1) Pensare dopo Auschwitz è uscito nel 1992. Professoressa Benso,
il Suo libro è stato pionieristico in Italia e, probabilmente, in Europa.
La letteratura allora esistente era soprattutto di provenienza americana: forse
per una difficoltà avvertita dal vecchio continente, una sorta di rimozione
della colpa?
Esistono vari motivi per spiegare la mancanza di una riflessione filosofica
su Auschwitz nel suo centro geografico di accadimento. In Europa inizia abbastanza
tardi, e, anche se forse spiace dirlo, molto spesso è occasionata da
domande sul coinvolgimento del pensiero di Heidegger con il nazismo, e dalla
conseguente questione se ci sia qualcosa, nel pensiero heideggeriano e per estensione
europeo, che si presta naturalmente a progetti totalitari. Lontano dai confini
europei, invece, la riflessione su Auschwitz inizia indipendentemente da Heidegger,
anche se, come in Europa, l’interrogarsi teologico è all’inizio
più diffuso di quella filosofico.
Storicamente, molti degli ebrei sopravvissuti all’Olocausto si trasferirono
in America, i più fortunati prima o durante l’accadere di Auschwitz,
altri, reduci, subito dopo. È quindi abbastanza naturale che la riflessione
su un evento che aveva interessato, nei suoi aspetti più drammatici,
soprattutto loro, iniziasse dai soggetti vittime proprio a partire dai nuovi
paesi in cui si trovavano a vivere. Certamente negli anni in cui uscì
il mio volume in Europa si aveva ancora, e forse lo si ha anche adesso, quando
l’indifferenza non prende il sopravvento, un certo giusto pudore a parlare
dell’Olocausto. Forse per ragioni di colpa. In fondo le generazioni che
hanno vissuto durante gli anni del nazismo sono tutte un po’ colpevoli,
anche se non sempre direttamente, e una fenomenologia della colpa assume tratti
interessanti, accomunanti vittime e carnefici. Ma la difficoltà a riflettere
su Auschwitz in Europa era dovuta anche, temo, ad un certo senso di arroganza,
ad un desiderio di voler ricominciare dopo Auschwitz non da Auschwitz ma da
zero, facendo tabula rasa di ciò che era accaduto in precedenza—dar
vita ad un inizio nuovo senza colpe dei padri da portarsi appresso. Di qui il
fastidio, la cocciuta indifferenza rispetto a tutto ciò che riguardava
il passato. Non so se, alla fin fine, il distanziamento geografico e il dilazionamento
temporale fossero dovuti prevalentemente a rimozione o altro (per esserci rimozione
bisogna forse, almeno a qualche livello, riconoscere la colpa); mi sembra evidente
però che alla distanza geografica ha dovuto corrispondere una distanza
temporale, ed oggi il tema di Auschwitz è diventato un luogo di riflessione
filosofica abbastanza comune anche in Europa.
Rimane comunque difficile affrontare tale tema filosoficamente in maniera diretta,
perchè di fronte ad un evento di male così grande abbiamo tutti
le nostre giuste remore, le nostre esitazioni, il nostro timore di farne un
nuovo evento speculativo, e così di strumentalizzarlo, di trasformarlo
in puro oggetto di discorso, da ultimo di esercitare una nuova ulteriore violenza.
Una volta che si decide di parlare di Auschwitz, rimane il problema fondamentale
di come parlarne. Io stessa non sono arrivata ad affrontare questo tema in maniera
diretta, cioé a partire dall’ebraismo, da Auschwitz, o da un senso
di colpa. Ero interessata al problema della violenza nella storia, ed Auschwitz
mi sembrò il caso più eclatante di violenza programmata, consapevole,
deliberata. Così mi sono ritrovata a lavorare sul tema dell’Olocausto.
Ancora adesso, però, mi sembra che il nucleo fondamentale in Auschwitz
sia quello non della colpa ma della violenza, e che la scommessa ancora attuale
sia quella di come affrontare, ed evitare, la violenza nella storia.
2) Nel Suo libro Lei prende le mosse da una forte posizione di Adorno:
«Auschwitz conferma la norma filosofica della pura identità come
morte» (Dialettica negativa p.12). Qui, come Lei fa notare, si
stabilisce un’analogia sconcertante tra prassi dello sterminio di massa,
di cui Auschwitz è il modello, e il pensiero occidentale, in primis la
filosofia kantiana con il suo concetto di autonomia. La Sua tesi è che
Auschwitz costituisce un’arché, interruzione del modo
di pensare metafisico. E’ ancora di questo avviso?
Sì, direi di sì. Auschwitz continua per me a costituire un punto
di svolta fondamentale per il nostro modo di pensare. Ad Auschwitz si sono viste
le aberrazioni, le atrocità a cui le categorie di pensiero sviluppate
dall’occidente possono portare, e hanno infatti portato. In questo senso
Auschwitz costituisce, o dovrebbe costituire, un compimento e una fine. Per
fare degli esempi, non si può più pensare alla libertà
nel senso di assoluta autonomia e indipendenza, al soggetto come a colui che
si struttura in maniera indipendente dall’alterità, o che considera
l’alterità come un mezzo per la propria autoaffermazione, all’universalità
come al predominio dell’identico e dell’uguale, alla ragione come
guida certa e affidabile per un progresso indiscriminato, al linguaggio come
modalità di accesso veritiero al mondo, a Dio come a colui che è
in grado di tenere insieme il senso della storia. Auschwitz ha rivelato non
solo la menzogna ma soprattutto la violenza di tali concetti. La violenza vista
ad Auschwitz però non è puramente concettuale, metaforica. Si
tratta di una violenza fisica che elimina sei milioni di persone, di cui un
numero altissimo bambini. Tutto ciò costituisce sicuramente un problema
morale, riguardante il male radicale manifestatosi nell’evento. Ma si
tratta anche di un problema logico e metafisico: Auschwitz rivela la contraddittorietà
delle categorie della filosofia occidentale, che sembrano procedere in maniera
opposta alle finalità per cui erano state delineate.
Non si tratta qui, sia ben chiaro, di condannarle a spazzatura, in maniera acritica
e indiscrimanata. L’occidente ha visto dei momenti di pensiero altissimo,
ha sviluppato delle categorie di pensiero che rimangono irrinunciabili—il
concetto di persona, il principio di libertà individuale, le nozioni
di diritto e di uguaglianza dei diritti, il concetto di rispetto dei diritti
umani (e forse anche non umani). Ma Auschwitz pone in questione l’uso
indiscriminato di tali categorie, che, se lasciate a se stesse, come quelle
di autonomia e di libertà per esempio, divengono deleterie. Si tratta
allora di richiamarle, per così dire, alla loro bontà, di decostruirle
e orientarle in maniera diversa, ripensandole e riconfigurandole in maniera
tale che Auschwitz non si ripeta, come dice Adorno. Levinas cerca di fare proprio
questo: ripensa le categorie tradizionali non in senso ontologico, ma etico,
e così dà loro un significato nuovo - non al servizio del Medesimo,
ma al servizio di Altri. Auschwitz, allora, costituisce non solo una fine ma
anche un inizio, l’inizio appunto di un modo di pensare diverso. In questo
senso è un arché, ma un’arché che
nasce come una frattura, quindi non un’origine solida, piena, non un fondamento
metafisico. Auschwitz è un buco nero, una voragine che non si lascia
comprendere, ad un tempo dannazione e speranza per il pensiero dell’occidente.
Farne un’origine piena, fondante, metafisica vorrebbe dire strumentalizzare
Auschwitz e così, ancora una volta, far violenza alle vittime.
Ora, vorrei chiarire come il fatto che Auschwitz costituisca un'arché
non implichi per me che esso sia un evento eccezionale, irripetibile, unico,
tale da porre in secondo piano altri eventi di violenza, di male, di sofferenza
accaduti nella storia prima e dopo Auschwitz. Sarebbe irriverente, persino immorale
stabilire paragoni tra forme diverse, o anche simili, di sofferenze. Il male,
il dolore sono uno scandalo sempre, comunque e dovunque si manifestino, chiunque
sia a perpetrarli o a subirli. Ciò che Auschwitz dovrebbe mettere in
luce è proprio tale unicità della vita umana, e quindi di ogni
suo sacrificio; ed è proprio per questo che Auschwitz costituisce un
unicum; non perché sia un apax, ma perché costringe alla
categoria dell’unicum come filtro ermeneutico di interpretazione
storica.
3) In questi ultimi decenni, secondo Lei, è cambiato qualcosa nel
panorama filosofico e culturale, possiamo dirci liberi dalla metafisica dell’identità
che ci ha condotti all’aberrazione dei campi di sterminio nazisti? Auschwitz
ha realmente sancito la morte definitiva di ogni pensiero della totalità?
Rispondere affermativamente richiederebbe un ottimismo che, di fronte alla
situazione storica concreta, agli eventi che leggiamo sui giornali, costituirebbe
una menzogna. No, a livello storico-politico-economico, ma anche culturale,
non mi pare sia cambiato molto; si continua a uccidere, gli innocenti continuano
a cadere vittime di mali terribili che chiamiamo economia di mercato, sviluppo,
globalizzazione, difesa della libertà e della democrazia, religione,
razzismo, sessismo, xenofobia, discriminazioni di vario genere, tutti fenomeni
che in realtà sono vari volti assunti dalla violenza e dall’imperialismo
di un sé cieco nei confronti della vita di altri. Mondo delle idee e
mondo dei fatti non procedono come universi separati. Si vedono più volti
diversi nelle nostre città, ma dubito che a tale pluralismo etnico corrisponda
un vero multiculturalismo diffuso, un rispetto delle differenze profondo e radicato
nella popolazione. Anzi, mi sembra che la xenofobia stia prendendo piede, anche
alimentata da immagini mediatiche e titoli editoriali che presentano l’altro,
il diverso, come un pericolo da cui difendersi, o almeno proteggersi.
Ora, in filosofia si è sicuramente diventati più sensibili a categorie
più rispettose dell’alterità, della molteplicità,
del pluralismo, della differenza, almeno all’interno di certe tradizioni
filosofiche. Tale mutamento di orizzonte e di discorso filosofici è importante,
direi fondamentale. Qui mi sembra che Auschwitz abbia insegnato una lezione—dolorosa,
tragica, ma proficua. Ma fin tanto che il pensiero non trova un corrispettivo
nel mondo della storia e dei fatti rimaniamo a livello di speculazione, che
corre sempre il rischio di rimanere astratta. E il pericolo di un altro Auschwitz
si ripresenta come uno spettro incombente sulla storia. Il problema è
certamente quello, già platonico, della funzione della filosofia nel
mondo della polis. Forse ha ragione Levinas, quando dice che della
pace si può solo avere un’escatologia, e che funzione della filosofia
è disdire continuamente il detto, evitare che il discorso si fossilizzi,
mantenere aperte le domande, insomma, in maniera socratica, esercitare una funzione
critica, dell’individuo e della società. Ma, almeno secondo Levinas,
l’orientamento ad Altri dissolve la separazione netta tra teoria e prassi:
essere etici non significa teorizzare l’etica, ma metterla in pratica,
fare etica, accogliere l’altro che ha fame e sete. Insomma, forse ai filosofi
è richiesto un po’ più di attivismo culturale, politico
e sociale. Forse la filosofia, ancora una volta, come per Socrate, come per
Platone, deve farsi militante in nome di un’ispirazione critica, di un’aspirazione
ad una pace che si può solo dare in forma escatologica. Ricordiamoci
che Socrate stava in piazza, in un luogo pubblico, non nel chiuso di una casa.
Il contesto accademico, delle lezioni e delle classi è forse il primo
luogo, ma non il solo, dove ciò si può mettere in pratica. Già
la pedagogia, i metodi utilizzati, i temi affrontati nelle lezioni di filosofia,
a vario livello, sono una via per implementare un cambiamento che non è
tale se non è radicale. Cioè, se non cambia la vita alla radice.
4) Lei scrive che «l’altro cui il pensiero identificante nega
ogni diritto di cittadinanza è l’ebreo» (p. 17). La teologia
della sostituzione cristiana deve essere considerata anch’essa un «fenomeno
totalitario che, in quanto tale, va abbandonato» (p. 19)? Oppure in che
modo sarebbe possibile una svolta radicale? Il dialogo ebraico-cristiano può
contribuire a questa svolta?
Tutto dipende da come si legge il concetto di sostituzione. Vorrei ricordare
che la categoria della sostituzione ha un ruolo fondamentale nella delineazione
della soggettività etica in un pensatore ebraico quale Levinas, che,
senza mai nominare Auschwitz nel corso dell’opera, tuttavia dedica Altrimenti
che Essere, il libro in cui la sostituzione viene tematizzata, precisamente
alle vittime dei campi della morte e di tutte le forme di odio di un essere
umano nei confronti di altri esseri umani. Fondamentale è allora la domanda:
che cosa, o chi orienta la sostituzione? Il sé o altri? Mi pare che tutto
provenga dalla risposta a tale interrogativo, che capovolge il nostro modo di
rapportarci al mondo, alle decisioni, e ai fatti. Se sostituzione significa
imporre sé sull’altro al punto di rimpiazzarlo, e in questo senso
sostituirlo, allora è chiara la violenza di tale posizione. Se sostituzione
significa farsi carico delle esigenze dell’altro così come dall’altro
formulate, diventarne portatore, portavoce e testimone, allora la sostituzione
è una via praticabile. Insomma, sostituzione come testimonianza, piuttosto
che come rimpiazzamento; sostituzione eteronoma, non autonoma.
Ciò significa, però, rinunciare alla pretesa di essere in possesso
di una verità che si vuole imporre come unica e assoluta. Da una parte
come dall’altra. Non si ha dialogo se ciascuno dei parlanti pensa di avere
un accesso privilegiato alla verità. La verità deriva forse invece
dal dialogo stesso, forse è il dialogo stesso, in cui ciascuno si sostituisce
all’altro nel senso di aprirsi alle esigenze dell’altro e farsene
testimone. Il dialogo mi sembra un tema importantissimo in questo mondo in cui
le differenze sono presenti, ma non sempre apprezzate. Non solo il dialogo tra
cristiani ed ebrei, ma, in questo mondo che ha varcato i confini del Mediterraneo
per diventare davvero globale, il dialogo tra cristiani, ebrei, musulmani, induisti,
buddhisti, scintoisti, ... atei. Il dialogo interreligioso è particolarmente
importante, perché sono proprio le religioni che, in questi tempi di
secolarizzazione, manifestano ancora pretese ultime alla verità. Ma ciò
è pericoloso, perché è proprio da una verità erettasi
ad assoluto che è scaturito Auschwitz.
Ora, sostituzione non significa abdicare la propria identità, ma ricostituirla
come identità aperta. È l’esempio di Abramo, che esce dalla
sua terra e va, e sul suo vagare fonda la sua nuova identità, l’identità
di un popolo stesso. Per rimanere al dialogo ebreo-cristiano, vorrei qui ricordare
come nel Vangelo, nella parabola del buon samaritano, che io ritengo fondamentale
per il senso di tutto il Vangelo, a chi gli chiede chi sia il mio prossimo,
Gesù risponde con una domanda, simile a quella iniziale, eppure di senso
invertito. Chi è stato il prossimo di colui che aveva bisogno perché
derubato e abbandonato sui bordi di una strada, povero ed affamato come lo straniero,
l’orfano e la vedova, le figure bibliche di cui parla Levinas nella sua
descrizione dell’altro? Non si tratta cioé di sapere chi sia il
mio prossimo, ma di farsi prossimo; che è ciò che Levinas ha in
mente, mi pare, con il concetto di sostituzione. Ecco qui un punto di contatto
e dialogo tra due religioni, e chiunque osi avventurarsi sul terreno del dialogo
a mio parere promuove le chances della pace, cioé del non ripetersi di
Auschwitz.
5) Fackenheim scrive che Auschwitz è un «epoch-making event».
Questo tremendum rende impossibile ogni storiografia che si fondi sulla
concezione del tempo storico come di un continuum. Secondo Lei è
casuale che siano stati pensatori di provenienza ebraica a farsi portavoci di
una filosofia della storia altra, fondata sul discontinuo, sulla cesura, su
una critica serrata al «tempo vuoto e omogeneo» (Tesi di filosofia
della storia di W. Benjamin)?
No, direi di no, non è casuale. Ovviamente esistono ragioni bibliche,
che poi vanno a formare l’identità religiosa del popolo ebraico;
la chiamata di Dio costitusce sempre un’interruzione della routine quotidiana.
Inoltre, la storia di Israele, come popolo, non come stato nazionale, è
la storia di continue fratture, cesure, distruzioni. Certamente non la storia
di un popolo vincitore ma di un popolo vinto, quindi impossibilitato a dare
una sua continuità alla storia tramite nozioni quali il progresso, la
libertà, l’imposizione del proprio ordine geo-politico-culturale.
È inevitabile, penso, che la filosofia della storia di cui ci si fa portatori
a livello intellettuale rifletta la propria storia. Dopo tutto, la filosofia
è una riflessione a partire dalla vita.
Ciò che mi pare significativo in questa storia altra, alternativa, è
però la verità che essa racchiude, e cioé il fatto che
la storia, così come la vita, non procede secondo direttive unitarie,
continuative, secondo un’unica trama; ci sono invece fili diversi, che
si intrecciano, si rompono, si annodano, alcuni continuano, altri non vanno
in nessun luogo. E ognuno porta in sé uno spaccato di vita, una verità,
un senso, anche se solo agognato.
6) Lei critica l’ermeneutica filosofica che continua ad operare all’interno
della categoria della continuità. La decostruzione, in quanto pensiero
dell’interruzione, della differance, può considerarsi
una sorta di correttivo della filosofia di Gadamer?
L’idea di una “fusione di orizzonti” mi preoccupa, perché
mi chiedo sempre in che cosa consista tale fusione, se non si tratti, alla fin
fine, di un annullamento o per lo meno un affievolimento delle differenze. Preferisco
la prospettiva di orizzonti separati, anche se in comunicazione. E poi si dà
il problema di quegli orizzonti con cui apparentemente non si ha nulla in comune.
È possibile una relazione ermeneutica con essi? La prospettiva della
decostruzione mi sembra un possibile correttivo, nella misura in cui l’insistenza
è proprio sulla differenza che non accetta di venire ridotta, che sempre
riemerge e rimette in movimento fusioni ormai prese per valide e scontate. Insomma,
una specie di eterna giovinezza che rivitalizza le rughe della vecchiaia e il
suo istinto alla sedentarietà e sedimentazione.
Però anche la decostruzione corre i suoi rischi, che sono quelli della
rivoluzione permanente che non consente l’azione stabilizzante necessaria
alla vita comune e alla soddisfazione delle ingiustizie; della serietà
e gravità della ribellione che diventa protesta fine a se stessa, gioco
edificante; insomma, il pericolo dell’estetizzazione, della filosofia
come pure della politica. Per questo mi sembra che Levinas, questo pensatore
che sulla differenza costruisce un’intera etica, costituisca un importante
correttivo alla decostruzione stessa. Non è un caso, penso, che il suo
nome compaia sempre più spesso come punto di riferimento costante nelle
meditazioni di Derrida, che almeno a partire dal saggio Violenza e Metafisica
ha fatto di Levinas uno dei suoi interlocutori preferiti (oltre che uno dei
suoi amici più cari). Derrida stesso afferma che non si può decostruire
la giustizia. Vale a dire, servono dei punti fermi. L’altro levinassiano
è tale punto fermo.
7) Nel Suo libro Lei sembra affidare il compito della redenzione alla parola
(p. 87). Il narrare storie è l’esperienza di salvezza? Che ruolo
ha il linguaggio nell’economia del ricominciamento? Lei sosteneva che
Auschwitz costituisce anche «un’interruzione nel linguaggio»
(p. 89). Crede che la svolta linguistica del ventesimo secolo appartenga in
modo essenziale al pensiero dopo Auschwitz?
Non so se narrare storie porti direttamente alla salvezza e alla redenzione,
probabilmente no, perché allora la salvezza sarebbe facilmente ottenibile.
Certamente però il narrare mantiene viva la memoria degli eventi passati,
e quindi può costituire, come dice Benjamin, una di quelle piccole porte
da cui può entrare il Messia. Ma senza garanzie. Il ruolo della memoria
è importantissimo per forgiare un futuro diverso. Parafrasando Benjamin,
è con il ricordo dei padri asserviti che si costruisce l’ideale
dei liberi nipoti. Il futuro si nutre del suo passato. Rimuovere la memoria
del passato è come condannarsi ad un futuro vacuo. Solo che la memoria
è labile, un po’ perchè essa stessa debole, incapace di
ricordare tutto, un po’ perchè facilmente falsificabile. Il racconto
allora aiuta ad arginare questi due rischi, serve a contrastare il revisionismo
e l’oblio. Il racconto ha un carattere sovversivo: ci ricorda di altre
possibilità. Inclusa la possibilità che le parole stesse abbiano
un altro significato rispetto a quello dominante. Sicuramente il linguaggio
è importantissimo al ricominciamento. Non si ha ricominciamento senza
memoria, ma non si ha memoria senza linguaggio. Però il linguaggio corre
anche il rischio di essere vuotezza, chiacchiera, imposizione di un proprio
senso al mondo, e quindi da ultimo il rischio è quello del solipsismo
del soggetto, di cui era già consapevole Descartes e da cui ancora Husserl
fa fatica a liberarsi. Ecco perché non si può privilegiare il
linguaggio, ma piuttosto l’esperienza che il linguaggio racconta, l’evento
che il linguaggio narra, la persona che nel linguaggio si fa voce e parola.
Detto altrimenti, il linguaggio è espressione, ed è ciò
a cui esso dà espressione che rimane fondamentale. Il linguaggio è
interrotto ad Auschwitz perchè non riesce ad esprimere ciò di
cui invece vuole parlare. Siamo senza parole, quelle usate precedentemente non
valgono più, perché ciò che è successo vi si sottrae.
Vale a dire, il linguaggio non possiede un’esistenza autonoma, serve alla
comunicazione e all’espressione. Ecco perché la svolta linguistica
del ventesimo secolo mi pare, per certi versi, estranea ad Auschwitz nella misura
in cui si focalizza sul linguaggio come se questo avesse un’esistenza
a sé. Come se si trattasse di un gioco. Bisogna poi intendersi quando
si parla di svolta linguistica. Stiamo parlando della teoria dei giochi linguistici
di Wittgenstein? Della svolta in senso linguistico di Heidegger? Delle varie
teorie ermeneutiche? O della filosofia analitica di stampo americano? In nessuno
di questi casi, mi pare, il linguaggio si è piegato ad ascoltare la voce
delle vittime di Auschwitz, che parla di sofferenza, di dolore, di male.
8) Il 4 aprile Lei ha tenuto una conferenza al Collegio rabbinico di Roma,
organizzata da Donatella Di Cesare. In quell’occasione Lei ha parlato
della «questione dell’innominabilità» di Auschwitz.
La difficoltà di trovare un linguaggio che renda conto di questo male
irriducibile, lo sforzo di non ricadere nel linguaggio della tradizione, sottolinea
una realtà che a molti continua a sfuggire, ovvero che il linguaggio
non è un mezzo neutrale. Ci sono pagine molto interessanti in Pensare
dopo Auschwitz in cui Lei affronta la questione della mistificazione nazista
del linguaggio quotidiano all’interno dei campi di concentramento. Forse
allora il nostro compito è di riflettere sulla non-neutralità
del linguaggio?
È un compito importante; nella misura in cui il modo della relazione
sociale e intersoggettiva è la comunicazione, questo diventa anche un
compito fondamentale. Il linguaggio non è né neutro né
neutrale. Il linguaggio rivela, ma mistifica anche. È la differenza tra
sofistica e filosofia, retorica e dialettica, propaganda ed educazione. Discriminante
è il proprio impegno nei confronti della verità. Non si può
separare l’uso del linguaggio dal soggetto che ne fa uso e, anche se questo
può risultare problematico, dalle intenzioni che si vogliono mettere
in atto. Si è parlato molto di crisi del soggetto. Non si tratta, mi
pare, di abbandonare la soggettività, che rimane essenziale onde poter
mantenere all’opera concetti quali quelli di responsabilità, sostituzione,
accoglienza, ma di abbandonare un certo tipo di soggetto che ha pensato di poter
dar forma al mondo usando il linguaggio di cui egli stesso si avvaleva. C’è
un sogno di onnipotenza nell’idea che Adamo dia un nome alle cose. Certo
Adamo dà un nome alle cose, ma, per fare un esempio recente, quello che
un certo Adamo nord-americano nomina una difesa della libertà e della
democrazia, un altro Adamo iracheno nomina un sopruso, una prevaricazione, e
una difesa di interessi imperialistici. Gli esempi si possono moltiplicare.
Non si tratta qui semplicemente di relativismo del linguaggio e delle visioni
del mondo, ma del fatto che un linguaggio puro non esiste; il linguaggio è
sempre coinvolto nella storia, compromesso, e le parole non fanno che rivelare
una verità parziale—di parte, ma anche in parte, nel senso che
il senso ultimo sfugge al linguaggio, che ne intercetta solo aspetti particolari,
determinati, finiti. C’è sempre di più (o di meno) nelle
parole di ciò che esse a prima vista rivelano. Ecco perché la
dimensione dell’ascolto si fa essenziale: non solo l’ascolto di
chi parla, ma anche delle parole e dei modi con cui il parlante parla, balbetta
o, a volte, non parla affatto. L’ascolto dei silenzi, delle pause, delle
interruzioni che sono carichi di significati, a volte benigni a volte maligni.
9) In questi ultimi anni Lei si è occupata di Levinas, di cui ricorre
quest’anno il centenario della nascita. Qual è la Sua interpretazione
circa il rapporto tra linguaggio, etica ed ospitalità che sta alla base
del suo pensiero filosofico?
Per Levinas il volto dell’altro con cui ha inizio l’etica è,
essenzialmente e fondamentalmente, espressione—invito, appello, comando,
supplica, insegnamento. È tramite il linguaggio che il sé e l’altro
instaurano quel rapporto di prossimità senza riduzione (dell’altro
al medesimo o del medesimo all’altro) che costituisce propriamente l’etica.
Quindi, si potrebbe dire che il linguaggio è etica. Levinas ha delle
pagine molto belle, in Totalità e infinito, sul carattere interrelazionale
del linguaggio. Il linguaggio non nasce in solitudine, nasce invece dall’esigenza
di comunicare un mondo all’altro, di mettere il proprio mondo in comune,
di esporlo alla possibilità della conferma o della smentita. In questo
senso, il linguaggio è già iscritto nell’etica intesa appunto
come il “campo” della possibile relazione intersoggettiva. Il linguaggio
allora è donazione; non donazione di senso, Sinngebung, ma donazione
di sé all’altro e, forse, dell’altro a sé. Donazione
che richiede un’accoglienza. È Derrida a sottolineare come Totalità
e infinito costituisca un immenso trattato sull’accoglienza. Tale
affermazione mi trova concorde. Il linguaggio è accoglienza, accettazione,
riconoscimento dell’esistenza dell’altro, anche quando si fa insulto
o minaccia. Accoglienza che si fa poi risposta—così nasce il dialogo,
o la sua mancanza.
Quando penso al linguaggio in Levinas, però, non posso fare a meno di
pensare, o almeno di avere il sospetto, che per lui il linguaggio non sia linguaggio
delle parole (orali o scritte), ma linguaggio dei gesti, dei fatti. La dimensione
della corporeità, dell’incarnazione, del pensiero incarnato è
fondamentale in Levinas, come emerge chiaramente in Altrimenti che essere
soprattutto a proposito del tema dell’affettività, ma come è
evidente anche in altri luoghi della sua filosofia allorché, ad esempio,
Levinas si lancia in analisi fenomenologiche incomparabili. In un’intervista,
Levinas afferma che l’espressione “Apres vous!” con cui si
apre la porta allo sconosciuto e lo si invita a passare per primo è già
momento etico. Ma cos’è propriamente etico in quest’espressione
verbale? Certo non le mere parole, perché dire “apres vous!”
e poi passare per primi non è etico affatto. Ciò che costituisce
l’etica è invece il riconoscimento dell’altro che avviene
non solo a livello verbale, ma anche e allo stesso tempo a livello concreto,
fattuale, corporeo. L’altro va avanti prima di me, io lo lascio passare,
lo antepongo a me. In questo senso l’etica di Levinas possiede una forte
componente politica, sociale, economica, nel senso che richiama ad una diversa
distribuzione dei beni e delle sostanze, degli averi materiali e non solo spirituali.
E allora anche l’ospitalità diventa una questione di giustizia,
economica prima di tutto—ospitalità nei confronti di chi non ha
casa, lavoro, patria, famiglia, permesso di soggiorno. Insomma, la portata rivoluzionaria
dell’etica di Levinas mi sembra andare ben oltre il linguaggio o le parole
con cui ci esprimiamo, ed è ancora tutta da esplorare.
10) In una nota al Suo libro Lei suggerisce che «la filosofia di
Levinas, elaborata intorno alla nozione centrale del ‘volto’, costituisce
una critica radicale alla genericità e universalità dell’indistinto
[…] si costituisce dunque come possibile risposta ad Auschwitz»
(p. 46). Vorrei che ci chiarisse meglio in che misura, secondo Lei, il pensiero
di Levinas, interpellato dal «grido silenzioso dell’orfano e della
vedova» (p. 124), rappresenta un pensiero a partire da Auschwitz
e dopo Auschwitz.
Levinas stesso dice che il suo pensiero si è sviluppato all’ombra
del presentimento e della memoria di Auschwitz. Mi sembra che questa affermazione
contenga in nuce il senso della sua filosofia. Auschwitz ha annullato
l’altro. Levinas elabora una filosofia dell’altro, a cui poi dà
il nome di etica. Si è spesso detto che Levinas è il filosofo
dell’etica. Per me Levinas è il filosofo della soggettività,
di una soggettività costituita in relazione ad Altri. Fin dai suoi primi
saggi, lo sforzo è quello di ritrovare un’esperienza di trascendenza
del soggetto, cioé un momento in cui il soggetto sia in grado di sfuggire
a se stesso, e di incontrare, senza riduzioni o sottomissioni, un altro da sé.
In questo senso Levinas è un filosofo appartenente alla tradizione di
pensiero francese inaugurata da Descartes. Solo che, e non è un “solo
che” da poco, nel frattempo c’è stato Auschwitz che, non
dimentichiamolo, ha toccato Levinas in prima persona. E allora, dopo Auschwitz,
la via tracciata da Descartes non è più percorribile, bisogna
pensare ad un modello nuovo di soggettività, un modello incarnato, che
risponde e si fa carico delle domande—di spazio vitale, di cibo, di ospitalità—poste
in maniera inderogabile dall’altro. Non un altro generico, indefinito,
e perciò assimilabile, sussumibile in una categoria (lo straniero, l’ebreo,
il terrorista, l’omosessuale, il diverso), ma l’altro nella sua
identità e unicità inalienabile e inesprimibile se non in un volto:
Altri, e gli occhi di Altri che parlano, pongono in questione, interrompono,
chiedono, supplicano e comandano.
Non si dimentichi però che, in tutto questo discorso innovativo, la struttura
formale per il modello di alterità levinassiano è rintracciata
proprio in Descartes, l’origine tematica di quella filosofia del soggetto
che per altri versi ha dato vita all’aberrazione manifestatasi ad Auschwitz.
È la terza meditazione cartesiana, con il suo concetto di dio presente
nel soggetto come un’idea che va al di là del suo ideato, ad offrire
a Levinas la struttura della costituzione di Altri. In questo senso Levinas
tiene insieme ciò che Auschwitz non permetterebbe più di tenere
insieme; solo che lo fa in maniera diversa, lo declina in una direzione imprevista
ma richiesta, esigita da Auschwitz. Non si dà più soggetto, eppure
si dà ancora soggetto, ma si tratta di una soggettività etica,
non totalitaria ed ontologica. Frattura e continuità, interruzione e
memoria. Auschwitz, prima e dopo.
11) In Violenza e metafisica Derrida sostiene che Levinas non
sia riuscito a trovare il linguaggio “giusto” in Totalità
e infinito. Poi Levinas scriverà Altrimenti che essere.
Crede che sia riuscito a tracciare quella che Lei chiama un’ermeneutica
dell’ascolto? Ha trovato le parole…?
Totalità e infinito è un libro scritto nel linguaggio
della tradizione. Per questo è più facile da seguire, da capire,
perchè ci parla il linguaggio a cui siamo abituati. In fondo, ci richiede
meno attenzione, meno ascolto. Io penso che Levinas abbia preso sul serio la
critica di Derrida, e che in qualche modo Altrimenti che essere costituisca
la risposta a tale critica. Certamente Altrimenti che essere è
un libro più difficile, e una difficoltà fondamentale ha a che
fare proprio con il linguaggio ivi impiegato. Un linguaggio fatto di iperboli
la cui natura metaforica non è del tutto chiara e accertata (penso ad
esempio all’uso del concetto di maternità), di ripetizioni—in
un certo senso, un linguaggio poetico, che evoca più che argomentare,
che suggerisce ma senza esplicitare. Un linguaggio molto poco filosofico, che
spiazza chi invece del linguaggio filosofico, logico, argomentativo ha fatto
la propria insegna. A questo punto si apre però tutta la questione, non
ancora completamente esplorata, della funzione dell’arte per e in Levinas,
e più in generale la questione del rapporto tra linguaggio artistico
e linguaggio filosofico. Ritorniamo così al tema, letterario, del racconto.
Sì, forse Levinas, con questo linguaggio che propriamente filosofico
non è, è riuscito a dar vita ad un’ermeneutica dell’ascolto.
Costringe il lettore ad andare oltre il significato delle parole a cui siamo
abituati; costringe ad ascoltare con nuove orecchie, ad ascoltare di più,
e forse meglio. In fondo l’ermeneutica dell’ascolto richiede pratica,
esercizio. Leggere Altrimenti che essere costituisce un esercizio in
questo senso; è una lettura impegnativa, non da poco. In essa si è
costantemente posti di fronte ad un disdire il detto—ciò che è
stato appena detto, ma anche ciò che la tradizione ha detto, fissato
in termini che sono diventati patrimonio scontato del vocabolario filosofico.
12) Le figure levinasiane dell’orfano e della vedova chiamano in
causa il problema della sofferenza umana. La seconda parte di Pensare dopo
Auschwitz è dedicata alla questione della teodicea. Lei analizza
le varie risposte che sono state date a tale problema (sofferenza vicaria; eclissi,
colpevolezza o morte di Dio, etc.), giungendo ad elaborare un concetto di Dio
debole, profugo, in esilio, privato dell’attributo di onnipotenza di cui
lo aveva rivestito la teologia razionale. Un Dio che si ritrae – secondo
il movimento dello tzim-tzum luriano – affidando all’uomo
la responsabilità di ricongiungerlo alla sua Shekinah. Quando
Levinas parla di una passività più passiva di ogni passività,
di una responsabilità anarchica anteriore ad ogni iniziativa, un debito
che precede qualunque contrazione di colpa preliminare, mette in crisi tutta
una serie di paradigmi filosofici e teologici di cui sembra difficile, se non
impossibile, potersi disfare…
Ma non si tratta di disfarsene. Si tratta di scoprire in tali paradigmi filosofici,
in tali concetti, implicazioni diverse, risonanze nuove eppure già là.
Ancora una volta, si tratta di disdire, di rimettere in movimento termini che
si sono irrigiditi, che sono diventati mortiferi. Per questo nel mio libro si
parla sì di un Dio debole ed impotente, ma come di uno dei vari aspetti
del volto di Dio: il volto che ci si rivela in questi frangenti di male radicale.
Per quanto riguarda Levinas, io non credo che egli inventi niente di nuovo.
I concetti nominali a cui fa riferimento sono quelli della tradizione classica:
sé e altro, il bene, l’etica, la giustizia, la responsabilità,
la creazione, Dio, la pace, la violenza. Quali nuovi concetti, a parte forse
quello di volto, che però è un’immagine per esprimere un
concetto tradizionale seppur non frequentato, quello di Altri, vengono introdotti
da Levinas? E tuttavia il contenuto di tali concetti assume una forma nuova.
Piuttosto che inventare, Levinas semplicemente si richiama ad una tradizione
che, nella storia della filosofia occidentale, è presente, seppur in
margine, ed è presente proprio nella tradizione che parla greco (o le
lingue derivate). Ricordiamo ancora una volta l’idea di Dio in Descartes
come struttura formale dell’alterità. O il tema del soggetto, nella
cui difesa sia Totalità e infinito che Altrimenti che essere
sono stati scritti. O pensiamo a come anche i filosofi da Levinas più
criticati, quali Hegel, Spinoza, Plotino, persino Heidegger, vengano poi riabilitati
in qualche loro aspetto. Se vogliamo, Levinas legge la tradizione greca, le
sue categorie concettuali, con chiavi di interpretazione ebraiche. Nel far ciò,
apre entrambe le tradizioni a prospettive finora forse inosate; in ogni caso,
mette in contatto le due tradizioni. Il “nuovo inizio” che Levinas
vuol forse far valere non è unilateralmente greco, come nel caso di Heidegger.
Ma non è nemmeno del tutto ebraico, dato che Levinas non smentisce mai
il carattere greco della filosofia. Si tratta di un senso molto genuino di conversazione
tra due parti in cui l’apporto di ciascun dialogante viene salvato ma
senza essere conservato nel suo aspetto iniziale. Si tratta di declinare, come
si declinano i nomi greci, latini o tedeschi, non di eliminare. Ciò che
causa la declinazione non è una necessità interna ai concetti,
ma un loro contatto con l’altro. Non dimentichiamo che il titolo di una
delle opere principali di Levinas non è Totalità o infinito,
ma Totalità e infinito. È la natura di tale “e”
(“e” della prossimità, direi io) cha va forse indagata.
13) Il concetto centrale nella teologia dell’impotenza divina è
il fatto che Dio spinge all’impegno nel mondo. Qual è la Sua posizione
in merito al nesso tra responsabilità umana e impotenza divina?
Il richiamo alla responsabilità umana è la conseguenza necessaria
dell’impotenza, o meglio debolezza, divina. In quest’epoca di secolarizzazione,
di ateismo, ma anche e allo stesso tempo di intransigenza e fanatismo religiosi,
mi sembra che tale richiamo alla responsabilità umana costituisca un
fattore di emancipazione dell’essere umano, di crescita, di raggiugimento
della maggiore età, di rafforzamento, ma anche di dialogo tra prospettive
diverse. È troppo facile, troppo comodo, ma anche infantile delegare,
imputare a Dio la ragione per le proprie azioni, siano esse buone o cattive,
così pure come aspettarsi da un fantomatico Dio onnipotente la soluzione
ai problemi del mondo. Non è Dio che vuole o fa la guerra, siamo noi.
Vogliamo la pace, facciamoci operatori di pace. Vogliamo un mondo più
giusto, lavoriamo per la giustizia. Dove tutto ciò si verificherà,
là ci sarà Dio. Ma il rapporto con Dio passa attraverso il rapporto
con l’altro, e rispetto all’altro io sono sempre chiamato in causa
in prima persona, non per interposta persona quale può apparire appunto
la divinità. Sono io che ti nutro, non Dio; sono io che ti uccido, non
la volontà di Dio, che appare piuttosto come un vantaggioso schermo dietro
a cui nascondersi. Sta a noi, alle nostre forze, al nostro coraggio salvare
(o perdere) il mondo; il “ritiro” del Dio onnipotente dalla scena
del mondo rende il nostro compito più arduo (niente consolazioni facili
o reti di sicurezza su cui ricadere), ma anche il nostro merito più grande
nel momento del successo—o la nostra colpa più grave nel momento
del fallimento. Insomma, l’indebolimento di Dio è un elemento di
umanizzazione. Tale indebolimento della presenza divina è anche un elemento
che rende forse possibile un ritorno di Dio, o a Dio, come colui che dà
un senso ultimo al mondo. Un teologo protestante che ha avuto un ruolo fondamentale
nella mia formazione filosofica grazie all’insegnamento del mio maestro
Ugo Perone, e cioé Dietrich Bonhoeffer, anche lui morto vittima dei campi
di concentramento nazisti, parla di un riportare Dio al centro del villaggio
ma in una dimensione di pienezza, non di vuoto o di bisogno. Dio non può
essere un tappabuchi per le nostre incertezze, le nostre mancanze, uno schermo
per i nostri desideri di potere altrimenti inattuati. Viviamo la vita in pienezza,
nella completa responsabilità delle nostre azioni, come se Dio non ci
fosse, e lo ritroveremo là, nella sua debolezza, come un centro di gioia,
di generosità, un sovrappiù capace di arricchire un senso che
è già là nelle nostre esistenze perché tale senso
l’abbiamo già creato noi. Allora avremo sia l’essere umano
che Dio. Non credo al rapporto gerarchico, ma a quello di collaborazione tra
essere umano e Dio. Leggo in questo senso anche il tema cristiano della kenosis
di Dio.
14) Come Dio è in esilio, così anche noi siamo già
sempre esiliati, desideriamo «un paese nel quale non siamo mai nati»
(p. 36). Non c’è origine, non c’è mai un a casa
propria, una patria. La relazione del faccia a faccia non annichila la distanza,
è desiderio che va verso un’alterità assoluta, inanticipabile.
Quali difficoltà pone un pensiero che tenta di pensare l’assenza
d’origine?
Non sono sicura di voler parlare di un’assenza di origine. Il rischio
dell’assenza di ogni origine mi pare sia quello di un vuoto che o risucchia,
come nel nihilismo più duro e puro, o legittima ogni posizione e bandiera,
come nel relativismo più spinto che impedisce ogni giudizio di valore
e quindi ogni condanna delle ingiustizie del mondo, o rende possibile l’autoerigersi
di certe verità, che verità non sono, a valori assoluti in mancanza
di ogni elemento stabile—l’origine appunto—su cui fondare
la propria resistenza a tale sopruso. Insomma, nihilismo, relativismo, e fanatismo
mi sembra siano risultati possibili dovuti ad una stessa mancanza di origine.
Preferirei parlare, invece, di un’origine che si disorigina, per così
dire, cioè che continuamente si erode per ricostituirsi, riconfigurarsi,
ricrearsi in forma nuova, diversa, inanticipabile, incontrollabile, in risposta
anche a sollecitazioni esterne, altre. Un’origine che non si costituisce
mai come una patria o una fissa dimora, e che perciò delegittima ogni
tentativo nazionalista di un tracciamento di confini, di barriere, di stati.
Non c’è un dentro e un fuori, che a loro volta rendono possibili
inclusioni ed esclusioni, marginalizzazioni, e discriminazioni. Ovvero, se di
confini si può parlare, sono confini che sono già subito extraterritoriali,
aperti all’alterità e al diverso perché l’origine
è già sempre altrove. In questo senso, siamo in esilio perché
l’origine è in esilio, sempre ospite, sempre in balia della generosità
e dell’ospitalità altrui. A noi non resta che ripetere tale gesto
di ospitalità, nella possibilità che, nel nostro gesto di accoglienza,
chi ospitiamo sia proprio chi ci costituisce: l’origine.
Negli ultimi anni ho riflettuto molto, anche per motivi strettamente personali,
sul tema della maternità come possibile categoria filosofica, cioè
non biologica e capace di operare in maniera trasversale rispetto ad ogni questione
di sesso e genere. È forse proprio il concetto di maternità, e
di corpo materno, che può dare utili indicazioni, che in questa sede
rimarranno necessariamente sommarie, riguardo al concetto di origine che ho
in mente. Senza voler glorificare il concetto di maternità, mi pare però
di poter dire alcune cose in proposito. Certamente il corpo materno è
l’origine primigenia e essenziale di ogni individuo, anche quando di tale
origine non si ha conoscenza perchè l’origine rimane innominabile
e innominata; e tuttavia, tale origine, che pure esiste in ogni caso, sconosciuta
o no, anche quando la si conosce rimane inappropriabile, sempre oltre, sempre
già persa, incapace di ergersi a dimora permanente; unico modo di riconquistarla
è di ripeterla, in una ripetizione che però non può essere
esattamente la stessa, e che tuttavia prosegue una trama antica di ospitalità
e generosità. Elemento che mi pare oltremodo interessante in questo modello
di origine è il fatto che la sua natura è, fin dall’inizio,
interrelazionale, cioè marcata nella sua stessa identità costitutiva
dalla presenza dell’altro. Non c’è madre senza prole, così
come non c’è prole senza madre, e la figliolanza, con i suoi bisogni
e desideri, costringe ad una continua ridefinizione del concetto di madre, incapace
così di riposarsi in una configurazione fissa. Si ha così un’origine
senza origine, che vive di un tempo senza tempo (quando si diventa infatti madri?
Con la nascita della figliolanza? Con il concepimento? Con il desiderio di maternità?
E quando si finisce, se si finisce, di essere madri?), in un universo in cui
spazio e tempo si fanno interscambiabili (spazio fisico occupato da un ventre
che lievita con il passare del tempo, scansione del tempo che avviene secondo
la crescita spaziale del feto), senza confini fissi, dove fuori e dentro diventano
concetti vaghi (quel feto che è estraneo, altro rispetto al corpo della
madre eppure cresce al suo interno), dove la circolazione libera eppure regolata
degli elementi fluidi, invece che lo scambio economico dei solidi, delle sostanze,
diventano la regola del benessere, materno e filiale.
L’identità etnica ebraica si è definita, almeno durante
un certo periodo della storia, secondo discendenze matrilineari. È stata,
secondo la lettura che ne ho dato nel libro da cui abbiamo iniziato quest’intervista,
la legge dell’identità, la cosidetta legge del padre, padrone e
patriarca, a contribuire in maniera determinante all’accadere di Auschwitz.
Forse allora una delle direttive su cui ricominciare un pensiero del dopo Auschwitz
potrebbe essere quella di un pensiero della madre, pensiero materno, pensiero
della maternità, pensiero dell’ospitalità e dell’accoglienza
che si fa dono all’altro. Dono di vita, non di morte, perché, come
ricorda Hannah Arendt, la vita è non per morire, ma per vivere. Ma è
solo, a questo punto, una suggestione e un suggerimento—una via di ricerca,
forse.
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