenstein con Freud: Peut-on ne pas croire?, “Si può non credere?”, come suona il titolo del suo libro pubblicato a Parigi nel 2007, di cui si dovrebbe tener presente il capitolo Faut-.il defendre la religion?, dedicato appunto a Ludwig Wittgenstein. Secondo Bouveresse, la caratteristica principale dell’atteggiamento wittgensteiniano  è il “rifiuto di adottare una qualsiasi posizione globale e sistematica nei confronti della religione in generale. Il solo punto su cui egli si esprime in maniera categorica e definitiva è la questione se sia legittimo e ragionevole considerare il discorso religioso nel suo insieme essenzialmente confuso e corrispondente a un modo di pensare primitivo, che il progresso della conoscenza scientifica permette oggi all’umanità, almeno in teoria, di superare, anche se essa non lo ha ancora fatto e non lo farà mai completamente. Wittgenstein”, continua Bouveresse, “denuncia giustamente come espressione essa stessa di un punto di vista e di un modo di ragionamento primitivi l’idea che la scienza e la civiltà scientifica possono porre le società moderne al riparo dai timori e dalle speranze di natura religiosa. La conoscenza scientifica non può eliminare ciò che, contrariamente a quel che suggerisce una delle più grandi superstizioni della nostra epoca, non è stato semplicemente né principalmente il prodotto dell’ignoranza” (p. 241).
Questa tesi può fungere perfettamente da critica complessiva dell’impostazione prevalente tra gli autori contemporanei utilizzati nello spettacolo L’illusione di Dio. Non va taciuta, d’altra parte, la preoccupazione di Wittgenstein nei confronti di ciò che, nel suo rapporto con la religione e con il divino, poteva ai suoi occhi assumere l’aspetto di una superstizione. In un appunto dei quaderni di Cambridge e di Skjolden del 1937 citato da Bouveresse, Wittgenstein si interroga sul suo bisogno profondo di credere, accompagnato dal sentimento doloroso di non riuscirvi . “Una fede  nella redenzione grazie alla morte di Cristo”, scrive, “non ce l’ho, o almeno non l’ho ancora. Non avverto neanche qualcosa come il fatto di essere sul cammino di una fede di questo tipo, ma considero possibile che io comprenda qui un giorno qualcosa di cui non comprendo nulla attualmente, che non mi dice niente in questo momento, e che abbia allora una fede che al presente non ho. Io credo di non dover essere superstizioso, ossia che non devo fare per me della magia con le parole che per caso leggo, che non devo scaldarmi parlando al punto di arrivare a una specie di fede, di non-ragione  (Unvernunft). Non devo sporcare la mia ragione…”.
Chi conosce i testi della credente Simone Weil, di colei che ha ritenuto che il mistico non costituisse una smentita del razionale,  sente risuonare echi comuni, echi che consuonano con le convinzioni di questo grande, problematico non credente.

PUBBLICATO IL : 13-05-2009
@ SCRIVI A Francesco S. Trincia
 

 
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