Marco Baliani
Attore, drammaturgo, regista. Fin dagli anni ’70 impegnato
nell’attività teatrale, sperimenta varie forme espressive, dall’happening
e l’agit prop, al teatro per ragazzi, fino al più recente
teatro di narrazione, pensato assieme a Maria Maglietta. La sua è
una prospettiva teatrale che, spaziando tra i generi, propone più in
generale un modo di intendere la comunicazione. Come in "Bambini, Mutanti,
Replicanti" pubblicato da La Casa Usher nell’ 1985. O in "Pensieri
di un raccontatore di storie" - saggio pubblicato nel 1991 – dove
ripercorre le tracce dell’oralità lungo un cammino che porta da
Aristotele a Benjamin, da Spinoza a Rilke. Tra le opere teatrali in questo senso
è centrale la rilettura del racconto di von Kleist, Michael Kohlhaas
(1990), con il quale prende il via il percorso più originale di ricerca.
Seguono poi Peer Gynt (1995), Migranti (1996), Tracce
(1996), Gioventù senza dio (1997), tratto dal romanzo di Ödon
von Horvàth, Corpo di Stato. Il delitto Moro: una generazione divisa
(1998) e La crociata dei bambini (1999). Recentemente ha pubblicato
Francesco a testa in giù (Garzanti 2000) e Corpo di stato
(Rizzoli 2003) entrambi nati come eventi teatrali per la televisione, in diretta
su RAI 2 nel 1998 e nel 2000.
Se è mai avvenuto, quale importanza ha avuto l’incontro intellettuale
ed artistico con Pier Paolo Pasolini? In particolare, il suo teatro è
stato fonte di riflessione e di confronto?
Io non ho mai lavorato sui testi di Pasolini dal punto di vista produttivo,
dal punto di vista spettacolare diciamo. Però mi sono confrontato con
il suo pensiero nelle tante forme che ha assunto e la cosa che mi ha in assoluto
toccato di più sono le sceneggiature dei suoi film, non sono neanche
i film stessi ma soprattutto la scrittura delle sceneggiature. Ricordo in particolare
l’ ‘Edipo Re’, ‘Medea’, il ‘Vangelo secondo
Matteo’ ed anche una sceneggiatura molto bella che poi non è mai
diventata un film, si trattava delle Orestiadi che lui doveva fare in Africa
(n.d.r. si tratta di ‘Appunti per una Orestiadi africana’). C'è
un bel documentario in cui lui va ad intervistare studenti dell'università
africana su questa idea di Orestiadi. Questo è stato il primo impatto
forte che ancora continua. Dopo c'è stata la lettura del suo Manifesto
sul Teatro e, se lo si può considerare tale, quello è stato l'unico
incontro che ha prodotto poi un mio lavoro perchè ho svolto a Cremona
alcuni anni fa una sorta di narrazione intorno al Manifesto. Meno interesse
hanno suscitato in me le poesie o gli scritti corsari. Diciamo che delle sceneggiature
dei suoi film ti ho nominato i film epici meno ‘Salò’, meno
‘Orgia’ e ‘Teorema’, questi mi interessavano poco.
Quello che ancora mi interessa di questi lavori di Pasolini è la dimensione
del rapporto linguistico. E' l'idea di poter trattare un materiale mitico con
un linguaggio contemporaneo e quindi è una direzione epica quella che
poi ha tradotto in immagini molto potenti e che forse sono rimaste anche inconsciamente
in molti miei spettacoli. Penso ad esempio alla lama di luce che sbatte sulla
spada di Edipo un attimo prima di uccidere Laio ed è come se quel colpo
di sole lo facesse sbandare nella testa. Quest’idea è tornata quando
ho lavorato con Martone per le immagini inserite nello spettacolo su ‘Lo
straniero’, volevo che ci fosse lo stesso effetto di luce ad illuminare
il protagonista e suggerivo a Martone di guardarsi proprio quell'immagine. Penso
ancora all'albero sotto cui si vaticina in Edipo, quest'albero disperso nel
deserto, l'unica grande acacia sotto cui c'è Tiresia che parla. Queste
immagini assolutamente non verosimili, senza l'intento di ricostruire la Grecia.
Però quel modo di usare le immagini, quel modo di scrivere per quelle
immagini hanno a che fare molto col mio teatro. Con l'idea di un'apertura anti-naturalistica,
non consequenziale, anti-lineare, che è la dimensione epica del teatro,
quindi è il dopo-Brecht. Secondo me Pasolini ha portato avanti un discorso
rivoluzionario che ha le sue radici in Brecht, forse inconsciamente, credo che
lui non avesse avuto grandi rapporti con Brecht.
Pasolini fa dire a Pilade, protagonista dell’omonima tragedia dietro
il quale si potrebbe celare un suo alter ego : “La più grande attrazione
di ognuno di noi è verso il Passato, perché è l’unica
cosa che noi conosciamo ed amiamo veramente. Tanto che confondiamo con esso
la vita”.
1)Quale importanza ha la riflessione sul passato nei tuoi lavori?
2)C’è un passato con la lettera maiuscola, come per Pilade
e Pasolini, nel tuo teatro?
Il passato noi lo guardiamo sempre come un Eden, come il paradiso perduto, perchè
lo trasfiguriamo, perchè ci piace pensare che era meglio di quello che
c'è adesso. Io penso che c'è sempre questa forma di abbellimento
del passato dalla quale bisogna fare molta attenzione: non bisogna cadere nella
nostalgia del passato, Pasolini non vi cadeva. Però c'è da parte
dell'essere umano una tendenza a rifugiarsi nel passato come incapacità
di affrontare il presente.
Per me il passato è un luogo in cui io non vorrei tornare. Poi non sono
un attore o un artista che ha radici, mi sento molto moderno da questo punto
di vista. Io penso che la modernità ha scalfito anzi ha distrutto una
volta per sempre l'idea di comunità ed è meglio così. Non
ha senso ripristinare dialetti, usi, nostalgie di linguaggio, etnie, vedo solo
pericoli in un ritorno di questo tipo di passato. L’idea di Pasolini di
un italiano dialettizzato è giusta, nel senso che non è un ritorno
al dialetto come luogo sacro o santo delle origini, materno, nostalgico. E'
l'idea che il dialetto ti resta dentro e che ha impresso una parte della tua
esistenza a livello emotivo ed è giusto che tu lo usi, ma lo devi usare
o mescolarlo confrontandolo con l'unica lingua che è giusto parlare,
quella più universale possibile, cioè l'italiano. Per cui diffido
molto da quelli che fanno ricerche sul passato.
La mia idea del racconto non è orientata sulla memoria. Il mio teatro
non è un teatro civile e a me non interessa spiegare come è andata
la storia. A me interessa vedere la storia nella misura in cui c'è un
personaggio che muove un conflitto, non un personaggio che spiega come sono
andate le cose, chi sono i buoni e i cattivi. Il fatto che molto teatro adesso
faccia queste cose mi sembra però legittimo, è il segno di una
crisi forte di tutte le altre discipline che dovrebbero fare questo lavoro.
Se c'è un passato particolare cha anima il mio immaginario, è
quello degli anni '50. Il passato della mia infanzia. E’ un territorio
che io continuo ancora a praticare come esercitazione al vivere. lo sguardo
bambino, lo sguardo dello stupore è una traccia continuamente presente
nelle mie opere. Non si tratta di nostalgia o della vecchia idea del fanciullino
ma, come dire, è quello sguardo che ti può spiazzare. Bisogna
ricordarsi che c'è uno sguardo che da anima alle cose. Lo sguardo infantile
è lo sguardo primitivo, lo sguardo che non concepisce una causa ed un
effetto, un tempo lineare. Questo sguardo, per l'attore, per l'artista di teatro
è una cosa da coltivare perchè non è naturale, è
un allenamento.
Ma questo più che un passato potrebbe esser considerata una condizione
biologica, è la dimensione del bambino che guarda con stupore l’esterno
come recita una poesia di Dylan Thomas: essere capaci di guardare ancora con
stupore le cose del mondo senza cadere nella tentazione di dare una spiegazione
a queste cose, di ordine escatologico, di ordine religioso, di ordine esoterico.
E’ la capacità di restare nel mistero.
Se il dramma del personaggio Pilade sembrerebbe quello di essere prigioniero
d’un passato ormai finito che continua a vivere come sogno nel suo presente
scontrandosi contro la realtà crudele che lo circonda, in “Affabulazione”
Pasolini costruisce la figura del Padre a partire dal rapporto con il figlio
proprio attraverso il confronto drammatico tra sogno e realtà: rappresentazione
e visione della realtà del figlio sono enigmi laceranti per il presente
del Padre. E’ un sogno concreto, reale, quello del figlio, che lo rende
ansioso di verità indicibili e intime come quella sessuale.
1)La tensione tra sogno e realtà nel tuo teatro è presente?
2)La ricerca della verità passa per questo contrasto, come nel Pasolini
di “Pilade” e di “Affabulazione”?
Su questo punto non riesco a seguire Pasolini. Se ci deve essere conflitto fra
padre e figlio è per quello che nessuno sa dell’altro, sono le
storie segrete che un padre non dirà mai o che dice in punto di morte
o quando si verifica un momento eccezionale di contatto. Ognuno ha i suoi segreti,
sono segreti che spesso provocano catastrofi psichiche. Tra sogno e realtà
io non riesco a distinguere, per me la realtà è composta di sogni,
non credo alla realtà, ci sono molte cose che si mescolano, tempi che
coesistono. Io penso che noi stiamo qua e contemporaneamente c'è qualcuno
che batte ancora la selce. Non credo all’idea dello sviluppo,
Quello che per Pasolini era importante, la coscienza critica dell'intellettuale,
non è per me un ragionare sulla realtà ma un sentire le realtà
che ci sono intorno e non perchè sono oggettivabili ma come molte realtà
non oggettivabili altrettanto reali di questo tavolo che tocco. La verità
per me passa nell'essere umano che è capace di sentire queste realtà.
Allora è sempre un problema di educazione, di allenamento del sentire.
Bisogna chiedersi come mai la maggior parte delle persone viene educata a non
provare stupore. Oggi poi la mercificazione del reale si è oggettivata
al punto tale che il grande supermercato delle merci va dalla parola al pensiero
alla prestazione sessuale al reality show. Pensare che si possa fare un show
con la pura realtà è la fine dell'immaginazione.
In “Bestia da stile”, opera teatrale esplicitamente autobiografica,
il protagonista Jan a dialogo notturno con Novomesky sulle montagne, sostiene:
“ Questa è indubbiamente una notte non destinata a essere dormita;
ci accomuna nell’insonnia, il bisogno di sperare, e il dovere di sperare.
Chi non spera è un reietto, ha letto male Lenin, se è un intellettuale;
se è un operaio è un modello imperfetto. Siamo agitati dall’incubo
della speranza”.
In quale misura il tuo teatro è agitato dalla speranza ?
Io penso che bisogna partire dalla coscienza di essere disperati. Io seguo
Camus non seguo Pasolini in questo. Il disincanto è l'unica condizione
che ti permette di non cascare nella trappola delle false speranze. In questo
senso non è un incubo per me la speranza. E' una condizione che se è
vera può essere anche non reale anzi immaginaria. Muove cose proprio
perchè è immaginaria, se fosse reale non muoverebbe niente. Il
rapporto con questo tipo di speranza può venire solo a partire da un
essere che è cosciente di essere disperato, cioè di essere senza
speranza. Questo non vuol dire che si tratta di un essere depresso, si dice:
“è disperato allora si uccide”. Non vuol dir questo. Significa
semplicemente che questo mondo non concede il diritto alla speranza come un
orizzonte. Allora per poter costruire un orizzonte di cambiamento bisogna esser
consapevoli prima della condizione assolutamente disperata di noi esseri umani.
Siamo soli, Dio non c'è e siamo animali. La crosta della nostra civiltà
è sottilissima, ci siamo dati una serie di regole ma basta vedere quello
che ci succede intorno per comprendere come queste possano essere abbattute
in un attimo. L'essere umano è senza speranza, può ogni tanto
migliorare la sua condizione attraverso la solidarietà. Come diceva Camus:
il teatro è un luogo di solidarietà, come lo è lo sport.
I luoghi di solidarietà sono l'unico posto dove gli esseri umani coltivano
una speranza, ma è coltivata nell'esser consapevoli che fuori da lì
non esiste.
A noi sembra che in Pasolini la lotta contro la rassegnazione è
legata ad un doppio binario: da una parte il rancore contro l’ipocrisia
della nuova società capitalista rispetto a quella passata, e dall’altra
la continua denuncia contro il nuovo potere che la sostiene.
1)E’ possibile fare del teatro una medicina contro l’ipocrisia
e il potere della “società dei consumi”?
2)E in che senso si può parlare d’impegno per il tuo teatro,
ovvero in che modo si può rintracciare una volontà educativa o
politica nel tuo lavoro?
Non è che è possibile, il teatro dovrebbe essere questo. Il fatto
che mi viene posta la domanda vuol dire che ahimè non lo è. Ma
altrimenti perchè esiste? Il teatro dovrebbe essere esattamente quel
luogo dove è permesso immaginare nuove società possibili, dunque
di fatto una critica alla società esistente. Dovrebbe essere un teatro
politico, nel senso che parla alla polis non nel senso che tratta di argomenti
politici. Non è che se io faccio uno spettacolo sull'olocausto sono più
politico che se ne faccio uno in cui si racconta una storia d'amore. E’
il tipo di linguaggio che uso e come racconto che rende il teatro politico.
Il teatro dovrebbe sempre parlare alla polis, quando rinuncia a questo si capisce
perché qualcuno può chiedermi se il mio teatro è civile.
Allora rispondo che il teatro non è civile, è ‘incivile’.
Il teatro mostra conflitti, non li risolve. Mostra le piaghe, denuncia, fa vedere
le contraddizioni ma non ti da le chiavi per risolverle. Deve mostrare qual'è
la tua malattia, non deve far finta che la malattia non c'è, cosa che
fa la maggior parte del teatro.
Nel suo “Manifesto per un nuovo teatro” per definire cosa intende
per nuovo teatro Pasolini scrive: “esso non nasconde di rifarsi esplicitamente
al teatro della democrazia ateniese, saltando completamente l’intera tradizione
recente del teatro della borghesia, per non dire l’intera tradizione moderna
del teatro rinascimentale e di Shakespeare”. E aggiunge che esso sarà
un “teatro di parola”, dove il pubblico assisterà alle rappresentazioni
“più con l’idea di ascoltare che vedere” e che “ci
sarà soprattutto uno scambio di opinioni e di idee, in un rapporto molto
più critico che rituale”.
Quanto si avvicina al tuo teatro un teatro che prima di tutto è “dibattito,
scambio di idee, lotta letteraria e politica, sul piano più democratico
e razionale possibile”?
Innanzitutto analizziamo quello che dice Pasolini. Non credo che egli ne abbia
tratto le giuste conseguenze. Il teatro ateniese era un teatro commissionato.
Non era un teatro dove l'artista al chiuso delle sue mura perseguiva un'idea
estetica-politica-culturale e la portava avanti. Era un teatro dove una città
decideva di affidare a setto, otto autori il compito di affrontare un tema e
li faceva gareggiare. Oggi non è affatto così. Non credo che ci
sia una società che ha il coraggio di fare una cosa del genere, di indire
ad esempio un concorso drammatico sull'Iraq. L'Iraq è una tragedia già
pronta, ci sono già i personaggi tragici, c'è tutto eppure a nessuno
interessa commissionare un’opera su di essa. Se lo si fa è per
la volontà di un artista sperso nel mondo disincantato perchè
lo ha scelto autonomamente. Bisogna tener conto che l’orizzonte non è
quello ateniese ma quello di una società che non ha interesse a indagarsi.
Il capitalismo borghese non ha interesse ad indagare se stesso.
Pasolini ci dice di tendere ad un teatro capace di rimettere in gioco la discussione.
Quando dice di voler tornare al teatro ateniese del passato, da voce ad una
istanza che può essere accolta soltanto in termini di estetica, di poetica
e non di una logica produttiva. Produttivamente quella condizione lì
non c’è. Non mi meraviglio che Pasolini non considerasse questo
aspetto perché nonostante quanto dicesse, secondo me, Pasolini la dialettica
marxista non la conosceva bene. Nelle sue valutazioni non leggo mai di condizioni
economico-produttive del fare e se non consideri quelle tutto il resto si trasforma
in un’insieme di sistemi simbolici che non si concretizzano mai. Come
funziona la produzione culturale? Quali sono i meccanismi che la producono?
Se non ci si pone queste domande è facile illudersi e parlare di ritorni
al passato, a quello ateniese o a Shakespeare. Allora secondo me di Pasolini
va sottolineata l’idea del ritorno all’ascolto che attraversa con
forza tutta la sua produzione e in particolare il ‘Manifesto’. Quest’idea
è qualcosa di molto forte, più del teatro di parola, del teatro
di poesia e delle sue mistificazioni. Molto bella è l’idea pasoliniana
di un teatro di dibattito che però non significa mettersi a dialogare
con gli spettatori. Lo spettatore è giusto che sia venuto lì perché
tu l’hai convocato, tu hai una responsabilità, lo hai chiamato
lì e devi dirgli perché. Questa devo dire è la responsabilità
di quell’intellettuale che poi si chiama attore. Per me l’attore
è un intellettuale, non è un interprete. La maggior parte degli
attori che lavora nel nostro paese sono degli interpreti: alzano il telefono
e un anno gli propongono di fare Pulcinella e l’anno dopo di fare Amleto.
Io non capisco cosa possa guidarti a fare questo se non la produzione economica,
il sistema produttivo. Sei intercambiabile, sei una merce anche tu.
Nell’ idea di rivalutare il momento dell’ascolto si pone il problema
di una società che è oberata dalle immagini. In questo senso io
leggo Pasolini come un post-brechtiano. Lui si rendeva perfettamente conto che
oramai eravamo sottoposti ad un eccesso di immagini e questo eccesso nel teatro
lui lo rifiutava. Era alla ricerca di un’essenza, della purezza se vuoi.
Era uno che cercava la purezza. La sua formazione cristiano-cattolica si sente
in questo, cercava una sacralità dentro il linguaggio, lui era un esempio
di linguaggio sacro nel cinema, nella poesia, nella letteratura. E’ questo
il suo scandalo.
E’indubbio che nel tuo teatro viene messa al centro la forza della
parola, qual è il motivo di questa scelta e quale il senso della parola
‘civile’ nella tua arte?
Il mio teatro di narrazione è il tentativo di ridare alla parola una
forza simbolica, significante, non esplicativa, immaginifica. La funzione di
chi narra è quella di rendere memorabile alle orecchie dell’ascoltatore
gli eventi che va raccontando. Per renderli memorabili deve suggerire parole
che producano immagini e quindi non ragionamenti. Io voglio parole che producano
nella testa dell’ascoltatore dei corto circuiti e gli permettano di creare
immagini. Il mio scopo politico è spostare gli occhi alle orecchie. Io
penso che questa sia una società ipervisiva, che vede troppo, satura
di immagini. Allora l’unico modo per risvegliare la coscienza critica
è quello di chiudere gli occhi e di aprire le orecchie. In questo modo
lo spettatore è immediatamente costretto a rinnovare il gioco con la
propria immaginazione. E’ una cosa che nessun media gli concede più.
Da questo punto di vista il cinema è esemplare: anche se è un
film meraviglioso non puoi immaginare nient’altro oltre quello che vedi.
Invece nel racconto, mentre ascolti, ricostruisci una tua immagine e sarà
diversa da quella della persona che ti siede vicino. Se uno raccontasse all’altro
Kohlhass diverse sarebbero le storie. Qualcuno vedrà 300 cavalli, un
altro sette, ci sarà chi avrà visto la foresta fatta in un certo
modo chi in un altro. Questo diritto dello spettatore all’immaginazione
è una delle condizioni di quel risveglio di cui parla Brook e dello straniamento
di cui parla Brecht. E’ qualcosa che ha a che fare con la percezione,
io penso che il problema politico oggi sia la percezione. Soprattutto nel nostro
paese più che in altri si è abbassata la soglia della capacità
immaginativa. La percezione si è sempre più omologata ed è
soprattutto una percezione visiva. Il teatro di narrazione prova a muoversi
contro questa situazione senza la pretesa di essere o avere la soluzione. Lavoriamo
sugli antidoti e allora l’antidoto è riconsegnare all’orecchio
una capacità evocativa come fa anche la musica.
A quale pubblico ti rivolgi? Non c’è il rischio contraddittorio
di fare un teatro elitario pur facendo un teatro di critica del reale?
Il teatro è elitario. E’ elitario nella misura in cui chi viene
a teatro sono delle persone che escono di casa e la sera decidono di non accendere
il televisore e invece di prendere una macchina e attraversare la città.
E’ quasi un’impresa, chi lo fa? Una piccola minoranza. Sono gli
stessi che comprano i giornali, le minoranze culturali del nostro paese e continuerà
ad essere così. Questa situazione non mi preoccupa, anzi a maggior ragione
ho una responsabilità perché quelli che vengono non sono persone
qualsiasi, sono persone che hanno fatto già una scelta enorme rispetto
al mondo. Potrebbero benissimo comprare un dvd e restare a casa. Invece ti vengono
a cercare. Quindi tu hai una responsabilità gigantesca e non mi preoccupa
il problema elitario perché io parlo a loro, perché so che loro
mi possono capire, so che possono comprendere quanto voglio trasmettere se riesco
a produrre in loro quel tipo di risveglio che si rigenererà in qualche
altra attività fra le cose che fanno. Una parola ha il potere di trasformare
la vita di un uomo. Bisogna aver fiducia nella parola. Invece la fiducia nelle
grandi rivoluzioni io non ce l’ho più. Negli anni ’70 ce
l’avevo ora non più.
Una caratteristica peculiare del tuo teatro di narrazione può esser
individuata nella scelta di testi letterari. Leggi spesso grandi opere della
letteratura del passato e contemporanea a differenza di altri attori che preferiscono
invece lavorare attorno ad un materiale fatto di documenti storici. Perché
questa scelta?
Prendiamo ad esempio ‘Corpo di Stato’ che ho scritto io. Ciò
che conta è che in quel lavoro non mi sono messo a raccontare come è
stato ucciso Moro e a ricostruire nel dettaglio quei fatti. Io lì raccontavo
il mio conflitto generazionale di quegli anni, parlo in prima persona e lo spettacolo
termina con domande che non hanno risposta. Metto in mostra il problema della
violenza di chi non è un pacifista ma non sta nemmeno con la lotta armata.
Sono in una condizione di piena contraddizione. Il problema non è però
da quale tipo di testo si parte, se è un testo letterario o autobiografico
o filosofico (Tracce parte da un testo di Marc Bloch). Il punto è la
qualità del conflitto che vuoi mostrare e la qualità del linguaggio
che usi per farlo. La narrazione non può essere un cliché, è
ciò che si racconta che determina il modo in cui farlo. Per me la narrazione
non è la soluzione del teatro, è un campo di ricerca e di sperimentazione.
Mi va di usarla come esperimento perché il mio teatro non finisce lì,
è qualcosa di cui faccio tesoro poi quando lavoro con tanti attori. Anzi
è quest’ultimo il vero teatro, il teatro è fatto in tanti.
Il teatro di narrazione in realtà è una fuga dal teatro. Il teatro
di narrazione è il segno di una grande crisi del teatro e non la soluzione.
Alcuni attori scoprono che possono cavarsela da soli stando in scena ma è
tautologico, la storia la sappiamo tutta noi. La sfida è fare ‘Kohlhass’
in quindici non da soli. Allora diventa una sfida politica e alle strutture
economiche perché oggi nessuno ti paga un teatro per quindici attori.
Il teatro di narrazione è stato un ottimo segnale di crisi, la crisi
del teatro dell’Ottocento che era finito. E’ finita quella idea
di attore che interpreta. Ora però bisogna essere capaci di andare oltre
il teatro di narrazione. Il problema è un linguaggio rinnovato che sappia
far tesoro di quanto di nuovo ha permesso la narrazione di sperimentare. Bisogna
essere capaci di riparlare di dramma e questo non sarà il dramma di Cechov,
di Marlowe, di Pinter, quello è finito. Probabilmente sarà un
dramma spezzato, rotto, frammentato, dove la narrazione avrà un forte
ruolo di entrata, di uscita, di presenza. Dobbiamo esser capaci di ricostruire
una drammaturgia per un teatro che ancora non c’è. Io penso che
questa è la sfida. Sarebbe bello esaltare il teatro di narrazione come
una scoperta, in realtà non abbiamo scoperto proprio nulla. Lo sapevano
anche i nostri genitori e i nostri nonni che se qualcuno è capace di
raccontare gli altri stanno attenti. Che cos’è allora che fa venire
800 persone a sentire uno che legge dei racconti e un altro che suona? (n.d.r.
l’intervista è stata fatta poco prima di una lettura da Agota Kristof
con l’accompagnamento musicale di Gianluigi Trovesi e Gianni Coscia).
E’ un pubblico disposto a lasciarsi andare all’immaginazione. Che
si sente attivo. E’ un pubblico maggiormente disposto a inseguire l’immaginazione
suscitata dalla narrazione che non a vedere quattro attori che disperatamente
cercano ancora di interpretare in costume un dramma dell’800. Questo pubblico
non ci crede più, quel teatro non è più credibile. La televisione,
il cinema, hanno ucciso le possibilità insite in quel teatro nel senso
che l’hanno fatto meglio. Se devo vedere qualcosa di verosimile vado al
cinema dove spendono miliardi per farmi credere che quello che vedo sia vero.
Anche questo è un problema che ha a che fare con la trasformazione della
percezione. Da quando è possibile mettere una macchina da presa ad una
distanza vicinissima dal mio volto è completamente messa in discussione
l’idea dell’attore tardo-ottocentesca, quel mondo lì è
finito, non potrò mai far vedere la grandezza dei piccoli movimenti dell’occhio
come potrà fare Robert De Niro davanti a mezzo metro con la macchina
da presa. In teatro questo è impossibile se si tiene conto di quanto
è distante il pubblico. E’ inutile che continui a cercare di fare
quella cosa lì, perché lo spettatore che viene,viene con gli occhi
con cui ha visto De Niro. Nell’Ottocento non c’era cinema, non c’era
televisione e andavi a sentire le grandi emozioni che da quaranta metri un grande
attore sapeva trasmetterti. Proprio perché tutto questo è finito
il teatro avrebbe una libertà, una ricchezza di possibilità enormi
eppure sta ancora inseguendo l’idea di un naturalismo verosimile che è
morto.
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