Stride in modo notevole il silenzio calato su Matteo Ricci nella più
ampia cultura italiana da un lato e, dall’altro, la sua importanza storico-culturale
nell’istituzione e nel concepimento dei rapporti tra Europa e Cina, cultura
occidentale e cultura cinese.
Ciò che rimane nell’immaginario italiano tra i giovani e i meno
giovani, in forma anonima, è un verso di “Centro di gravità
permanente” di F. Battiato, dove la vicenda umana ed intellettuale di
Ricci apre uno squarcio di avventura e di mistero, quasi al limite dell’immaginifico:
“gesuiti euclidei vestiti come dei bonzi per entrare alla corte degli
imperatori della dinastia dei Ming”.
Come spesso accade, la realtà si dimostra più avvincente e più
stimolante della fantasia, perché quel verso altro non fa che tradurre
in un’espressione la storia di Padre Matteo Ricci, gesuita, allievo del
grande matematico Cristoforo Clavio che entra in Cina travestito da bonzo tra
mille peripezie e difficoltà per poi essere consacrato dalla Cina, impermeabile
alle pressioni occidentali, “maestro del grande occidente”.
Matteo Ricci nasce a Macerata il 5 ottobre 1552, da Giovanni Battista Ricci
e Giovanna Angelella, e viene educato prima privatamente e poi, a partire dal
1561, nel collegio gesuitico cittadino appena fondato in città. Nel ’68
arriva a Roma, indirizzato dal padre agli studi giuridici, pretesa che disattende
tre anni dopo, per entrare nella Compagnia di Gesù, dove riceverà,
fino al ’77, una preparazione umanistica e scientifica di primo livello,
anno in cui viene destinato alle missioni in Oriente. Da qui inizia l’avvincente
viaggio di Ricci, che da Roma parte per Lisbona dove si imbarcavano le missioni,
destinate a viaggi pieni di ristrettezze, difficoltà, circumnavigando
l’Africa per arrivare a Goa, Cochin, Macao. Ricci giunge a Macao il 7
agosto 1582, per affiancare Padre Ruggeri ad entrare in Cina.
Scrive Filippo Mignini, curatore della mostra e del catalogo:
“Ma come vincere la diffidenza dei cinesi e ottenere un
permesso di viaggio e di soggiorno? Questa era la sfida. Ricci impiegherà
diciotto anni per vincerla. Fu richiesto ai due religiosi di radersi barba e
capelli e vestire l’abito dei bonzi buddisti, tra i quali potevano essere
accolti anche stranieri. Mutarono il loro nome in cinese. Ricci si chiamò
Li Madou; qualche anno dopo, ricevette anche il nome che meglio lo rappresentava
e con il quale verrà comunemente chiamato: Xitai, “maestro del
grande Occidente”. I due bonzi occidentali, aiutati dagli interpreti cinesi
e da persone di servizio, iniziarono con solerzia la costruzione di una casa
all’europea […] che suscitò l’interesse e l’ammirazione
di tutti, l’invidia e il sospetto dei molti. Fu fatta oggetto di sassaiole
e assalti. La curiosità sfrenata e opprimente, la paura e il sospetto,
i sorrisi, gli scherni, il disprezzo, gli insulti che li accompagnavano al loro
passare fecero un giorno esclamare Ricci di sentirsi “spazzatura del mondo”.
Se poca era la considerazione di cui godevano in generale i religiosi buddisti,
ancora minore era quella dei due bonzi stranieri” .
Questa è la difficile e rocambolesca entrata di due padri gesuiti, vestiti
da bonzi, nell’impervio territorio cinese alla fine del sedicesimo secolo,
sottoposti ad intemperie, sacrifici, pericoli inenarrabili. Una volta entrato
in Cina, nell’ ’83, Ricci inizia a definire quella traduzione della
cultura occidentale nei termini, nei canoni del modo di pensare orientale, cinese,
già pubblicando, nel 1584, il primo mappamondo cinese, nell’ ’85
i Dieci comandamenti e il Credo. Nel ’93, trasferitosi a Shaozhou, scrive
il Catechismo in cinese. E’ nell’anno successivo che, Ricci compie
il primo tentativo, fallito di arrivare a Pechino e, tornato a Nanchang, dove
scrive il Trattato sull’amicizia, il suo primo trattato in cinese. Il
primo arrivo a Pechino, nel ’98, è tuttavia vanificato dalla guerra
con la Corea. Il terzo tentativo, che poi avrà successo, sarà
il più duro, perché Ricci e Qu Taisu vengono arrestati dal potente
eunuco Ma Tang – uno di quegli eunuchi che gestivano e monopolizzavano,
al tempo, il potere imperiale. Entra a Pechino l’anno successivo, grazie
ad un decreto imperiale. Matteo Ricci vivrà a Pechino, nella città
proibita, dove rivestiva il titolo di mandarino, fino alla sua morte. Lì
già nel 1602 pubblica un’altra edizione del Mappamondo cinese,
l’anno successivo stampa il trattato “Genuina nozione del Signore
del Cielo”, nel 1605 pubblica un sommario della dottrina cristiana e le
Venticinque sentenze morali, nel 1607 pubblica, con l’amico Xu Guangqi,
la traduzione dei primi sei libri della Geometria di Euclide.
Il 1608 vedono la stampa i “Dieci paradossi o Dieci capitoli di un uomo
strano”, viene iniziata la redazione della Storia della Entrata della
Compagnia di Gesù e Cristianità nella Cina e la quinta edizione
del mappamondo cinese, le cui due parti sarebbero state poste ai lati del trono
imperiale.
Matteo Ricci, Li Madou o Xitai, Maestro del grande Occidente, muore a Pechino
l’11 maggio del 1610. L’imperatore cinese “Wanli, derogando
per la prima volta nella storia della Cina da una ferrea tradizione, concesse
un terreno per la sepoltura di uno straniero che non vi morisse in missione
diplomatica. La tomba di colui che per primo stabilì nella sua persona
e con la sua opera intensi e duraturi rapporti tra l’Europa e la Cina
è onorata ancor oggi a Pechino”. “Che cosa consentì
a Ricci di entrare così profondamente in sintonia con l’anima cinese,
al punto da essere riconosciuto come un figlio di quella terra e considerato
uno dei grandi di quel paese nell’altare elevato a Pechino alla fine del
secondo millennio? La prima ragione – afferma Mignini – sembra essere
stata la sua capacità di riconoscere la Cina come un “altro mondo”.
L’espressione, che è dello stesso Ricci, va presa alla lettera.
Significa anzitutto che egli riconobbe quel paese come un “mondo”,
a differenza di tutti gli altri paesi con i quali l’Europa era venuta
in contatto. La costituivano come “mondo” la sua estensione geografica,
che abbracciava tutte le zone climatiche; la sua antichità, ossia la
sua estensione nel tempo; l’autosufficienza economica, dovuta alle grandi
risorse della natura e a quelle dell’ingegno e dell’arte dei suoi
abitanti; la perfetta organizzazione sociale e politica, superiore a tutte quelle
che la storia aveva fino a quel momento tramandato; la sua forte identità
nazionale. Caratteri distintivi che rendevano la Cina, agli occhi di Ricci,
“la maggior maraviglia che in questo Oriente si ritrova di cose naturali
e soprannaturali”. Se la Cina è un “mondo” nello stesso
senso con il quale lo è l’Europa, si deve anche aggiungere che
essa è un mondo totalmente “altro”, ossia diverso da quello
europeo, contraddistinto dalla civiltà cristiana. L’alterità
della Cina risiede nella lingua, nei costumi, nell’organizzazione amministrativa
e politica, nel pluralismo e relativismo religioso, del tutto estraneo ai canoni
di una religione unica perché vera; nella riunione dei poteri religioso
e politico nella persona dell’imperatore, “figlio del Cielo”;
nella totale secolarizzazione, che spinge a cercare in questo mondo il paradiso.
Ricci era sorpreso nel constatare che i cinesi non riconoscevano altra nobiltà
al di fuori di quella che si può acquisire con le lettere; che non amavano
le armi e la guerra e per questo erano sospettosi e dediti alla propria difesa.
Mentre per lo più l’evangelo era portato a regni e popoli conquistati,
la Cina era un impero non assoggettato ad armi straniere e talmente autosufficiente,
da concedersi persino di voler ignorare l’esistenza di potenze planetarie
come la Spagna di Filippo II. Ricci non entrava in Cina sulle orme di un esercito;
ma da solo, spinto dalla sete di conoscenza e dal desiderio di comunicare il
tesoro della salvezza. La Cina è dunque un altro mondo in duplice senso:
è un secondo mondo, l’unico altro mondo oltre a quello europeo-cristiano;
è alternativo e per certi versi antitetico rispetto a questo. Quando
scriveva che l’obbedienza lo aveva “buttato” nella “fine
della terra” ben sapendo che questa, per la sua sfericità, non
conosce fine, Ricci intendeva affermare che si trovava piuttosto nel “confine”
del mondo, divenuto in qualche modo egli stesso, con la sua persona e la sua
opera, confine tra due mondi. In tale posizione egli è stato uno dei
più grandi artefici dell’apertura del mondo agli inizi dell’età
moderna”.
La mostra “PADRE MATTEO RICCI. L’EUROPA ALLA CORTE DEI MING”
racconta l’avventura umana ed intellettuale di un uomo che non esporta
codici politici o culturali ma tenta una traduzione tanto difficile quanto avvincente
tra due mondi, descrive cioè l’affascinante natura liminare di
Padre Ricci, il suo compito ancipite, quel compito necessario per lasciar dialogare
civiltà costitutivamente diverse l’una rispetto all’altra.
E’ la pazienza di questa traduzione, della riflessione sulla possibilità
della sintesi tra queste culture che porta Ricci dall’essere spazzatura
del mondo al venir considerato Xitai, maestro del grande occidente, cioè
ad esser visto come un esempio di saggezza e di conoscenza. Il percorso espositivo
della mostra è infatti costruito per raccontare una vicenda dalla triplice
lettura: un percorso umano, un percorso culturale ma anche uno sguardo sul modo
in cui, attraverso la paziente opera ricciana, la cultura occidentale e quella
cinese si incontrino e si fondano. La vicenda di Padre Matteo Ricci, raccontata
sin dall’infanzia, fino all’arrivo a Roma, di qui a Lisbona e in
Oriente offre interessanti spunti di riflessione storica su cosa fosse la cultura
romana nel cinquecento, su cosa fossero ed a quali difficoltà andassero
incontro le missioni in Asia, su quale fosse la “tecnologia” che
Ricci poté portare con sé in Cina, astrolabii, orologi solari
poliedrici, della cui costruzione Ricci era stato istruito da Clavio, compendii
astronomici a forma di libro da messa.
A questi oggetti, di notevole interesse storico e scientifico, si aggiunge la
vasta produzione ricciana, gli orologi, le opere che Ricci scrive o traduce
in Cinese e, oggetto meraviglioso (nel senso più pieno della meraviglia),
il Mappamondo ricciano del 1602. A questi oggetti si aggiungono i dipinti a
olio di Ricci, che tanto stupivano i cinesi per la vivacità e la lucentezza
dei colori.
Nel senso di questo passaggio la mostra ospita numerosi pezzi di arte cinese,
di notevole interesse antiquario, dipinti, ceramiche, statue, rendendo in modo
perspicace il mondo che Ricci si trova di fronte, con cui dialoga, i codici
culturali nei quali traduce la sua sapienza occidentale.
Nel momento in cui l’incontro planetario delle culture è divenuto
un fatto, un fatto da cui scaturiscono e scaturiranno conseguenze fondamentali
per il nostro futuro ed il nostro presente, la figura di Padre Ricci rappresenta
una delle chiavi per comprendere la difficoltà, la profondità
e la ricchezza di questo incontro e dialogo, guardando ad un passato che si
attualizza e si carica di significati impensati.
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