1) Dei rapporti tra Heidegger e Derrida si è parlato a lungo. Si tratta
di una filiazione concettuale piuttosto evidente che comunque non ha escluso oscillazioni
o addirittura nette prese di distanza. A questo proposito il decostruzionismo
sembra rimandare al ben noto concetto di Destruktion e al progetto di una Destruktion
della storia dell’ontologia di cui Heidegger fa cenno nel § 6 di Sein
und Zeit. Quali tracce restano di questa movenza concettuale heideggeriana nell’impresa
decostruttiva tentata da Derrida?
La filiazione è molto evidente sul piano terminologico, ma le due decostruzioni
sono molto diverse. Heidegger si limita a riscrivere la storia della filosofia,
mettendo se stesso in cima, è una operazione puramente storiografica
e accademica, che lascia intatto tutto: la politica (in cui Heidegger è
sempre stato a dir poco conformista), la vita e tutto il resto. Derrida, invece,
smonta per davvero le cose. Se lo immagina, lei, Heidegger che prende posizione
contro gli Stati Uniti nella guerra in Iraq?
2) Il tema della traccia riveste sicuramente un’importanza cruciale
nell’opera di Derrida. Traccia che non è traccia di qualcosa bensì
di ciò che non c’è, che non si presenta né può
mai presentarsi. La traccia dunque rimanda a se stessa nel senso che rappresenta
il momento di una strutturazione non preceduta da nulla ma a partire dalla quale
qualcosa appare. In che modo e in che senso questo insieme di rimandi è
comunque in grado di costituire un orizzonte di senso inteso come orizzonte
della mancanza?
L’idea è semplicemente questa: una presenza piena non si dà
mai, e questo è piuttosto ovvio, persino banale. Se vedo un lato di un
oggetto, non ne vedo un altro. Figuriamoci poi con le persone e con i loro sentimenti.
E se anche, per assurda ipotesi, avessi perfettamente presente l’oggetto,
o l’alter ego, questi prima o poi spariranno, e comunque presto o tardi
sparirò io, me ne andrò o morirò.
3) Nell’opera di Derrida concetti come quello di aporia, di ospitalità/ostilità,
di irriducibilità dell’altro tendono a privilegiare l’aspetto
della conflittualità rispetto a quello dell’accordo e del dialogo.
Il decostruzionismo rivendica la propria peculiarità di contro all’ermeneutica
proprio nel riuscire a dire l’interruzione del dialogo, nel pensare l’interruzione
del dialogo come momento costruttivo e dinamico. In che cosa si consuma più
precisamente questa differenza tra ermeneutica e decostruzionismo?
Semplicemente in questo: l’ermeneutica sostiene che l’interpretazione
è infinita, e che anche il dialogo può durare all’infinito.
Ma è ovvio che non è così. Non si può né
interpretare né dialogare all’infinito, prima o poi, e in genere
più prima che poi, viene il momento in cui si deve decidere e scegliere.
Così anche nel dialogo. Francia e Inghilterra hanno dialogato per anni
con Hitler, sperando che questo portasse a qualcosa, e la storia gli ha dato
torto, è un tipico caso in cui voler dialogare a tutti i costi porta
alla catastrofe, è proprio vero che la strada dell’inferno è
lastricata di buone intenzioni e di pie illusioni: quelle con cui l’ermeneutica
ha dipinto il mondo, indorando tante pillole. Credo che sia questo il nocciolo
delle obiezioni della decostruzione all’ermeneutica, suggerisco di rileggere
in questa luce il confronto tra Gadamer e Derrida nel 1981.
4) Il decostruzionismo è innanzitutto pensato da Derrida come una
prassi della scrittura. Come qualcosa che sfugge costitutivamente a qualsiasi
tentativo di definizione teoretica. Una prassi che vive di pause, di tracce,
di differenze, in particolare nell’intento di decostruire l’identità,
il carattere definitorio e la difesa dall’alterità propugnate dalla
metafisica della presenza. Nell’ultima fase del suo pensiero Derrida sembra
rivolgere questa idea di prassi, attraverso un’attenzione al problema
etico, alla critica della struttura politica e giuridica dell’Occidente.
Si tratta di una cesura rispetto ai primi presupposti del pensiero derridiano
o piuttosto di una logica conseguenza di essi?
Kant scriveva che tutto, alla fine, si risolve nel pratico, e credo che avesse
pienamente ragione. Si giudicano gli uomini dalla vita che conducono, e purtroppo
si giudicano anche i padri dal comportamento dei figli. Mi sembra del tutto
naturale che, una volta sviluppata la propria teoria, un filosofo voglia anche
vederla in atto, è per questo che Platone è andato a Siracusa
e che Nietzsche, purtroppo per lui ma per fortuna per noi, è andato in
manicomio. Senza mire egemoniche di questo genere, credo che l’attenzione
per l’etica del Derrida degli ultimi anni fosse un esito della teoria
sviluppata in precedenza, ma anche un tentativo di far capire che il decostruzionismo
è tutt’altro che un irresponsabile gioco di parole.
5) Nell’ultimo periodo di attività filosofica, riflessione
teoretica e testimonianza di vita sembrano in Derrida fondersi l’una con
l’altra, intrecciandosi indissolubilmente. Si tratta di un tema ricorrente
nella filosofia francese del Novecento (Sartre, Deleuze, Blanchot etc.). Qual
è in Derrida la specificità e il valore di questo intreccio?
Lei dice “filosofia francese del novecento”. E Pascal? E Montaigne?
E lo stesso Cartesio che scrive le Meditazioni Metafisiche nella forma di un
soliloquio, come descrivendo una serie di esperimenti privati sulla propria
coscienza, e anche raccontandoci un poco la sua vita, come sa. Questo modo di
fare filosofia viene molto da lontano ed è molto classico. Derrida, illustre
figlio di quella tradizione, non fa eccezione.
6) Quanto all’eredità filosofica che ci viene lasciata in
consegna da Derrida, cosa occorre secondo Lei abbandonare e che cosa invece
sviluppare e continuare a pensare?
Bisogna liberarsi dal derridismo, dalla maniera, che è il contrario di
Derrida, ed è pura imitazione. In questo senso, certo, bisogna liberarsi
da Derrida (a un certo punto l’ho fatto anch’io, o almeno ho pensato
di farlo o ho provato a farlo, non mi piaceva fare il clone o il clown), e quando
si è ben ben lontani, in altri campi, registri, e in tutt’altri
modi, ci si accorge quanto Derrida abbia contato per noi. Quando ho finito di
scrivere Goodbye Kant! mi sono accorto di aver fatto una decostruzione della
Critica della ragion pura, ma le assicuro che non ci pensavo assolutamente,
quando lo scrivevo.
7) Conclusivamente, Lei che ha avuto l’occasione di conoscere oltre
che il filosofo, anche l’uomo Derrida, che ricordo ne conserva?
Sarebbe un lunghissimo discorso, ho provato a esprimermi un poco su questo
nel mio ricordo a Roma del 9 novembre. Non posso ripetermi qui, e mi limito
a due tratti fondamentali. Primo: è stato l’uomo più innamorato
della vita che io abbia mai conosciuto. Secondo: l’uomo, per come ho potuto
conoscerlo, era all’altezza delle sue opere, il che, in effetti, è
rarissimo. |