Jürgen Habermas, discutendo le tesi kantiane sul diritto internazionale, dice di considerare troppo forte
la forma della «repubblica mondiale» e troppo debole quella della
«lega dei popoli», i due modelli nati dalla rivoluzione americana
e da quella francese. «Immagino una società mondiale - dice - costituita
come un sistema a più livelli. La formazione di una volontà politica
comune farebbe perdere ai global players quel diritto alla guerra una volta in
possesso degli stati sovrani»
Atto di accusa. Intervista al filosofo tedesco. «Il concetto di imperialismo
ha perso ogni pregnanza, tanto che alcuni neoconservatori lo usano in senso
affermativo. Quel che a me interessa è il cambio di paradigma introdotto
dal governo Bush: si è passati dal `realismo' di Kissinger a un falso
universalismo con cui si è giustificata la guerra in Iraq»
Benché affronti temi di attualità politica, il nuovo libro di
Habermas appena uscito da Laterza con il titolo L'Occidente diviso
è una profonda e originale riflessione filosofica che, seguendo il filo
conduttore delle sue ultime opere, mentre disegna criticamente il panorama contemporaneo
propone l'alternativa di una costituzione politica della società mondiale.
Per il filosofo tedesco la scissione che segna trasversalmente i paesi occidentali
è stata provocata non dal terrorismo, ma piuttosto dalla politica degli
Stati Uniti che dopo l'11 settembre hanno ignorato del tutto il diritto internazionale.
La sua diagnosi è pesante: in pericolo è il progetto kantiano
che mira alla abolizione dello «stato di natura» tra gli stati nazionali,
cioè l'iniziativa più grandiosa volta a civilizzare il genere
umano, che oggi conoscerebbe, dunque, una crisi del tutto inedita.
L'occidente è diviso: questa la tesi del suo libro. La divisione
è stata provocata dalle scelte del governo Bush che rappresentano una
rottura inaudita capace di far saltare i vincoli stessi della civiltà.
Il suo, dunque, è un atto di accusa che non si limita però a tacciare
di imperialismo la politica americana. Gli Stati Uniti, con il loro disprezzo
per il diritto internazionale, ricadono nel «falso universalismo»
degli antichi imperi che pretendevano di imporre agli altri i propri valori
e le proprie forme di vita. Il che è in contrasto stridente con l'universalismo
democratico e con il vocabolario dei diritti umani.
Il concetto di imperialismo ha perso oggi pregnanza; alcuni neoconservatori
lo usano in senso affermativo. Quel che a me interessa è il cambio di
paradigma che il governo Bush ha introdotto nella politica estera americana:
si è passati dal «realismo» di Kissinger a un unilateralismo
missionario. Un classico esempio di falso universalismo è il modo in
cui Bush ha giustificato la sua politica in Iraq. Ha messo da parte i principi
e i metodi del diritto internazionale richiamandosi alla validità generale
che avrebbero i valori nazionali della tradizione americana. Evidentemente,
Bush non riesce a immaginare che il proprio ethos politico, così come
lui lo intende, non si adatta a nessuna altra cultura. Quel che è sbagliato
è supporre che ci sia un nucleo universale nella democrazia e nei diritti
umani. E sbagliata è l'arroganza cognitiva che consiste nel giudicare
la propria causa dal proprio punto di vista. Carl Schmitt, di cui discuto la
teoria politica nell'ultima parte del mio libro, denunciando ogni forma di fondazione
universalistica ha buttato via il bambino con l'acqua sporca. Schmitt a mio
avviso non ha capito l'importanza di un universalismo che miri a decisioni non
di parte. Anche le procedure del diritto internazionale sono state introdotte
con l'intento di far intervenire tutte le parti in causa, sollecitandole nello
stesso tempo a considerare questioni controverse dalla prospettiva degli altri.
Fin quando tutte le parti non avranno imparato a relativizzare la propria prospettiva
rispetto a quella degli altri, non saranno in grado di risolvere i conflitti
in modo imparziale.
Lei dice più volte: non è più la «mia»
America. Ed esprime la speranza di un cambiamento. Ma cosa avverrà ora
che Bush è stato rieletto?
La mia generazione, dopo la seconda guerra mondiale, ha avuto l'occidente,
e l'America in particolare, come punto di riferimento culturale. Per me, che
ho fatto sempre parte della sinistra filoamericana, la delusione è tanto
più grande. Ho seguito a Chicago l'ultima contesa elettorale da cui è
emersa la divisione culturale che squarcia la società americana. I modi
di pensare più diffusi in Europa sono in una relazione di affinità
più che mai stretta con la parte liberale della società americana.
Perciò gli sviluppi politici che ci saranno in Europa potrebbero avere
un influsso, anche solo indiretto, sulla polarizzazione d'oltre Atlantico.
Dopo il secolo americano quello appena iniziato dovrebbe essere - secondo
i suoi auspici - un secolo europeo. Nell'appello firmato con Jacques Derrida
e ripubblicato nel suo libro Il 15 febbraio, ovvero: ciò che unisce gli
Europei lei indica nelle grandi manifestazioni di Londra, Roma, Madrid, Barcellona,
Parigi, Berlino, il «segnale della nascita di un'opinione pubblica europea».
Insomma, grazie a una identità che si è sempre articolata nelle
differenze, l'Europa sembra sia per lei una sorta di laboratorio per nuove forme
di governo transnazionale basate sulla solidarietà civica. È così?
No, io non sogno un secolo europeo. Ma una Europa che impari a parlare all'unisono
in politica estera potrebbe forse contribuire a ricordare agli Stati Uniti il
loro ruolo di battistrada verso una costituzione politica della società
mondiale. Se si guarda alla integrazione europea, ci sono oggi ovviamente ben
pochi motivi per essere ottimisti. Già le reazioni alla nostra piccola
azione concertata, che lei ricorda, sono state molto deboli. I media dovrebbero
fare sì che le opinioni pubbliche nazionali serrino le fila.
Sono deluso soprattutto dallo zoppicante tandem Francia-Germania da cui non
vengono più impulsi per la politica europea. Non vedo da nessuna parte
una iniziativa energica volta a consolidare l'Unione Europea: essa dovrà
differenziarsi all'interno per evitare che i passi futuri verso una estensione
dei suoi confini ad est e sudest non le sottraggano ogni capacità politica
d'azione.
Lei si è battuto per una Costituzione dell'Unione Europea che è
stata firmata dopo la stesura del suo libro. Cosa ne pensa ora, dopo la firma?
La ratifica della Costituzione da parte del Parlamento Europeo non significa
gran che. E il processo successivo può contribuire ad affinare l'identità
europea tra i cittadini solo se verrà evitato ogni referendum. A tal
fine dovrà esserci una mobilitazione sufficiente. Alcuni governi hanno
scelto la via di una campagna nazionale. Così ha fatto ad esempio l'Inghilterra
dove ora come ora è possibile che, in caso di referendum, voterebbero
un rifiuto. In questo caso si esporrebbe la Costituzione a un fallimento. Non
possiamo non guardare con ansia a quel che succederà.
La guerra in Iraq - come lei nota - ha approfondito le divisioni già
presenti tra i diversi paesi europei. Il caso dell'Italia mi sembra particolarmente
significativo anche per la schizofrenia che sussiste tra la vocazione europeista
di molti cittadini e la politica del governo palesemente filoamericana. Quale
ruolo dovrebbe svolgere per lei l'Italia, dato che non fa parte di quello che
chiama il «nucleo d'Europa», cioè di quei paesi che avranno
un ruolo politico più attivo?
Se mi permette l'osservazione, il fenomeno Berlusconi, visto dall'esterno,
è molto irritante: la cultura politica del suo paese sembra modificarsi
sempre più profondamente sotto il regime di questo imprenditore mediatico
di successo. Ma l'Italia resta una democrazia e, se la depoliticizzazione di
una società sempre più riorientata verso altri valori non sarà
andata troppo avanti, possiamo ancora sperare che ci sia presto un governo guidato
dall'europeista Prodi. A Roma le proteste di massa contro la guerra in Iraq
non sono state meno imponenti che a Madrid, dove il governo Aznar ha avuto la
risposta che meritava. Un nucleo, o un gruppo di paesi, che dovesse costituirsi
all'interno dell'Unione Europea non sarebbe concepibile senza l'Italia.
Leggendo il suo libro mi hanno sorpreso alcune affermazioni che lei fa
sul modo in cui la Germania sta elaborando il proprio passato. «Il marchio
della Shoah si è trasformato in un monito universale». Così
la «politica della memoria» contribuirebbe a isolare le posizioni
della estrema destra e sarebbe un antidoto per l'antisemitismo sempre in agguato,
per quanto - lei dice - meno violento che altrove. Non voglio soffermarmi qui
né sulle vette raggiunte ultimamente dall'estrema destra né su
quei numerosi rigurgiti di antisemitismo che anche in Germania si nascondono
dietro l'antiamericanismo. Le chiedo però di indicare le responsabilità
dell'Europa: cosa ha fatto per arginare il conflitto fra israeliani e palestinesi?
Non è stata questa una grande occasione mancata? E come può l'Europa
presentarsi da autorevole protagonista sulla scena mondiale se Auschwitz, la
cesura che è al suo centro, riaffiora ovunque nelle forme più
radicate dell'odio razziale?
Lei tocca qui un punto dolente di cui non possiamo fare a meno di parlare.
E giustamente distingue anche tra l'eredità antisemitica dell'Europa
e la responsabilità specifica che noi abbiamo in Germania per lo sterminio
degli ebrei europei e per le conseguenze prodotte da questa frattura della civiltà.
L'antisemitismo è il parto dell'Europa cristiana e nazionalista, divenuta
alla fine anche razzista. Il fatto che dopo Auschwitz, in alcuni paesi europei,
non siamo ancora riusciti ancora a rompere radicalmente con questo modo di pensare
resta davvero una tara. Anche perciò gli Stati Uniti godono in Israele
di una fiducia maggiore di quanta non ne abbia l'Europa, di cui si teme una
presa di posizione a favore della parte araba. A prescindere dalla incapacità
degli europei di assumere una posizione comune, gli Stati Uniti sono stati fino
a poco fa l'unica potenza che abbia potuto esercitare un influsso sulla soluzione
del conflitto tra israeliani e palestinesi, perché vengono accettati
come gli unici mediatori. Tanto più dobbiamo sforzarci in Europa non
solo di prevenire l'odio razziale, l'antisemitismo e la xenofobia nella famiglia
e nella scuola, non solo di affrontarli nel dibattito politico, ma anche di
opporci con coraggio civile per le strade e nelle piazze. Per quanto riguarda
la Germania, qui gli stessi pregiudizi e gli stessi casi di antisemitismo assumono
un peso ben diverso da quello di ogni altro paese. Dobbiamo tener conto della
diffusione dell'antisemitismo che riguarda il 15% della popolazione. Fin quando
questo potenziale è rimasto nell'ombra, o è stato risucchiato
dai partiti democratici, il problema non si è posto. Ma ora è
sorto un clima di paura sociale. Forse anch'io ho sottovalutato le conseguenze
derivanti dal rigetto di un processo di riunificazione non riuscito. In ogni
caso, i neonazisti puntano sempre a «successi» raggiunti con colpi
spettacolari. La questione politicamente decisiva sorgerà quando questi
pregiudizi razziali avranno voce in capitolo nella società. Sembrano
purtroppo contribuire a ciò il pubblico cordoglio per i caduti di guerra
in Germania, avvenuto con ritardo, e un asfittico antiamericanismo che con la
guerra in Iraq ha avuto un nuovo impulso. Siamo ancora al di qua o siamo già
al di là di quello spartiacque oltre il quale i pregiudizi di cui parliamo
rischiano di trovare eco nella società? Sono sempre abbastanza ottimista
per quel che riguarda la forza della vecchia Repubblica federale. Ma lei ha
assolutamente ragione: si può auspicare capacità di azione politica
solo per una Europa che vede chiaro in se stessa quanto basta. Altrimenti finirà
per riprodurre all'esterno i conflitti interni.
Lei riprende il progetto kantiano di una «condizione cosmopolitica».
Ma in che cosa poi se ne allontana?
La parte centrale del libro è costituita da un lungo saggio sullo sviluppo
del diritto internazionale in cui cerco di difendere l'idea kantiana di un passaggio
dal diritto degli stati al diritto cosmopolitico contro idee opposte, soprattutto
contro la visione neoconservatrice del liberalismo egemonico e contro la concezione
elaborata da Carl Schmitt. Kant ha dato alla sua idea due forme diverse; io
considero troppo forte la forma della «repubblica mondiale» e troppo
debole quella della «lega dei popoli». Kant era affascinato dai
due modelli di repubblica che proprio allora erano nati dalla rivoluzione americana
e da quella francese. E poteva immaginarsi un ordine cosmopolitico solo come
uno stato costituzionale democratico in grande formato oppure come una associazione,
liberamente scelta, di singole repubbliche. La chiave per una concezione che
eviti i lati deboli di entrambi i modelli sta, per me, nella idea di una politica
interna mondiale senza governo mondiale. Ma per trovare le forme giuste di un
«governo al di là dello stato nazionale» occorre separare
al livello della organizzazione sovrastatale i tre elementi che nello stato
nazionale sono intrecciati. Nello stato nazionale sono infatti fusi insieme:
la costituzione politica che garantisce a tutti i cittadini la stessa autonomia
privata e pubblica, l'apparato burocratico dello stato che traduce la volontà
politica dei cittadini e dei loro rappresentanti e infine la coscienza della
solidarietà fra i cittadini di uno stato che sanno di essere membri della
stessa comunità politica. Per contro, le organizzazioni internazionali
possono avere una costituzione senza assumere il carattere della autorità
statale. E la solidarietà che ci si aspetta dai cittadini dell'Unione
Europea e dai cittadini del mondo può essere molto più astratta
e modesta di quanto non sia la coscienza nazionale. Se si intuisce come questi
elementi siano separabili, si potrà capire meglio la possibilità
di un «governo transnazionale».
Le tendenze della globalizzazione sembrano assecondare la progressiva costituzionalizzazione
del diritto internazionale e favorire dunque un ordinamento cosmopolitico, non
le pare?
In una società mondiale che, pur crescendo unitariamente si è
differenziata, i problemi che superano i confini e che non possono più
essere risolti nell'ambito dei singoli stati sono sempre più numerosi.
Sono problemi che richiedono coordinamento, cooperazione e la formazione di
una volontà politica comune al di là dei confini nazionali. Mi
immagino una società mondiale costituita politicamente come un sistema
a più livelli. Al di là degli stati nazionali si erge già
oggi l'organizzazione mondiale delle Nazioni Unite. Tra questi due livelli,
però, non è stato ancora sufficientemente sviluppato il livello
transnazionale, quello cioè della formazione di una volontà politica
comune. A questo scopo una Unione Europea, divenuta capace di agire in politica
estera, potrebbe fornire un buon esempio. Su questo piano i governi continentali,
che in tutte le parti del mondo potranno formarsi accanto a potenze mondiali
come gli Stati Uniti o la Cina, dovranno costituire sistemi di negoziati per
affrontare i problemi della politica interna dei vari stati. Penso soprattutto
ai problemi dell'economia mondiale e dell'ecologia globale. Certo ci sarebbero
ancora residui di quella politica di potere che ci è ben nota nelle relazioni
internazionali. Ma almeno i global players perderebbero quel diritto
alla guerra che una volta era possesso degli stati sovrani. Sarebbero infatti
membri di una comunità internazionale che al livello sovranazionale avrebbe
assunto la forma di una organizzazione delle Nazioni Unite riformata. Non è
necessario mutare l'Onu in un governo mondiale che abbia il monopolio della
forza per far sì che svolga le due funzioni essenziali di assicurare
la pace e affermare nel mondo i diritti umani. In questo modo ne risulterebbe,
alla fine, alleggerito il livello sovranazionale della politica in senso stretto.
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