1) Vorrei iniziare con una domanda di carattere generale e introduttivo
riguardante il rapporto tra filosofia e letteratura in Sartre. Qual è
secondo lei il ruolo che riveste la riflessione filosofica all’interno
della produzione letteraria di Sartre? Potrebbe ricostruire, nelle sue linee
generali, il travagliato rapporto tra filosofia e letteratura che contraddistingue
l’opera di Sartre e che, a dire dello stesso, trova il proprio epilogo
nel 1963 con la pubblicazione di Les Mots?
Il rapporto tra filosofia e letteratura non mi sembra particolarmente travagliato,
mi sembra invece particolarmente fecondo e riuscito. Non solo perché
il sogno giovanile espresso nei termini iperbolici di “essere al tempo
stesso Stendhal e Spinoza”, Sartre lo ha in qualche modo realizzato, ma
per l’originale ibridazione tra filosofia e letteratura di cui tutta la
sua opera testimonia. Il risultato più innovativo, e unanimemente apprezzato,
è quello prodotto sulla scrittura filosofica: L’Etre et le
Néant si nutre complessivamente di una scrittura letteraria e di
un’immaginazione romanzesca che fanno di un “saggio di ontologia
fenomenologica” una lettura appassionante, sciogliendo in splendide immagini
una concettualizzazione ardua e formule potenzialmente ermetiche. Basti pensare
alle pagine che concretizzano l’analisi della malafede in termini di commedia
della vita quotidiana, attraverso la gestualità fra il professionale
e l’affettato di un “garçon de café”, o quella
della relazione con l’Altro mettendo in scena il corpo e la carezza tra
amanti…
Sul terreno letterario, forse, le cose sono più complesse e non sono
mancate le riserve. E tuttavia non c’è dubbio che con il suo primo
romanzo, La Nausée, Sartre vince una duplice sfida: “dar
forma letteraria a un’idea filosofica”, costruendo un personaggio
e una storia attorno al concetto di “contingenza”; e al tempo stesso
piegare la forma letteraria del diario, tradizionalmente utilizzata per l’esplorazione
della vita interiore, alla scoperta della mancanza di senso del reale quando
la coscienza non lo investa di categorie interpretative, si tratti di oggetti,
luoghi, gesto, corpo. E Les Mots, che chiude il cerchio aperto una
trentina di anni prima con La Nausée, sancisce questa sintesi
di filosofia e letteratura, con un racconto autobiografico permeato di forza
interpretativa alla luce delle nozioni elaborate dal filosofo e con una scrittura
ad alta densità figurale che esibisce il suo carattere letterario e che
rappresenta il massimo impegno sartriano sul piano stilistico. Con un serrato,
sapiente, uso di citazioni e allusioni, riprese e rovesciamenti parodici, lo
scrittore rivendica la sua identità e il suo irriducibile rifiuto di
lasciarsi fissare in immagini codificate, ovvero fa rivivere attraverso l’auto-rappresentazione
quelle analisi della coscienza e della funzione dello sguardo dell’altro
che erano state al centro della sua prima grande opera filosofica..
Ma il discorso vale anche per il teatro, che non è un’illustrazione
della filosofia bensì un’originale drammatizzazione di situazioni
esistenziali e di conflitti morali, attraverso la creazione di situazioni-limite,
di confronti implacabili, di colpi di scena, di dialoghi scintillanti. E si
estende a quelle opere difficilmente classificabili con le quali Sartre ha interrogato
e interpretato altri grandi scrittori, da Baudelaire a Mallarmé a Flaubert,
passando per Jean Genet. Infine, le pagine pubblicate postume, perché
non finite (come La Reine Albemarle ou le dernier touriste) o non destinate
alla pubblicazione (come i Carnets de la drôle de guerre), proprio
in ragione di questo loro particolare statuto, mostrano in maniera ancora più
scoperta il continuo intreccio fra procedimenti letterari e riflessione filosofica.
Il rapporto travagliato è semmai quello fra impegno politico e letteratura.
Su questo terreno, anche per Sartre come per altri scrittori moderni, l’equilibrio
è precario e i prezzi pagati sono alti. Quando, negli anni trenta, Sartre
studia Husserl nella Germania hitleriana (1933-1934) e fin dai primi viaggi
si entusiasma per l’Italia e per Tintoretto nonostante il fastidio delle
camicie nere, quando scrive il saggio sull’immaginazione, La Nausée
e le novelle riunite in Le Mur, tra il 1929 e il 1938, totalmente assorbito
dalla sua passione di farsi scrittore e filosofo, lo fa a prezzo di una totale
sordità rispetto a ciò che avviene intorno a lui, nel mondo reale
e nella coscienza di vasti ambienti artistici e intellettuali che si mobilitano
contro i fascismi, le persecuzioni, l’antisemitismo, l’incombente
minaccia di guerra. E viceversa. Nel ’52, la decisione di abbandonare
il libro sull’Italia a cui sta lavorando e che vuol essere un’altra
grande sfida, La Reine Albemarle ou le dernier touriste, per dedicarsi
a un testo-manifesto, Les Communistes et la Paix, assume il valore
emblematico di una rinuncia più sostanziale che approderà alla
decisione, presa durante la guerra di Algeria, di chiudere con gli scritti di
finzione e di mettere la propria penna al servizio delle ingiustizie. L’intellettuale
impegnato che diventa il portavoce degli oppressi di tutto il mondo e si fa
carico di intervenire sulla sclerosi del marxismo dotandolo di un’antropologia
lo fa a prezzo di una rinuncia alla scrittura letteraria; salvo recuperarla
per sancire e proclamare questa rinuncia nel racconto parodico della propria
vocazione di scrittore, appunto con Les Mots, iniziato nel ’53
e portato a termine una decina di anni dopo.
2) Vorrei ora spostare l’accento su quelle che sono le influenze,
i debiti che Sartre contrae con il mondo delle lettere. Molti sono a cui la
critica fa da anni riferimento per spiegare e rintracciare la genesi del romanzo
e del teatro sartriano. Prima di tutto Flaubert, a cui Sartre dedica l’ultima
e la più voluminosa delle sue opere, poi Stendhal, Malraux, Gide, Proust
e Celine, da cui Sartre riprende, in La Nausée, una delle poche
epigrafi presenti nelle sue opere, e infine gli anglofoni Faulkner, Dos Passos
e Joyce. Qual è a suo avviso la figura più rilevante rispetto
alla quale Sartre, sia per continuità che per contrapposizione, prende
maggiormente spunto per formare la propria originalità letteraria?
Sartre è uno scrittore che si definisce “contro”, come lui
stesso ha visto lucidamente. Da questo punto di vista, fra i nomi che lei ha
citato, si impone quello di Proust, soprattutto negli anni Trenta e per La
Nausée, ma ancora negli anni Cinquanta per quello che si può
ricavare dalle pagine finora ritrovate della Reine Albemarle. E’
uno scrittore che ha praticato in maniera disinvolta quanto insistita il riuso
della scrittura altrui, in un’intertestualità diffusa e puntuale
magistralmente realizzata con una giostra di riprese, ammiccamenti, rovesciamenti
parodici. Ancora una volta, La Nausée è esemplare da
questo punto di vista, polemizzando con Maupassant, ridicolizzando il Malraux
umanista della Prefazione a Le Temps du mépris, riformulando
dal basso la malinconia cara alla letteratura romantica e post-romantica, e
così via. In quanto all’epigrafe di Céline, ha il valore
di un omaggio a una scrittura di cui negli anni Trenta Sartre vede tutto il
carattere dirompente e alla creazione di un personaggio come Bardamu (L’Eglise,
ma anche e soprattutto Voyage au bout de la nuit), un anti-eroe “senza
importanza collettiva, appena un individuo”. Ma La Nausée
non è un caso isolato: Les Mots riprende e amplifica fino alla
vertigine questa scelta stilistica, tanto da far parlare di una scrittura-palinsesto
(si veda la raccolta di studi a cura di Michel Contat, Pourquoi et comment
Sartre a écrit ‘Les Mots’, PUF 1996). Sartre è
anche uno scrittore estremamente attento ai procedimenti narrativi, giustamente
convinto che “ogni tecnica narrativa rinvia a una metafisica”, come
non manca di esplicitare nella sua virulenta stroncatura di Mauriac (1939).
Da qui il suo interesse per gli scrittori americani, della cui lezione si serve
per gli Chemins de la liberté.
Lo stesso avviene nella scrittura per il teatro. Pirandello è il drammaturgo
che sicuramente sente a lui più congeniale; in Strindberg vede un genio
e con Brecht condivide l’estetica dello straniamento anche se con riserve
e riformulazioni. In quanto al riuso, basti pensare che su undici pièces,
due sono “adattamenti” (Kean e Les Troyennes),
due sono riscritture di miti cristiani e classici (Bariona e Les
Mouches) e che tutte, o quasi, si fondano su “prestiti” talvolta
esibiti e comunque ormai puntualmente reperiti dalla più recente critica
(si vedano le “Notices” nell’edizione della Bibliothèque
de la Pléiade, Gallimard 2005). Ma questa pratica dell’innesto
su altri testi (anche sui propri) non toglie nulla alla originalità dei
testi sartriani, semmai ne evidenzia il carattere intrinsecamente dialogico
o, bachtinianamente, pluridiscorsivo.
In quanto a Flaubert, la questione è diversa: si tratta di un confronto
con uno scrittore che ha fatto la scelta della letteratura contro la vita, un
confronto che assume il carattere di un corpo a corpo perché si tratta
anche di fare i conti con un proprio fantasma. Su questo piano, del resto, non
meno interessante è il confronto con Mallarmé, da cui Sartre è
stato altrettanto affascinato e con cui è stato meno severo. Sarebbe
da approfondire, ma penso che l’abbandono dell’ambizioso studio
su Mallarmé stia in una qualche relazione con la decisione, posteriore
di qualche anno, di realizzare quello su Flaubert.
3) Mi sembra che negli ultimi anni gli studi su Sartre si siano particolarmente
concentrati sull’aspetto più fenomenologico della sua produzione.
L’interesse si è rivolto principalmente alla prima produzione filosofica,
quella che intercorre tra la Trascendence de l’ego e L’Etre
et le Néant, nel tentativo di misurare, attraverso la specificità
dell’interpretazione sartriana della filosofia di Husserl, l’apporto
di Sartre al «movimento» fenomenologico della prima metà
del ‘900. Questa prospettiva, che ha l’indubbio merito di rendere
meno vago l’esistenzialismo sartriano, e non solo, mi sembra trascurare
l’aspetto letterario della sua produzione. É possibile secondo
lei rintracciare nei romanzi e nel teatro un approccio, per così dire,
fenomenologico alla narrazione?
Penso di sì, e ancora una volta in maniera più vistosa nei testi
degli anni Trenta, La Nausée e le novelle, relativamente allo
statuto della coscienza, innnanzitutto. Roquentin si vuole privo di vita interiore,
rifiuta la psicologia, è pura coscienza del mondo, che è tutto
fuori di lui, compresa la Nausea da cui è assalito; al suo diario affida
di registrare non un’esplorazione bensì una dissoluzione del soggetto.
Ma anche le sue percezioni degli oggetti risentono di questo approccio; basti
pensare al boccale di birra, alla nauseante evanescenza dei colori, alle metamorfosi
del sedile dell’autobus o della radice del castagno, e così via.
In forme diverse e più mediate anche nel teatro gli oggetti hanno questo
tipo di presenza: penso al “bronzo di Barbedienne” in Huis clos
o alla caffettiera di cui si serve Hoederer e su cui si interroga Hugo nelle
Mains sales. Un vero e proprio esercizio di approccio fenomenologico
mi sembra perseguito nei diari di guerra (pubblicati postumi col titolo di Carnets
de la drôle de guerre), soprattutto quando oggetto dello sguardo
sono i commilitoni.
Però non saprei dire di più sulla questione. Che è tuttavia
del massimo interesse e che non mi risulta sia stata affrontata sistematicamente
rileggendo in questa prospettiva i testi letterari. Varrebbe la pena di farlo,
forse intrecciando le competenze filosofiche e letterarie. Non è facile,
ma un approccio combinato permetterebbe di approfondire e rinnovare le letture
dell’opera sartriana. Personalmente ho fatto un’esperienza in tal
senso con Silvano Sportelli, a proposito della nozione di “autenticità”
quale emerge nella scrittura diaristica dei Carnets (“Ecriture
de soi et quête de l'authenticité », Etudes Sartriennes,
IV, 1990) ; ed è stato appassionante.
4) Veniamo ora al suo libro su La Nausée. Potrebbe sinteticamente
riassumere la sua tesi sul rovesciamento del cogito cartesiano operato da Sartre
nel testo, e quindi tratteggiare la centralità del corpo nel superamento
di una posizione egologica di tipo trascendentale?
Ci proverò, anche se si tratta di un lavoro ormai molto lontano nel
tempo. Cominciamo col dire quali sono stati i miei punti di partenza: 1) l’osservazione
di Georges Poulet, in un bellissimo studio ripreso in Etudes sur le temps
humain (Plon, 1964), che La Nausée può essere letta
come una parodia del Discours sur la méthode; 2) la lettura
del testo originario del monologo di Roquentin, ridotto ed edulcorato da Sartre
su richiesta del consulente legale di Gallimard in quanto suscettibile di incorrere
nel reato di oscenità (M. Contat e M. Rybalka lo danno nelle varianti
in Oeuvres romanesques, Bibliothèque de la Pléiade 1981;
personalmente, ne ho curata la pubblicazione a fronte della versione definitiva
in “Melancholia” seguito da “Eros e Cogito”, In
forma di parole, luglio-settembre 1983). Dagli interventi censori sono
uscite modificate non soltanto alcune fra le tante provocazioni alla morale
dominante bensì quelle ben più nuove (non fosse che per la forma
in cui venivano espresse) a uno dei pensieri fondanti della razionalità
occidentale, attraverso la declinazione del cogito cartesiano nell’iterazione
e nella ridondanza, l’irrisione del dubbio metodico trasformato in oppressivo,
caotico, affastellarsi di pensieri appena abbozzati e giustapposti, l’intrecciarsi
della meditazione filosofica con la volgare concretezza di una fantasia sessuale.
La ripresa caricaturale, in funzione di un rovesciamento dall’essere all’esistere,
è ancorata sul primato del vissuto corporeo, più precisamente
dell’immediatezza della pulsione sessuale e del bagaglio di immagini –
del vischioso, del fallico, della lacerazione, della ricaduta, della violenza
sul corpo altrui e sul proprio - che l’accompagna, in un miscuglio di
attrazione, orrore, angoscia. Provocatoriamente sovrapposti e confusi, i due
linguaggi – della riflessione astratta e del sessuale – non si ricongiungono
a comporre un’unità, a dare spessore a un soggetto, producono al
contrario un effetto di vertigine, che l’abolizione della punteggiatura
mima al livello dell’enunciazione. Eros e cogito sono investiti da una
carica negativa, da uno spirito corrosivo che padroneggia le armi dell’ironia,
della parodia e del pastiche per dare forma e “salvarsi”
trascendendo la “dolorosa ruminazione” e la fascinazione della materia.
5) Il teatro. Lei ha collaborato insieme a Michel Contat alla recente pubblicazione
dell’edizione critica di tutto il teatro di Sartre. Come per i romanzi,
gli avversari politici e culturali di Sartre hanno spesso sostenuto che il teatro
sartriano manca di originalità e di «purezza», essendo una
macchina, un “test” vivente dell’apparato concettuale della
sua filosofia. Ora, come spesso accade, le critiche si basano su una parte di
verità. Lo stesso Sartre considerava infatti il teatro come un’arte
impura, un ibrido con fini pedagogici, nei confronti del quale il romanzo costituiva
la forma letteraria per eccellenza, la rappresentazione totale. Ma poi, con
la solita incoerenza che contraddistingue la produzione sartriana, è
proprio al teatro che Sartre affida il compito di rappresentare e sciogliere
alcune delle problematiche più spinose e aporetiche della sua produzione
teorica. Penso a Les Mouches in cui Sartre di fatto mette in chiaro
il senso del suo umanesimo o al Diable e le bon Dieu a cui affida l’annosa
questione della morale, o opere come Porte Chiuse e la Puttana
rispettosa, in cui Sartre sviluppa e definisce la sua posizione politica.
Qual é dunque la valenza e l’originalità del teatro sartriano?
É possibile una collocazione e una valutazione storico-letteraria della
produzione teatrale di Sartre al di là della semplice valenza pedagogica,
morale e politica?
Sul teatro di Sartre ha pesato troppo a lungo, come un’ipoteca, l’idea
di una subalternità nei confronti della riflessione filosofica, di cui
i drammi non sarebbero che “illustrazioni” o addirittura ”applicazioni”.
Ma è evidente che esso ha una sua autonomia di statuto ed è comprensibile
e godibile a prescindere dall’opera filosofica; se così non fosse,
fra l’altro, non si spiegherebbe il grande successo decretato da un vasto
pubblico, ovviamente non sempre familiarizzato con la filosofia sartriana. Questo
non significa che non esista un nesso con la ricerca filosofica, come del resto
con l’opera romanzesca, e anche con le problematiche politiche. I drammi
si configurano come esplorazioni teatralizzate delle teorie filosofiche, che
sviluppano con diverso linguaggio e che talvolta anticipano, permettono di sciogliere
certe aporie della riflessione teorica, di uscire da certe impasses
dell’opera narrativa, di dialettizzare le posizioni rispetto alle aspre
polemiche politiche, aprendo un’altra scena, che ha un suo linguaggio
e offre altri dispositivi, una scena in cui le tematiche prendono corpo, sono
rappresentate dal vivo e nello scambio di battute fra personaggi presenti in
carne ed ossa.
Inoltre il ricorso alla forma drammatica è per Sartre contestuale a quella
“svolta” di cui avrebbe detto e ripetuto che aveva diviso la sua
vita in due: la svolta prodotta dall’irruzione della storia e dallo sgretolarsi
di una facile buona coscienza. La crisi da cui nasce l’intellettuale militante
del dopoguerra sollecita anche la ricerca di nuove modalità espressive,
di cui quella dialogica si rivelerà la più feconda. E non solo
perché il teatro, oltre che alla lettura è destinato alla rappresentazione
e si configura dunque come strumento più diretto ed efficace rispetto
all’intento politico di “unificare il pubblico”. Le ragioni
sono più intrinseche: la forma drammatica gli si presenta come la più
idonea a esprimere la perdita di una coscienza felice, il disgregarsi di una
prospettiva egocentrica, il carattere problematico e contraddittorio delle relazioni
tra gli uomini, la teatralità dell’esistenza. Nell’arco di
tempo che va dalla guerra alla metà degli anni sessanta il teatro è
la forma letteraria privilegiata per l’espressione di questo nuovo spessore
del reale, di questo dibattito storico e interno; il terreno privilegiato, anche,
per l’espressione della dialettica tra il filosofo, lo scrittore e il
militante
E’ quanto evidenzia già il primo testo teatrale destinato alla
rappresentazione pubblica e alla stampa, Les Mouches. La scoperta della
libertà e dell’azione nell’impatto con un cataclisma storico
- ovvero il passaggio da una libertà al grado zero come quella di Roquentin
a una libertà della scelta nell’azione e nella situazione - annunciata
come tema del ciclo romanzesco iniziato prima della partenza per la guerra,
“Les Chemins de la liberté”, questa scoperta a cui Sartre
non riesce a portare il suo personaggio, Mathieu, trova espressione sulla scena
teatrale. Il dramma gli permette di isolare questa problematica e di metterla
al centro dell’azione, secondo uno schema già collaudato con il
testo di circostanza scritto per e con i prigionieri del campo (Bariona).
Scritto tra l’estate del’41 e la primavera del ‘42 Les
Mouches, attraverso la riscrittura di un mito classico, fa assistere alla
“conversione” di Oreste nell’impatto con una situazione che
rappresenta allegoricamente l’attualità storica – quella
della Francia occupata dalle truppe naziste e doppiamente sconfitta perché
accetta la collaborazione, avvelenata da un’ideologia della colpa e del
rimorso. Nel contempo, le tematiche della libertà e dell’échec,
dell’essere e del progetto, dell’inerzia e della tensione, escono
dalla dimensione teorica (durante e non dopo la redazione dell’Etre
et le Néant) per essere rapportate a precise situazioni e confrontate
con le problematiche dell’azione; senza subire alcuna riduzione, accedendo
al contrario a una dimensione mitica.
Questo spiega come i primi, notevolissimi, studi sulla produzione teatrale di
Sartre (Francis Jeanson, Pierre Verstraeten) ne abbiamo valorizzato i contenuti
e gli apporti originali sul terreno di quella Morale programmata fin dal ’43
e mai compiutamente realizzata. Più recentemente, con l’importante
contributo di John Ireland (Sartre un art déloyal. Théâtralité
et engagement, Jean Michel Place 1994) e con studi puntuali su singoli
drammi, l’attenzione si è spostata sulla drammaturgia, la teatralità,
la natura e le funzioni del dialogo, la pratica dell’intertestualità,
delle riscritture e delle riprese parodiche. La recentissima pubblicazione del
Théâtre complet nella Bibliothèque de la Pléiade,
col suo ricco apparato critico, contribuisce notevolmente a una più articolata
lettura del teatro sartriano, ne evidenzia l’originalità e lo ricolloca
nel contesto (non solo francese) della drammaturgia novecentesca.
6) Infine una domanda di carattere più personale. In questi anni
che ha dedicato allo studio del pensiero sartriano, qual è il lascito,
il suo debito personale nei confronti del pensiero di Sartre?
Ho cominciato a leggere Sartre da adoloscente, La Nausée e
L’Age de raison, come quasi tutti i miei amici, uniti dalle stesse
inquietudini e dalla stessa ricerca di linguaggi diversi da quelli dell’ambiente
scolastico e familiare. Mi sono immediatamente riconosciuta nelle problematiche
e nell’universo sartriano. Da allora, non ho mai smesso di riconoscermi;
nel bene e nel male: i suoi entusiasmi per le prospettive rivoluzionarie, le
sue repulsioni per i potenti e i “salauds”, i suoi errori di valutazione,
la sua scarsa fiducia nella democrazia rappresentativa, la sua diffidenza per
la rigidità delle forme istituzionali, sono stati anche i nostri. Solo
attraverso penose esperienze personali e storiche sono arrivata a prendere le
distanze da alcuni aspetti ideologici, volontaristici e predicatori delle sue
manifestazioni di pensiero e di vita: il modello di coppia aperta, un certo
messianesimo, il presenzialismo, il settarismo di certi giudizi categorici su
altri scrittori, le pretese normative nei confronti della letteratura…Ma
in questa messa a distanza ha svolto un ruolo fondamentale la lettura approfondita
e ripetuta delle sue stesse opere, soprattutto letterarie, che mi ha permesso
da una parte di sviluppare un atteggiamento critico, dall’altra di scoprire
quanto i testi sartriani dicano di più e di diverso rispetto all’immagine
che si è creata del personaggio. Così Sartre, che pure sa essere
talvolta tanto perentorio e incisivo, ha anche sollecitato la riflessione, a
partire proprio dal suo caso, sugli effetti riduttivi e perversi della comunicazione
secondo le leggi del mercato e dell’ideologia.
Gli studi su Sartre non sono stati i primi a cui mi sono dedicata, proprio perché
lo sentivo troppo interno alla mia vita e alla mia formazione per farne oggetto
di ricerca accademica. Ma da quando li ho iniziati, nei primi anni 80, mi hanno
sempre arricchita, permettendomi di approfondire problematiche esistenziali,
etiche e politiche che per il respiro con cui sono trattate, soprattutto nella
forma complessa del linguaggio letterario, non solo portano a un maggiore livello
di coscienza ma producono effetti liberatori. La ricchezza di riferimenti, oltre
che di problematiche, dei testi sartriani mi ha indotto anche a rileggere e
studiare altri scrittori francesi del Novecento e dell’Ottocento, risalendo
fino a Stendhal, e mi ha stimolato una riflessione su persistenze e trasformazioni
sia delle problematiche che dei procedimenti letterari nel lungo arco di tempo
che va dalla Rivoluzione del 1830 agli anni Sessanta, quello di una modernità
segnata dalla conquista della democrazia ma anche da esplosioni di barbarie,
dalla scoperta e dall’angoscia della libertà all’inquietudine
sul senso, dal sospetto verso il linguaggio e dalla fascinazione della parola.
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